domenica 22 novembre 2009

BATTIATO


Canta Franco Battiato: «Uno dice che male c’è a organizzare feste private con delle belle ragazze per allietare primari e servitori dello stato? Non ci siamo capiti: e perché mai dovremmo pagare anche gli extra a dei rincoglioniti...?».

Ancora: «Che cosa possono le leggi dove regna soltanto il denaro? La giustizia non è altro che una pubblica merce. Di cosa vivrebbero ciarlatani e truffatori se non avessero moneta sonante da gettare come ami fra la gente...».

Versi quanto mai espliciti da ”Inneres auge”, il brano che dà il titolo al nuovo album (Universal) del sessantaquattrenne musicista siciliano. Sono passati diciotto anni da quando Battiato cantava ”Povera patria” («schiacciata dagli abusi del potere, di gente infame che non sa cos'è il pudore... tra i governanti, quanti perfetti e inutili buffoni...»). Era il ’91, si era alla vigilia della stagione di Mani Pulite e delle stragi mafiose, la parte sana del Paese si aggrappava alla speranza di un cambiamento. E l’artista scrisse quella splendida - e al tempo stesso dolente - invettiva contro l’arroganza del malgoverno, che si sperava non avesse bisogno di un seguito.

Il seguito - purtroppo e per fortuna - è arrivato. Purtroppo perchè è il segno che la situazione è, se possibile, ancora peggiore di quella che vivevamo all’alba degli anni Novanta. Per fortuna perchè almeno una sdegnata voce si leva, unica, fra i cosiddetti artisti, per denunciare la decadenza della vita pubblica. Con la complicità dei tanti che preferiscono un silenzio indifferente.

Sia come sia, ”Inneres auge” (qualcosa come ”l’occhio interiore” in tedesco) è un atto d’accusa contro una società malata, dove morale ed etica sono valori ormai fuori moda, dove il denaro è l’unico metro di giudizio. Situazione che Battiato aveva lucidamente previsto in tempi non sospetti. Ricordate ”Bandiera bianca” (da ”La voce del padrone”, dell’81)...? Ammoniva: «siamo figli delle stelle e pronipoti di sua maestà il denaro, per fortuna il mio razzismo non mi fa guardare quei programmi demenziali con tribune elettorali...». Insomma, gli anni passano ma il quadro non cambia. Anzi.

”Inneres auge” è uno dei quattro inediti dell’album. Gli altri sono ”U cuntu”, in dialetto siciliano con un verso finale in latino, in cui canta anche il filosofo Manlio Sgalambro; ”Inverno” di Fabrizio De Andrè (presentata a gennaio allo speciale di ”Che tempo che fa”, su Raitre, in occasione del decennale della morte del poeta genovese); ”Tibet”, cantata in inglese e composta nel 2008 contro il regime cinese, che finora era disponibile solo su iTunes.

Fra gli altri brani ci sono delle riuscitissime riletture di canzoni già pubblicate: ”Un'altra vita”, da ”Orizzonti perduti” del 1983; ”Haiku”, da ”Caffè de la Paix” del ’93; ”La quiete dopo un addio”, da ”Ferro battuto” del 2001. Riascoltate le quali, si ha conferma dell’antico detto: non c’è nulla di più inedito del già pubblicato. Soprattutto se firmato Franco Battiato.


TENCO


Può sembrar strano che escano ancora, magari da qualche cassetto, degli inediti di un artista scomparso nel gennaio ’67, cioè quasi quarantatré anni fa. Ma tant’è. È appena stato pubblicato ”Luigi Tenco, inediti” (Ala Bianca, collana ”I dischi del Club Tenco”), doppio album di un cantautore che ha anticipato la nostra miglior canzone d’autore.

Curato da Enrico de Angelis, responsabile artistico del Club Tenco, il doppio comprende due cd ricchissimi: nel primo compaiono canzoni mai pubblicate come ”Padroni della terra”, traduzione di ”Le deserteur” di Boris Vian, e tre brani che il cantautore piemontese non aveva mai inciso e che sono quindi stati affidati a interpreti come Massimo Ranieri (”Se tieni una stella”), Stefano Bollani (”No no no”, solo strumentale) e Morgan (”Darling remember”, traduzione in inglese di ”Vola colomba”).

Molte le versioni alternative di brani già noti ma con musiche, testi o arrangiamenti diversi dagli originali: ”Quello che tu vorresti avere da me” (sulla stessa musica de ”Il tempo dei limoni”), ”Quando”, ”Il tempo passò”, ”Come mi vedono gli altri”, ”Se stasera sono qui”.

Ma anche ”Ragazzo mio”, ”Non sono io”, ”Ah l'amore l'amore”, ”Vedrai vedrai”, ”Io sono uno”, ”Guarda se io”, ”Un giorno dopo l'altro” cantata in francese e in inglese, ”Ognuno è libero” in spagnolo. E ancora ”I know, don't know how” e ”The Continental”, eseguite al sax contralto da Tenco in registrazioni del ’57 e un'intervista radiofonica al cantautore di Sandro Ciotti.

