sabato 31 ottobre 2009

ADRIAN GRANT / THRILLER LIVE


Conto alla rovescia per la prima nazionale di ”Thriller Live”, martedì sera al Politeama Rossetti. Lo show musicale (come sottolineano gli organizzatori, si tratta di un ”music show”, non di un musical...), nato per celebrare la carriera di Michael Jackson, con la morte dell’artista a giugno è diventato lo spettacolo di punta della stagione teatral-musicale.

«L’idea di realizzare lo spettacolo - dice Adrian Grant, ideatore e co-produttore dello show, ma anche amico e socio della popstar, nonchè autore di ”Michael Jackson, The Visual Documentary” - mi è venuta nel 2002, quando decisi di trasformare la Michael Jackson Celebration che già organizzavo in uno show da rappresentare a teatro».

La prima Celebration è del ’91.

«Sì, era un tributo al Re del pop e andò avanti per dieci anni. Nel 2001 lui stesso partecipò allo show a Londra e vide oltre cento performer rendergli omaggio. Alla fine della serata salì sul palco e disse ai tremila fan in attesa che riteneva la Celebration ”splendida e incredibile”».

Era contrario a uno show sulla sua vita?

«Assolutamente no. Lui e il suo staff erano al corrente e informati dello show. Nel 2007 Michael in persona mi augurò buona fortuna per la produzione. Era collaborativo, come già lo era stato per la Celebration, dove mandava spesso una sua troupe per filmare lo show e gli spettatori».

Però non ha fatto in tempo a vedere lo show.

«Ed è davvero un peccato. Noi abbiamo debuttato il 2 gennaio 2009, al Lyric Theatre, nel West End londinese. Ma Kenny Ortega (regista del film ”This it” - ndr) mi ha detto che Michael aveva programmato di venirlo a vedere a luglio, quand’era in programma il suo ritorno sulle scene a Londra. Poi, è successa la disgrazia».

Che ha commosso il mondo. Se lo aspettava?

«Sicuramente lui meritava questa grande partecipazione popolare. Ma penso che sia una vergogna aver dovuto attenderne la scomparsa perchè gli venissero riconosciuti gli onori e il rispetto che meritava da vivo. Comunque nelle settimane successive al lutto c’è stata una tale copertura da parte dei media che tutti hanno potuto vedere che splendida e genuina persona lui fosse».

Cosa pensa del grande business che è partito dopo la sua morte?

«Si sta facendo di tutto per proteggere la sua immagine, ma anche per massimizzare i profitti per la sua famiglia, per i suoi figli e per le opere di carità che l’artista portava avanti. È normale. E credo sia quello che lui avrebbe voluto».

Come sono stati scelti i protagonisti dello show?

«Il casting è stata la parte più difficile, perchè Jackson era un talento unico. Sin dal primo giorno sapevo che non lo avrei impersonato con un solo artista sul palco, volendo mostrare le varie facce del suo talento. Ho scelto allora cinque protagonisti: un bambino per gli anni dei Jackson 5, un cantante soul, uno pop, uno rock e una cantante donna che ha sorpreso molti».

E poi c’era il Jackson ballerino.

«Certo, abbiamo scelto un protagonista ballerino per canzoni come ”Smooth criminal”, ”Thriller” e ”Billie Jean”. E dieci ballerini, uomini e donne, che danno vita sul palco alle fantastiche coreografie del regista Gary Lloyd. Per loro è un sogno diventato realtà far parte di uno show ispirato a un’icona con cui sono cresciuti».

Pensa che gli spettacoli di luglio lo avrebbero rilanciato?

«Sì, lo avrebbero confermato come il più grande showman del mondo. Lui era un perfezionista e lavorava per migliorare sempre. Aveva ancora molto da dare, sulla scena e fuori».

Ci sarà un altro Michael Jackson?

Non credo. L’industria musicale è molto cambiata in questi anni. Lui è cresciuto nell’era della Motown, imparando da gente come Stevie Wonder, Smokey Robinson, James Brown. E ha sempre lavorato duro per migliorare».

Perchè era il Re del pop?

«Perchè potevi trovare uno che cantasse meglio, uno che ballasse meglio e uno che scrivesse meglio di lui. Ma quel che ne ha fatto ”il re” era la splendida maniera in cui lui faceva tutte queste cose assieme, con un suo stile unico. Come cantante aveva un’estensione di quattro ottave, come ballerino era secondo solo a Fred Astaire, come autore ha scritto brani che sono autentici classici del pop. Nello show ho voluto raccontare la sua grandezza. E per questo - conclude Grant, che martedì sarà al Rossetti - non credo ci sarà mai un altro Michael Jackson».