Nel secondo cd, 17 brani interpretati da vari artisti in esibizioni tratte proprio dalla ”Rassegna della canzone d'autore” di Sanremo intitolata a Tenco: da Vinicio Capossela a Roberto Vecchioni, da Simone Cristicchi a Shel Shapiro, da Alice ad Alessandro Haber, dagli Skiantos a Tetes de Bois, da Giorgio Conte a Ricky Gianco, da Ada Montellanico a Eugenio Finardi...

"Luigi Tenco, inediti” anticipa un futuro progetto a cui da tempo il Club Tenco e Ala Bianca stanno lavorando: la pubblicazione in cofanetto dell'intera produzione del cantautore.


MARIO BIONDI Ai piani alti delle classifiche di vendita, da un paio di settimane c’è lui, Mario Biondi, la voce nera della musica italiana. Con ”If”, che comprende undici inediti e tre classici rivisitati con lo stile inconfondibile dell'artista catanese. Registrato tra Roma e Rio de Janeiro, masterizzato a New York e con il contributo degli archi registrati a Londra dalla Telefilmonic Orchestra London, il disco ospita tutti i musicisti che hanno accompagnato Biondi nella sua carriera: da Herman Jackson (piano) a Michael Baker (batteria), da Jacquès Morelenbaum (violoncello) a Ricardo Silveira (chitarra), da Sonny Thompson (basso e chitarra) a Lorenzo Tucci (batteria), da Fabrizio Bosso (tromba) a Giovanni Baglioni (chitarra)... Fra i brani: ”Serenity”, ”Something that was beautiful» (di Burt Bacharach), ”Be lonely”, "Love dreamer”, ”I know it's over» (versione inglese di ”E se domani”, di Carlo Alberto Rossi, cantata da Mina), ”Winter in America” (cover del celebre brano di Heron), ”Everlasting harmony”... Elegante e sofisticato.


SERGIO CAMMARIERE «Il suono sono andato a cercarmelo in posti lontani, ho immaginato un luogo di pace dove contemplare la natura...». Così Sergio Cammariere presenta il suo nuovo album, che mette tra parentesi le ambientazioni jazz dei lavori precedenti e si avventura in una ricerca musicale che lo porta a scoprire sonorità inedite: quasi un’incursione in mondi lontani di cui percepiamo a volte solo l’eco. L’album comprende tredici brani nuovi, di cui due solo strumentali. Esotici gli strumenti utilizzati: sitar, moxeño, vina, tampura, tabla... Al fianco dei tradizionali pianoforte, chitarre, violino, percussioni, tromba, sax, archi... «Ogni frammento di questo disco fa parte di un mosaico attraverso il quale s’immaginano le carovane come il senso della storia, il passaggio dell’umanità, generazioni senza luogo e senza tempo», spiega il musicista calabrese, sempre affiancato nella scrittura dei testi dall’antico socio Roberto Kunstler. Per chi acquista l’album su iTunes c’è una bonus track: “L’impotenza” di Giorgio Gaber, già presentata da Cammariere al Festival Gaber.


 

LIVING COLOUR e MARILYN MANSON


Living Colour domani sera in concerto al Deposito Giordani di Pordenone, Marilyn Manson dal vivo giovedì 26 novembre al Palaverde di Treviso. Un’accoppiata coi fiocchi, per il popolo del rock del Nordest, quella che il calendario propone per i prossimi giorni dalle nostre parti.

Nati nell’84 a New York (ma il loro primo album, ”Vivid”, è uscito solo nell’88) attorno al chitarrista Vernon Reid (ex Defunkt) e al cantante Corey Glover, in questi venticinque anni gli afroamericani Living Colour si sono imposti come gli esponenti forse più importanti del genere funk metal.

Si narra che fu solo grazie all’intervento di Mick Jagger, che espresse da subito il proprio parere positivo, che la band riuscì - dopo una sana dose di gavetta - a firmare il suo primo contratto discografico con la Epic Record nel 1987. L’anno dopo fu pubblicato il citato ”Vivid”. E la storia del gruppo ebbe inizio.

Dopo una carriera ormai lunga - con una breve ”pausa di riflessione”, fra il ’95 e il 2000 - due mesi fa è arrivato ”The chair in the doorway”, album nel quale spicca il brano ”Behind the sun” e che li ha confermati in questa posizione di primo piano. Grazie all’energia assicurata, oltre che dai due leader e fondatori, dal basso di Doug Wimbish e dalla batteria di Will Calhoun: veri motori della ”macchina” sonora chiamata Living Colour.

Da segnalare che due giorni dopo il concerto in programma domani a Pordenone, e cioè martedì 24 novembre, il tour europeo dei Living Colour farà tappa anche nella vicina Slovenia, per un concerto a Lubiana.

E siamo a Brian Hugh Warner, detto anche ”il reverendo”, quarantenne rocker che tanti anni fa ha scelto di farsi chiamare - meglio: chiamare il suo gruppo - Marilyn Manson in onore di Marilyn Monroe (a rappresentare nella sua concezione il bene e la bellezza) e di Charles Manson (per il male e la violenza). Il suo originalissimo mix di pose provocatorie e testi graffianti che parlano spesso di autodistruzione ha fatto il resto.

Nel corso di una carriera ormai lunga Marilyn Manson ha venduto infatti oltre sessantacinque milioni di dischi in tutto il mondo ed è sempre molto amato da schiere di fan, spesso giovanissimi, che lo imitano e lo seguono ovunque. ”The high end of low” è il titolo del suo nuovo album. Il suo breve tour italiano comprende soltanto due date: giovedì 26 novembre a Treviso, il giorno dopo a Milano.

Due brevi anticipazioni rock anche per il mese di dicembre. Martedì 8 dicembre arrivano a Jesolo, al Palazzo del Turismo, i Franz Ferdinand. Sempre nella località balneare veneta, e sempre al Palazzo del Turismo, venerdì 11 dicembre sono di scena i leggendari Deep Purple.

martedì 17 novembre 2009

COME MI BATTE FORTE IL TUO CUORE


di BENEDETTA TOBAGI


A volte lo chiama Walter, altre Tobagi, altre ancora semplicemente papà. Come nelle ultime righe della lettera che conclude il libro, quando gli confessa: ”Papà, questo libro è la mia rosa per te. Per te, come tutte le cose importanti. Con tutto il cuore”.

”Come mi batte forte il tuo cuore - Storia di mio padre” (Einaudi, 304 pagine, 19 euro), di Benedetta Tobagi, è un altro libro che andrebbe fatto leggere nelle scuole. Proprio come ”Spingendo la notte più in là”, di Mario Calabresi, pubblicato due anni fa. Entrambi spostano il dibattito sul terrorismo - di ieri, di oggi - nella prospettiva delle vittime.

Il libro è al tempo stesso lo straziante atto amore di una figlia che non ha praticamente conosciuto il padre e una ricerca storica e politica di prim’ordine sugli anni Settanta. Benedetta aveva tre anni il 28 maggio del 1980, quando suo padre Walter fu ucciso sotto casa da una semisconosciuta formazione terroristica. Ragazzi di buona famiglia, si disse, che cercavano di fare il ”salto di qualità” per essere ammessi nella macabra serie A del terrorismo.

Tobagi era nato in Umbria nel marzo 1947 a San Brizio, frazione di Spoleto. Padre ferroviere, che trasferisce la famiglia al Nord negli anni Cinquanta. Vanno ad abitare a Cusano Milanino. Gente povera e di sani principi.

La gavetta giornalistica ha radici nell’adolescenza. Al liceo Parini a quindici anni comincia a scrivere articoli di attualità sulla famosa ”Zanzara”. Poi collabora al settimanale sportivo Milaninter, a diciannove anni anni è al mensile Sciare, a ventuno è praticante all’Avanti. Da lì passa all’Avvenire e poi al Corriere di Informazione, prima di approdare nel ’76 al Corriere della Sera. Integra la vocazione di cronista con quella di studioso. Scrive libri e saggi sui marxisti leninisti, lo squadrismo fascista degli anni Venti, l’attentato a Togliatti, il potere dei sindacati confederali... Già, il sindacato: l’altra sua passione. Quando viene assassinato ha solo trentatre anni. È articolista di prima pagina del Corriere e presidente dell’Associazione Lombarda dei Giornalisti.

«Non ho ricordi di mio padre da vivo: è morto troppo presto. In compenso sono cresciuta assediata dall’immagine pubblica di Walter Tobagi», scrive l’autrice. Che quella mattina di maggio ha visto tutto: il padre per terra, il sangue, la madre disperata. «Hanno ucciso papà. Ma queste cose succedono solo nei film, non può essere vero. I compagni dell’asilo non mi credono. Allora insisto: ”Hanno ammazzato papà, gli hanno sparato, bum bum, con la pistola”. E mimo con le dita la forma dell’arma, una P38...».

Adolescente, Benedetta decide di studiare il ”caso Tobagi”. Per tentare di capire, per attenuare un dolore e un’assenza troppo grandi, per sfuggire alla ”comprensione cristiana” materna. «Attenta a non farti troppo male», le dice nonno Ulderico. Ma lei ha deciso. E ritrova «l’eco delle perplessità della mia infanzia nelle parole di un ex terrorista tedesco della Raf, che guardando all’esperienza dei ”compagni” italiani, si chiede perchè mai, mentre in Germania si colpivano capitani d’industria ed ex nazisti, a sud delle Alpi sotto il piombo dei sedicenti rivoluzionari caddero più spesso i riformisti».

«L’hanno ammazzato perchè aveva metodo», disse di lui Leonardo Sciascia. Se ne accorge bene la figlia, che scava fra le carte professionali e quelle più intime per ricostruirne la figura pubblica e privata. Allora rilegge i suoi articoli, i libri, le pagine di diario, gli appunti, le lettere... Da cui traspare un talento precocissimo.

Di idee socialiste - e dipinto a torto come ”uomo di Craxi” - di sé Tobagi scrive: «Mi sento molto eclettico, ideologicamente; ma sento che questo eclettismo non è un male, è una ricerca. La ricerca di un bandolo fra tante verità parziali che esistono, e non si possono né accettare né respingere in blocco».

E alla moglie, per giustificare le troppe assenze: «...con la speranza che possa essere meno assurda la società in cui, fra un decennio, i nostri michelangiolini (chiamava così Benedetta e Luca, di quattro anni più grande - ndr) si troveranno a vivere la loro adolescenza».