"Thriller Live” rimarrà al Rossetti fino a domenica prossima. Poi sarà a Roma, Bologna e Milano. Intanto la ”Jackson mania” prosegue anche al cinema. Il film ”This is it”, sulle prove per i concerti previsti e mai andati in scena a luglio a Londra, ha incassato venti milioni di dollari solo nel primo giorno di programmazione. File nei cinema dove viene proiettato. Anche a Trieste, al Cinecity delle Torri e al Nazionale.


 

mercoledì 28 ottobre 2009

DISCHI - CARMEN CONSOLI


La cantantessa è tornata. La bambina impertinente è cresciuta. Confusa e felice come quando anni fa ci ha fulminati con il suo esordio, prende carta e penna e microfono e dice la sua su quest’Italia scassata. Sulle donne, sui padri e sulle figlie, sui nostri rapporti personali, su questa società. A tre anni di distanza dal precedente ”Eva contro Eva”, Carmen Consoli si ripresenta con l’album ”Elettra” (Universal), che arriva nei negozi il 30 ottobre ma si può ascoltare in Rete già da qualche giorno.

La trentacinquenne cantautrice e musicista catanese prende a prestito una figura mitologica per parlare dell’Italia di oggi, della mercificazione della donna, tema che torna spesso nel disco.

Tanto che alla presentazione romana del disco, l’altro giorno ha detto: «Sapete che vi dico, voglio diventare una escort, anzi per chiamare le cose col loro nome una ”buttana”. Tanto essendo una donna italiana verrò vista sempre così e per tale mi tratteranno...».

Ma Carmen va oltre. Usando la musica, le canzoni anche come medicina per superare la rabbia e il dolore. Nella psicanalisi Elettra, complessa figura di donna, è il contraltare femminile di Edipo: non il figlio innamorato della madre, ma la figlia innamorata del padre. L’origine è nella mitologia greca, che tramanda la figura di questa donna che istiga il fratello a vendicarsi sulla madre per la morte del padre.

«Questo è un disco sull'amore paterno - dice l’artista, che ha perso il padre pochi mesi fa -, Elettra rappresenta il mettere da parte l'amore materno per scoprire il rapporto con il padre, che è più sottile, meno scontato: un sentimento che si scopre col tempo e che racchiude tutto ciò che non è scontato».

Lavoro pieno di sfaccettature, molto ”al femminile”, acustico ma ricco di suoni rock e anche di folklore siciliano. Dieci brani che formano un unicum, sospeso fra pop e melodia, che a tratti sembra inscindibile.

"Mandaci una cartolina" è dedicata al padre scomparso, con la partecipazione di Franco Battiato, fra l’altro suo vicino di casa alle pendici dell’Etna. E presente anche in "Marie ti amiamo", la storia - con versi anche in arabo - di una bambina che ha peccato perchè non ricorda i canti di Natale.

"Non molto lontano da qui" è il primo singolo estratto dall'album, con un video ambientato in un bordello di tanti anni fa. «Mi piaceva vestire i panni della prostituta - rivela l’artista - perchè una delle idee forti dietro al disco è che ognuno si vende, sacrificando le sue reali aspirazioni per omologarsi».

Ancora: ”Mio zio” parla di pedofilia, di violenza domestica. E mostra come spesso le verità scomode vengono nascoste perchè c'è vergogna e si pensa sia meglio lavare i panni sporchi in casa.

”Col nome giusto” ci riporta alla Carmen dei momenti migliori. ”Sud Est” propone il tema del viaggio. ”’A finestra” è in dialetto siciliano: una conferma dell'amore per le proprie radici e della ricerca multilinguistica della cantante. Che dal 3 febbraio è in tour. Debutto all'Auditorium di Roma.


SKUNK ANANSIE


Sarà che Skin da sola non ha avuto lo stesso successo che le sorrideva con gli Skunk Anansie. Sarà che i suoi ”orfani” non avevano nemmeno tentato di rimpiazarla. Fatto sta che dopo quasi un decennio di pausa la band che segnato gli ultimi anni del secolo (e del millennio) torna assieme: ”Smashes & Trashes” (Carosello) è il ”best of” che segna la ”reunion” di una delle rock band più amate degli ultimi anni.

Rimasterizzato in digitale, il disco presenta brani selezionati dai primi tre album della band. Passando dalla gioiosa ”Weak” alla celeberrima ”Hedonism (Just because you feel good)”, da ”Secretly” a ”Charlie big potato”, si materializza una raccolta senza tempo dove ritrovare, traccia dopo traccia, successi ancora vivi. E i tre inediti - «Because of you”, ”Squander” e ”Tear the place up” - vibrano dell’energia necessaria a pensare a una ripartenza che vada al di là di questa uscita.

«I nuovi brani sembrano davvero enfatizzare ciò che di più buono ha la band: testi forti, ritornelli incisivi, ottimi arrangiamenti... E anche qualche stranezza gettata in mezzo», affermano gli Skunk Anansie. «Questa è la differenza tra una nuova formazione e ciò che stiamo facendo. La maggior parte delle band che tornano insieme speculano sul loro passato. Per noi questo sarebbe un punto d'inizio. Quello che per noi è davvero eccitante è il futuro là fuori».

Dei tre brani nuovi, ”Because of you” sembra quello in grado di coniugare con grande equilibrio le due anime del gruppo: l’energia travolgente unita a melodie estremamente contagiose.

Dal 9 ottobre il gruppo sta girando l’Europa in tour: il 15 novembre sono a Milano, il 16 a Firenze. A dicembre, la vocalist Skin, Cass al basso, Ace alla chitarra e Mark Richardson alla batteria entrano in studio per registrare il nuovo album, stavolta tutto di inediti, la cui uscita è prevista per la primavera/estate dell’anno prossimo. Dunque è vero: la storia degli Skunk Anansie è ripartita...


IACCHETTI Ci sono anche i triestini della Witz Orchestra, nel nuovo album di Enzo Iacchetti dedicato alle canzoni di Giorgio Gaber. Il comico pensava da tempo a questo gesto di stima e d’amore per l’amico e maestro di origine triestina. E il destino ha voluto che ad accompagnarlo in questa avventura, dopo tante altre vissute assieme dal vivo e in tivù, ci fosse proprio la band capitanata da Toni Soranno e Loretta Califra. Assieme, rivisitano i brani più famosi del primo repertorio gaberiano: da ”Il Riccardo" a "Barbera & Champagne", dal "Cerutti Gino" alla "Torpedo Blu", passando per "Ma pensa te" e "Porta Romana"... «Ho provato a metter mano alle prime canzoni di Giorgio, facendogli qualche scherzo - dice Enzino -. È chiaro che fatte da lui sono molto più vere. Ma il mio intento è quello di far sì che chi conosce Gaber non lo dimentichi mai, e chi non lo conosce possa sapere quanto fosse bravo, inimitabile e irraggiungibile». Iacchetti è da anni una delle anime del Festival Gaber che si svolge ogni estate a Viareggio.


BASTARD SONS Mentre la terza edizione di ”X Factor” sta facendo seriamente rimpiangere le prime due, prosegue la strada di alcuni solisti e gruppi lanciati dalla gara musicale di Raidue. I ”tre trentini” (e qui potrebbe partire la filastrocca...) che si fanno chiamare The bastard sons of Dioniso, finalisti dell’edizione dell’anno scorso, dopo il mini-cd ”L’amor carnale” pubblicato appena finito il programma, escono in questi giorni con l’album ”In stasi perpetua”. E dimostrano che la fama televisiva non li ha cambiati di mezza virgola. Rimangono i tre ragazzacci cresciuti fra le valli trentine, che non hanno abbandonato, amanti delle schitarrate rock e degli sberleffi irriverenti. Il disco - dicono - «riassume sei anni di rock alpestre con retrogusto di cantina». ”Mi par che per adesso” è il singolo apripista, molto trasmesso dalle radio in questi giorni. Loro lo definiscono «un connubio tra opera lirica e chitarroni distorti», rivelando che hanno mutuato da ”L'incoronazione di Poppea”, opera lirica di Claudio Monteverdi, l'ispirazione e parte del testo. Dal 28 novembre sono in tour.


 

LIBRO BEPPINO ENGLARO


«Ho solo una certezza: il rispetto, vera espressione d’amore per Eluana e Saturna, è stato e sarà infinitamente più forte di tutto il dolore che mi porto dentro». Si conclude così, con queste parole d’infinita tristezza ma al tempo stesso di pace apparentemente e finalmente ritrovata, il libro scritto da Beppino Englaro assieme alla giornalista Adriana Pannitteri. ”La vita senza limiti” (Rizzoli, pagg. 195, euro 17) ha già nel sottotitolo la sua spiegazione: ”La morte di Eluana in uno Stato di diritto”.