Marco Barbone, uno dei killer di Tobagi, era un ventunenne di buona famiglia all’epoca dell’omicidio. ”Pentitosi”, ha fatto solo tre anni di galera. Poi si è sposato in chiesa, ha adottato il cognome della madre, oggi lavora alla potente Compagnia delle Opere, quella fondata da don Giussani.

Benedetta parla anche del processo, degli incontri con i killer, delle verità ancora non scritte sull’omicidio di suo padre. All’epoca del quale qualcuno avanzò sospetti di complicità all’interno del Corriere. Ma l’autrice dimostra di non credere alla ”pista interna”. Sottolinea piuttosto le inquietanti coincidenze che portano dritte alla Loggia P2 di Licio Gelli, cui all’epoca erano affiliati direttore ed editore del quotidiano di via Solferino.

Misteri dolorosi e irrisolti. Rilanciati da un libro che bisognerebbe - come si diceva - far leggere ai ragazzi di oggi. Per far capire loro cos’è davvero successo nel nostro Paese negli anni Settanta.

lunedì 16 novembre 2009

TRIESTE: A DICEMBRE PIOTTA E CLAUDIO LOLLI


Uno è romano, l’altro è bolognese. Uno è un rapper figlio degli anni Novanta, l’altro è uno dei cantautori storici che hanno segnato gli anni Settanta. Uno ha un pubblico soprattutto di ragazzi, l’altro si rivolge a tutti ma è seguito soprattutto dagli ”ex ragazzi” nati nel suo stesso decennio, gli anni Cinquanta.

Questo per dire che Piotta (l’uno) e Claudio Lolli (l’altro) non potrebbero essere più diversi. Il calendario musicale triestino ha scelto di metterli assieme, l’uno vicino all’altro, in una sorta di ”due giorni” che si terrà nel capoluogo giuliano fra meno di venti giorni. Piotta sarà infatti per la prima volta a Trieste venerdì 4 dicembre al Raceway (Ippodromo di Montebello), Lolli ritorna dopo un’assenza di qualche anno sabato 5 dicembre al Teatro Bobbio, nell’ambito del festival Trieste Poesia.

Piotta - un tempo noto come ”Er” Piotta - è nato a Roma nel ’73, vero nome Tommaso Zanello. Il primo album, dopo varie prove discografiche, esce nel ’98 e s’intitola ”Comunque vada sarà un successo”. Dentro c’è anche quella ”Supercafone” che rimane il suo brano forse più noto. Nel 2004 partecipa anche al Festival di Sanremo con ”Ladro di te”.

A due anni da "Multi Culti", disco ricco di contaminazioni linguistiche internazionali, e reduce dall’itinerante ”Warped tour” statunitense (primo e finora unico italiano invitato alla manifestazione, che atteraversa gli States da est a ovest), il rapper di Montesacro è appena uscito con il nuovo album dal titolo "S(u)ono Diverso", nel quale mischia i suoni delle origini ad atmosfere e arrangiamenti più marcatamente rock.

E siamo a Claudio Lolli, uscito quest’anno con l’abum ”Lovesongs”. Il disco vede il cantautore bolognese - classe ’50, debuttò giovanissimo nel ’72 con ”Aspettando Godot” - dedicarsi per la prima volta interamente ai temi dell’amore. Con un lavoro molto curato anche dal punto di vista musicale, poichè i brani sono stati arricchiti dalle sonorità sperimentali del sassofonista Nicola Alesini e del chitarrista Paolo Capodacqua, che da anni accompagna Lolli dal vivo.

Il disco è arrivato a tre anni di distanza da ”La scoperta dell’America”, che a sua volta aveva seguito la rivisitazione - assieme ai calabresi trapiantati a Bologna del Parto delle Nuvole Pesanti - dello storico album del ’76 ”Ho visto anche degli zingari felici”. Canzone che lo scorso anno anche Luca Carboni ha riletto nel suo ”Musiche ribelli”.

Il ”Lovesongs tour” sarebbe dovuto partire a maggio, ma è stato rinviato per una frattura alla rotula dell’artista, che ha richiesto una lunga riabilitazione e gli ha impedito per mesi di esibirsi (ulteriori informazioni su www.storiedinote.com)

giovedì 12 novembre 2009

ELISA A DUINO


 Elisa diventa mamma e sforna il disco forse più rock della sua giovane ma già importante carriera. Per presentare ”Heart”, che esce oggi, la trentaduenne popstar di Monfalcone ha invitato stampa e tivù nazionali al Castello di Duino, a due passi da casa sua. E mentre la piccola Emma Cecile dorme al sole novembrino accudita amorevolmente dalla nonna materna, lei spiega com’è nato l’album e parla del suo momento magico, artistico e personale.

«Sì, ho fatto un disco rock - spiega Elisa - anche perchè volevo cose divertenti da suonare dal vivo. Sono canzoni nate in un periodo di tempo ampio. ”Lisert” è addirittura del ’98. Doveva già entrare in album precedenti, ma poi per una cosa o per l’altra era sempre rimasta fuori. Stavolta sono riuscita a inserirla, anche come atto d’amore per la mia terra, alla quale rimango molto legata. Le mie radici sono sempre qui, è qui che ho scelto di continuare a vivere. E ne sono soddisfatta. Non mi sento prigioniera. Ma non trovo ragioni per andare a vivere altrove, anche perchè posso partire ogni volta che serve o che voglio».