Non sono passati nemmeno nove mesi da quel 9 febbraio 2009 in cui un padre testardo come sanno esserlo forse soltanto i carnici riuscì a liberare una figlia che già non viveva più da diciassette anni. Un incidente stradale, il coma irreversibile, un corpo diventato una prigione. Storia fin troppo nota, diventata miserrimo campo di battaglia per opposte fazioni etico-politiche. Diciassette anni, 6233 giorni per poter finalmente restituire dignità a una figlia tanto amata e dirle addio.

Quanta ipocrisia, quanta mancanza di sensibilità, quanto cattivo gusto in quei giorni, in quelle settimane che precedettero l’epilogo. Molti si domandavano: ma perchè un padre ha accettato di finire nel tritacarne politico e mediatico per ottenere quello che tanti altri, in analoghe e tragiche situazioni, sono costretti dagli eventi della vita a fare ogni giorno, per una persona cara, in tutti gli ospedali del mondo?

La lettura di queste pagine è al proposito illuminante. Beppino Englaro ha fatto tutto quel che ha fatto, in quei diciassette lunghi anni, per amore e rispetto della figlia ma anche e forse soprattutto della legalità. Rispetto della legalità: concetto ostico per molte persone, soprattutto in questa nostra Italia scassata, in questi tempi cialtroni e miserevoli.

«Non eravamo spinti da alcun furore ideologico - scrive Englaro quando rievoca i primi tempi della sua lunga battaglia - né volevamo imporre ad altri ciò che ritenevamo e riteniamo tuttora giusto per noi stessi. Chiedevamo solo di non essere discriminati. Ma rivendicare uno spazio per l’individuo, per le sue scelte personali, sostenere che la propria vita non appartiene agli altri è stato ritenuto un affronto e una sfida. Per questo la vicenda di Eluana faceva paura...».

Fra le righe emerge un uomo diverso da quello che l’Italia ha conosciuto nell’inverno scorso, quando divideva il Paese maneggiando un linguaggio giuridico e tecnicistico che era stato costretto a imparare. Lottava, autorizzato da una sentenza, a mettere in pratica lo stop all’alimentazione e all’idratazione forzata. A interrompere la suprema ipocrisia di una vita artificiale imposta da uno Stato che dovrebbe essere laico e si scopriva etico. Il Beppino di questo libro è invece e semplicemente un padre, un uomo riservato che racconta il dramma indicibile toccato a lui e alla sua famiglia.

Un capitolo, ”La ricerca della squadra e della struttura”, parla del ruolo dei vecchi amici friulani, già socialisti, alcuni dei quali assurti a importanti ruoli istituzionali: il presidente della Regione Renzo Tondo, il senatore Ferruccio Saro, l’ex assessore regionale alla sanità Gabriele Renzulli... «La coscienza della nostra dignità - scrive riferendosi a ”noi friulani, soprattutto i carnici...” - non è mai stata un fatto solitario ma una sorta di fratellanza, un sentire comune, un orgoglio, persino nelle sfide più estreme. Non credo sia un caso il fatto che molte battaglie sui diritti civili che hanno cambiato il volto del nostro Paese, come quella sul divorzio, siano partite proprio dal Friuli...».

Il resto sono ricordi, episodi, particolari, soprattutto dolore. Tutta roba che scava nel profondo e non può lasciare insensibile un essere umano. Undici febbraio di quest’anno, il giorno prima del funerale: «Nel silenzio, ad un tratto ho riconosciuto la mia voce: ”Addio stellina mia, ora riposa in pace”. Ho pianto, i singhiozzi erano talmente forti che mi squassavano lo stomaco».

La battaglia personale di Beppino Englaro è terminata. Quella politica, per la libertà di cura, perchè la legge e lo Stato rispettino l’individuo, è ancora lungi dall’essere portata a compimento. Quando finalmente ciò avverrà, dovremo ringraziare soprattutto un carnico dalla testa dura, rispettoso della legalità. E della laicità dello Stato.

giovedì 22 ottobre 2009

ALL FRONTIERS 2009


Torna «All Frontiers». Dopo l’edizione del ventennale, lo scorso anno, la piccola ma prestigiosa rassegna di Gradisca (sottotitolo «Indagini sulle musiche d’arte contemporanee») propone una nuova edizione, dal 20 al 22 novembre alla Sala Bergamas e al Teatro Comunale della cittadina sul fiume Isonzo.

Fra le proposte di quest’anno spiccano il concerto del pianista Keith Tippett (figura storica del jazz-rock inglese, già leader dei Centipede e già marito di Julie Driscoll) e quello dell’ensemble vocale Muna Zul, trio femminile messicano prodotto (e assai ”raccomandato”...) da John Zorn, ospite più volte della rassegna isontina.