Nel disco, che arriva a cinque anni da ”Pearl days” e dopo la raccolta ”Soundtrack”, e richiama l’energia del ”Pipes & Flowers” del fulminante esordio datato ’97, ci sono quattordici canzoni nuove. «Non c’è un filo conduttore unico. L’album - dice la cantante - non è stato pensato in maniera globale. Diciamo che è un insieme di canzoni accomunate dal linguaggio musicale, che in effetti è più rock, più aggressivo delle mie ultime cose. In questo è venuta fuori l’anima di Andrea (Andrea Rigonat, chitarrista della sua band dal ’96 ma soprattutto padre felice di Emma Cecile - ndr), che ha prodotto e arrangiato con me il disco, cofirmando alche alcune canzoni».

”Heart”, ovvero ”cuore”. Quanto di più intimo e centrale si possa immaginare. «Ho scelto di intitolarlo così perchè stavolta ho messo da parte la razionalità. In questa fase della mia vita hanno prevalso le ragioni del cuore, per la musica e per tutto il resto. La mia vita musicale e privata è oggi una scelta d’istinto, direi quasi di pancia. Sì, a guidarmi è stato il cuore. E con il cuore ho abbattuto filtri e barriere che avevo dentro».

Con questo disco Elisa torna a cantare soprattutto in inglese. «Ma in realtà - precisa - io dall’inglese non mi ero mai allontanata. Anche se il pubblico ricorda di più le mie canzoni in italiano. E pure quest’album, inizialmente, doveva essere in italiano. Poi, quando sono rimasta incinta, mi sono in qualche modo inabissata. Ho provato a scrivere in italiano, ma mentre a livello musicale il lavoro stava procedendo in modo fluido, sui testi mi sentivo in difficoltà. E diventavo quasi isterica, anche perchè per la gravidanza non potevo fumare. Ma non volevo fare il compitino in classe, ero terrorizzata dallo scrivere cose glaciali, nelle quali poi non mi sarei riconosciuta».

Fra le quattordici canzoni ci sono due duetti: ”Ti vorrei sollevare” con Giuliano Sangiorgi dei Negramaro (singolo apripista già molto trasmesso dalle radio) e ”Forgiveness” con Antony Hegarty (quello di Antony and The Johnsons). «La prima canzone - spiega - l’ho scritta ad aprile, già pensando a un possibile duetto con Giuliano. Lui è intenso, istintivo, ha la potenza vocale giusta».

E Antony? «L’avevo conosciuto al suo concerto milanese della primavera scorsa, al Conservatorio. Sono rimasta affascinata dalla sua voce fuori dallo spazio e dal tempo, addirittura fuori dal sesso, per quel suo timbro così puro e incontaminato da risultare assolutamente classico. E perfetto per la canzone. Il duetto purtroppo è stato solo virtuale: lui a New York, noi a Milano. Ma abbiamo comunicato molto, scambiandoci ”file” e opinioni».

Qualcuno chiede se ”ricambierà la cortesia” nel prossimo disco dei Negramaro. Elisa e il suo staff (che ruota attorno alla sorella manager, Elena Toffoli) sorridono ma si vede chiaramente che sono presi in contropiede. Non confermano né smentiscono, ma la cosa - considerato anche che la cantante monfalconese e il gruppo salentino fanno parte entrambi della scuderia Sugar, di Caterina Caselli - ha tutta l’aria di essere già decisa e programmata. È solo questione di tempo.

Nel disco c’è anche una cover: ”Mad world” dei Tears for Fears: «Guardando il film ”Donnie Darko” - rivela Elisa - sono rimasta folgorata dalla versione acustica di Michael Andrews e Gary Jules. E l’ho voluta inserire nel disco».

Ma il tempo vola. E la piccola Emma Cecile reclama giustamente la sua dose di attenzioni. Fra le interviste televisive e l’incontro con la stampa, s’impone dunque una pausa per l’allattamento. Bissata un paio d’ore dopo, a incontro ultimato.

«È nata il 22 ottobre - racconta mamma Elisa - dopo quarantuno, interminabili ore di travaglio. La data prevista per il parto era il 2 novembre (e scatta un gesto scaramantico molto meridionale... - ndr), ma lei ha deciso di venire al mondo in anticipo. Meglio così. Noi ci eravamo preparati per il parto in casa, avevamo comprato persino una piccola piscina per l’occasione, ma poi non è stato possibile ed Emma Cecile è nata all’ospedale di Monfalcone. Devo dire che non ho mai urlato tanto in vita mai. Anzi, ho urlato talmente tanto che a questo punto potrei fare la cantante di un gruppo hard rock».

Il doppio nome? «Emma era quello che ci girava per la testa da tempo. Poi Andrea si è innamorato di Cecile, in onore del pianista jazz Cecil Taylor. Alla fine, abbiamo semplicemente messo assieme i due nomi. Essere mamma ha influenzato questo disco, mi ha reso più spontanea ma anche più pratica, più diretta...».

A primavera Elisa sarà di nuovo in tour. Debutto il 6 aprile da Conegliano Veneto (per ora la data più vicina alla nostra zona, assieme a quella di Padova il 7 maggio), e poi si prosegue in giro per la penisola. «Ma prima - rivela - dobbiamo trovare una tata. Per ora siamo noi a occuparci della bimba: non vogliamo estranei in casa, soprattutto di notte».

Elisa guarda il tramonto e ricorda: «Da ragazzi andavamo al mare lì, a Duino. Chi aveva il motorino a volte trainava qualcuno che era in bicicletta. Sì, ho girato il mondo, ma continuo ad amare molto questa terra...».

mercoledì 4 novembre 2009

DEMETRIO STRATOS, FILM AL MIELA


"Da Pugni chiusi agli Area, alla ricerca vocale estrema”. È il sottotitolo del film-documentario ”La voce Stratos”, di Luciano D’Onofrio e Monica Affatato, che viene presentato domani sera al Teatro Miela. Ma è anche la sintesi di un percorso artistico breve ma intensissimo.

Sono passati trent’anni da quel 13 giugno del ’79, data della morte di Demetrio Stratos, cantante e leader negli anni Sessanta dei Ribelli e nei Settanta degli Area, e poi massimo sperimentatore dell’umana vocalità.

Nato nel ’45 ad Alessandria d’Egitto da genitori greci, Stratos giunge giovanissimo nella Milano degli anni Sessanta, dove con i Ribelli fa parte del Clan di Celentano. Fra tante cover di brani stranieri, ”Pugni chiusi” è il maggior successo di quella breve stagione. Segue l’esperienza con gli Area, punta di diamante di una ricerca musicale che rifugge gli schemi precostituiti mischiando rock, jazz, avanguardia, improvvisazione, musica etnica. Con un approccio fortemente politicizzato, come dimostrano nel ’73 l’album d’esordio ”Arbeit macht frei” (il lavoro rende liberi, scritta che campeggiava all’ingresso dei lager nazisti) e poi lavori come ”Caution Radiaton Area”, ”Crac!”, ”Are(a)zione”, ”Maledetti”, ”1978: gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”...

Gli Area vanno verso la musica totale, Demetrio intraprende la difficile strada del ricercatore solitario, che lo porta a collaborare con John Cage ed esplorare i territori dell’avanguardia pura. Album solisti come ”Metrodora”, ”Cantare la voce” e ”Le milleuna” documentano un lavoro di sperimentazione vocale che sfiora i limiti dell’umano, basti pensare che la sua voce varca la soglia ”impossibile” dei settemila hertz. Studiando e perfezionando una tecnica vocale originaria dei pastori mongoli, riesce a emettere le cosiddette diplofonie e triplofonie, cioè due o tre suoni vocali di frequenza diversa, simultaneamente.

Ma intanto l’uomo sta lottando la battaglia più difficile: contro una rarissima forma di leucemia al midollo spinale che in pochi mesi ne spegne la forte fibra. Quando muore a New York, dove si era recato nell’ultima speranza di guarigione, Demetrio aveva solo trentaquattro anni. Ma aveva già scritto il proprio nome nella storia della musica del Novecento.

Il documentario che viene presentato domani a Trieste (alle 18.30 e alle 21, alle 20.30 introduzione di Gino D’Eliso e incontro con i registi), a cura di Bonawentura, Cappella Underground e Filmakers, narra il suo percorso biografico e artistico, riesumando vecchi filmati e intervistando amici e colleghi musicisti (fra gli altri: Mauro Pagani, Claudio Rocchi, Nanni Balestrini, Patrick Djivas...), ma indaga anche su tematiche inerenti voce umana e linguaggi diversi.

«La mia scommessa consiste nel mettere in comunicazione mondi che solo in apparenza sono lontani», ci aveva detto dopo un concerto con gli Area, nel ’77, a Trieste. Come dire: Demetrio Stratos era avanti di almeno un paio di decenni. Anche per questo lo ricordiamo. E ci manca.

THRILLER LIVE AL ROSSETTI


Politeama Rossetti? Macchè. Da ieri e fino a domenica, il teatro triestino somiglia al Lyric Theatre di Londra. E ciò grazie a ”Thriller Live”, lo spettacolo che Adrian Grant (presente ieri sera in platea) aveva immaginato per celebrare in vita la carriera e i successi di Michael Jackson, ma che dopo la morte di quest’ultimo, nel giugno scorso, si è trasformato comunque in qualcosa di diverso.

La struttura dello show è rimasta praticamente immutata. Una sorta di grande jukebox, forse senz’anima, con dentro tutta la storia e quasi tutti i successi del nostro, dagli esordi ragazzino con i fratelli nei Jackson 5 fino alla consacrazione. Perchè la forza dello spettacolo sta nella musica, in queste canzoni - soprattutto degli anni Ottanta - già trasformate in classici della musica popolare: <CF>”I want you back” e ”I’ll be there”, ”Show you the way to go” e ”Can you feel it”, ”Rock with you” e ”She’s out of my life”, ”Beat it” e ”Billie Jean”, ”Earth song” e ”Man in the mirror”. E ovviamente ”Thriller”.

La scomparsa del Re del pop ha prodotto due conseguenze per lo spettacolo. La prima: gli autori hanno modificato l’inizio. Una sorta di preghiera laica in apertura, col brano ”Gone too soon” (qualcosa come ”andato via troppo presto”), che stava nell’album ”Dangerous”, del ’91, ed era dedicato a Ryan White, un giovane stroncato dall'Aids, che aveva conosciuto Michael prima di morire. Jackson eseguì questa canzone al gala per la prima elezione di Bill Clinton, nel gennaio ’93, quando sottolineò l'importanza di sostenere la ricerca contro quel male.

La seconda conseguenza non si vede in scena ma forse è più importante. Quello nato come un ”music show” che, dopo l’esordio nel 2006 al Dominion Theatre di Londra e i tre tour di successo in Inghilterra, doveva restare in scena solo per qualche mese nel West End londinese, ora è uno spettacolo rappresentato contemporaneamente da tre compagnie: la prima è tuttora in scena al Lyric Theatre, la seconda è quella arrivata a Trieste per il tour italiano (che proseguirà a Roma, Bologna e Milano), la terza è stata messa su in fretta e furia per accogliere le tante richieste piovute addosso agli organizzatori. Insomma, oltre che una macchina da soldi, un vero e proprio cult-show del quale oggi nessuno può prevedere la longevità.

In scena, sdoppiata da una balconata con due scalinate laterali, una rutilante giostra di luci e di effetti multimediali è la scatola magica nella quale un cast di cantanti e ballerini mette in scena la leggenda di ”Jacko”.

Si comincia, come si diceva, da Michael ragazzino (interpretato ieri sera dal determinatissimo quattordicenne Jeremiah Whitfield, ”from Los Angeles”, che si alternerà nei prossimi giorni con Jordan D. Bratton) con i fratelli nei Jackson 5 degli esordi. Capigliature afro, pantaloni a zampa d’elefante, ritmi soul. Erano gli anni della Motown, del padre-padrone che aveva capito subito le potenzialità del piccolino, e lo menava senza pietà se non si esercitava a sufficienza. Michael aveva soltanto cinque anni, nel ’63, quando debuttò con i fratelli al mitico Apollo Theatre, la mecca della musica nera.

Musica nera da cui ”Jacko” prese le mosse ma che volle e seppe trasformare in qualcosa di diverso. Lui, primo artista di colore a diventare una star mondiale, per i bianchi e per i neri, mischiando i suoni e le radici della sua razza con le suggestioni del pop e del rock.

”Thriller Live”, a passo di moonwalking, ripercorre la strabiliante carriera seguita a quegli esordi bambini. Il primo album da solista, ”Off the wall”, del ’79. Michael ha quasi vent’anni, sua maestà Quincy Jones non si limita a produrre l’album: lo conduce quasi per mano nei meandri di una dance venata di rock destinata ad aprirgli le porte del successo mondiale e trasformarlo in leggenda.

Che diventa tale proprio con l’album ”Thriller”, uscito nell’82, sempre siglato Quincy Jones: l’album dei record, della sintesi quasi perfetta fra pop e musica nera, di successi come ”Billy Jean” e Beat it”, ma anche di quel cortometraggio girato nell’83 da John Landis, con la trasformazione di Michael in zombie, che è tuttora considerato il miglior video musicale di sempre.

Poi le canzoni di ”Bad” e di ”Dangerous”, album rispettivamente dell’87 e del ’91, e poi ancora le cose più recenti, che non sono le migliori della sua carriera. Lo spettacolo, una canzone e una coreografia dietro l’altra, racconta tutta questa storia artistica. Tace ovviamente del momento del declino, che Jackson voleva arrestare proprio con il ritorno in scena a Londra nel luglio scorso.

Quei concerti l’artista non ha fatto in tempo a tenerli. Ma, come spesso accade in questi casi, la sua morte ha fatto di più, aggiungendo l’ultimo definitivo tassello alla sua trasformazione in mito. Un mito che resisterà agli anni e ai decenni, e che viene celebrato anche da questo show.

Al Rossetti, primo tempo deboluccio, con l’ombra di Michael che sembra gravare su tutto. Poi, nella seconda parte, grazie ai pezzi da novanta del repertorio e alla bravura dei protagonisti, lo show decolla. Alla fine, entusiasmo autentico e applausi per tutti. Per i cinque cantanti (fra cui anche una donna: la brava Hayley Evetts), per i dieci ballerini che tengono la scena con consumata professionalità, per i musicisti che suonano nascosti dietro uno schermo. Ma l’applauso più sentito forse è per lui, per Michael Jackson, l’eterno Peter Pan del pop, vero protagonista di uno show che ne celebra la grandezza senza tempo.

lunedì 2 novembre 2009

SUNSPLASH LASCIA IL FVG


UDINE «Un altro mondo è possibile» era lo slogan della sedicesima edizione del Rototom Sunsplash, il più importante festival europeo di musica e cultura reggae, svoltosi dal 2 all’11 luglio scorso al Parco del Rivellino di Osoppo. Ebbene, quell’«altro mondo possibile», gli organizzatori della rassegna ma soprattutto le migliaia di partecipanti che ogni estate arrivavano qui da terre anche lontane, andranno a cercarlo altrove. Chi dice in un’altra regione italiana, chi addirittura a Barcellona.

L’annuncio ufficiale è arrivato ieri, in un’affollata conferenza stampa svoltasi al Visionario di Udine. Ma la (brutta) notizia era nell’aria già da tempo. Almeno dall’estate 2008, quando la nuova giunta regionale di centrodestra aveva annunciato di voler tagliare i finanziamenti alla manifestazione. Ufficialmente a causa dei tempi di crisi e di ristrettezze economiche, in realtà con l’obbiettivo di dare un segnale chiaro di discontinuità con il passato, nei confronti di un festival storicamente ”frequentato” da droghe e droghette leggere.

Ora è arrivata la denuncia all'autorità giudiziaria del presidente dell’associazione Rototom, Filippo Giunta, per il reato di agevolazione dell'uso di sostanze stupefacenti sulla base dell'articolo 79 della legge Fini-Giovanardi. Il rischio: da tre a dieci anni di reclusione. Per il sindaco di Osoppo c’è anche l’abuso di ufficio, solo per aver concesso l’uso dell’area di campeggio esterna al festival.

«Una accusa fragile e paradossale per questo festival - dicono gli interessati - che ha speso centinaia di migliaia di euro per garantire le migliori condizioni di sicurezza, in una collaborazione piena con le forze dell'ordine».

Secondo l'accusa il Sunsplash agevola l'uso di marijuana per il solo fatto di essere un festival reggae. Nelle motivazioni si legge infatti che «l'ideologia rastafariana prevede l'associazione tra la musica reggae e la mariuana». È chiaro, sottolineano gli organizzatori, che una simile interpretazione della legge potrebbe colpire chiunque organizzi anche solo una serata reggae.

Intanto, il 13 novembre parte da Udine la «campagna nazionale di libertà» indetta dal Rototom: musica, incontri e interventi con il titolo «Non processate Bob Marley». E il sindaco di Udine, Furio Honsell, dice: «Perdere il Sunsplash di Osoppo sarebbe per la nostra regione un impoverimento sul piano culturale ed etico prima di tutto. La cultura del Sunsplash promuove l'antirazzismo e l'anticoloniasmo attraverso dibattiti e forum di altissimo livello. Grazie al Rototom il Friuli Venezia Giulia è entrato in contatto con altre culture, aprendosi alla costruzione di una dimensione culturale planetaria che oggi è in gioco».

Nel frattempo, dopo quasi vent’anni, il Rototom Sunsplash lascia il Friuli Venezia Giulia nel quale è nato. E che molti giovani, in Europa e nel mondo, conoscevano anche - o solo - grazie a quel festival. Com’era quello slogan turistico? Ospiti di gente unica. Sì, ma evidentemente senza pericolose contaminazioni con altri mondi e altre culture.


 

DANIELE LUTTAZZI


E' il David Letterman italiano. Magari un po’ volgaruccio, ma un piccolo lord al confronto dell’Italia in cui viviamo. E mentre il suo illustre collega statunitense sta da anni in prima serata, lui, Daniele Luttazzi, è stato cacciato con ignominia dalla televisione di casa nostra. Dunque per una parte del pubblico italiano è come se non esistesse più.

Non certo per chi va a teatro e legge libri. Stasera il quarantottenne autore satirico di Santarcangelo di Romagna debutta al Teatro Nuovo di Milano con la nuova versione del suo ”Va dove ti porta il clito” («Ogni tanto - dice - riporto in scena i miei monologhi classici. Li riscrivo di continuo: miglioro io, migliorano loro. E il pubblico cambia, adesso la mia platea è soprattutto di ventenni che avevano otto anni alla mia edizione...»). E domani esce con il suo nuovo libro, ”La guerra civile fredda” (Canguri Feltrinelli, pagg. 240, euro 15).

Dentro c’è la scoppiettante e a tratti esilarante follia cui il pubblico della televisione italiana, pubblica e privata, non può più assistere causa embargo politico. «L'ostracismo - ammette Luttazzi - mi pesa, eccome: la tv non è un hobby. Non è normale che uno non possa fare satira in tv perchè c'è il veto del capataz. È marcatissimo. Sono però ostico anche ai clan Pd, dato che ne colpisco l'inconsistenza politica. E ai cattolici, della cui religione mi faccio beffe. All'estero la satira è libera e in prime time».

Appunto. L’autore descrive il libro come «l’esito del progetto organico, reazionario, fatto di disuguaglianze e gerarchie, che è in atto da un ventennio nel Paese. Ne sono conseguiti, fra l’altro, un aumento del 553% della cassa integrazione, una manovra economica che beffa i ceti medi e un piano federalista che porterà alla divisione fra regioni di serie A (magari da annettere alla Carinzia) e di serie B...».

Secondo Luttazzi, «nella nuova realtà politica, tutta emotiva, la popolarità sostituisce la legittimazione; la vittoria la credibilità; i sondaggi l’ideologia. Una volta agganciato emotivamente, l’elettore sospende la propria capacità critica e finisce per votare anche chi, a conti fatti, non gli converrebbe».

Il futuro? Non promette nulla di buono. «Non ci saranno novità - sostiene Daniele Luttazzi - finchè il conflitto di interessi berlusconiano continuerà ad avvelenare il Paese».