Ma il jolly è l’unica data italiana di ”Hommage à John”, progetto speciale dedicato al compositore americano John Cage (1912-1992), curato dalla musicista e compositrice francese Joëlle Léandre, che aveva già partecipato all’edizione dello scorso anno. Con lei anche l’inglese Fred Frith (chitarrista, multistrumentista, già con gli Henry Cow e collaboratore del citato Zorn, docente al Mills College di Oakland in California) assieme al suo Mmm Quartet.

«John Cage è stata una figura molto importante per me - dice Joëlle Léandre - perché mi ha fatto ascoltare il mondo attorno a me. Lasciate che i suoni siano ciò che sono, mi diceva sempre. Mi ha aperto a un’infinità di possibilità che ancora oggi continuo a esplorare. La sua lezione è andata oltre ed è arrivata direttamente al centro, al cuore, al nocciolo, all’essenza».

L’Omaggio a Cage, che arriva a Gradisca all’indomani della prima mondiale a Bruxelles, si articola in quattro sezioni: ”Ryoanji”, per contrabbasso e un ensemble di venti musicisti; Joëlle Léandre solista (con brani tutti scritti da Cage); ”Oaxaca” con il danzatore e coreografo Dominique Boivin; Mmm Quartet con la stessa Joëlle Léandre, Alvin Curran, Fred Frith e Urs Leimgruber.

Ma vediamo il programma completo. Il 20 novembre si parte con Keith Tippett, con la violinista Mia Zabelka, con il gruppo Nous Percons Les Oreilles, con il duo Han Bennink & Terrie Ex. Il 21 tocca all’americano Anthony Coleman, all’italiana Letizia Renzini, al trio K-Space e al duo Cristina Zavalloni & Andrea Rebaudengo. Il 22 serata finale con Tim Hodgkinson & Fred Frith, l’Omaggio a Cage e le citate Muna Zul.

Insomma, un cast di qualità. All Frontiers 2009 - organizzata anche quest’anno dal suo ideatore Tullio Angelini con la sua Moremusic - si conferma crocevia dei protagonisti più originali e intelligenti della scena musicale internazionale votata alla sperimentazione e all’avanguardia.

Un’avventura nata nel luglio dell’88, col concerto goriziano di Nico, l’ex cantante dei Velvet Underground. Fu lei che in quella sera d’estate disse ad Angelini e agli altri suoi amici: «Bello qui, mi piacerebbe tornare l’anno prossimo, magari con John Cale, mio amico e produttore. Anzi, perchè non organizzate una rassegna vera e propria. Vi regalo anche il titolo: All Frontiers...».

L’anno dopo, quando era quasi tutto pronto, agli amici isontini arrivò la telefonata con la notizia della morte, a Ibiza, della leggendaria cantante. Ma il sogno è andato e continua ad andare in scena ugualmente, anche in onore della grande Nico. Che avrebbe amato le ”indagini musicali” che, dopo una non breve interruzione, da qualche anno vengono messe in scena a Gradisca.

Tutte e tre le serate della rassegna saranno seguite da RadioTreRai. Ingresso libero fino ad esaurimento dei posti. Info su www.moremusic.it

mercoledì 21 ottobre 2009

EUGENIO FINARDI


CAPODISTRIA «Non ero un ribelle ideologico, ma un ribelle idealista. È per questo che molte mie canzoni di trent’anni fa, in fondo, rimangono attuali e fruibili anche adesso...». Parla Eugenio Finardi, che stasera alle 20 al Teatro di Capodistria presenta lo spettacolo ”Omaggio a Vysotsky” (assieme al cantautore Jani Kovacic, nell’ambito dei festeggiamenti per i sessant’anni di Radio Capodistria, che trasmette la serata in diretta), mentre domani e sabato alle 20.45, al Teatro Verdi di Pordenone, propone ”Suoni - Appunti e contrappunti teatrali”.

«Quando nel 2002 ho festeggiato cinquant’anni di età e trenta di carriera - spiega l’artista milanese -, ho deciso di cambiare musicalmente vita: non avrei più inseguito il successo ma mi sarei dedicato solo alle cose che mi piacciono. Ho fatto allora un disco sul fado portoghese e uno sul blues americano, che rimane il mio primo grande amore. Ma anche il disco e lo spettacolo su Vysotsky, e poi questo spettacolo teatrale che adesso arriva a Pordenone...».

Cominciamo da Vysotsky. Chi è?

«Era un attore, autore e cantante russo, boicottato dal regime sovietico. In un secolo che ha celebrato gli ”artisti maledetti”, lui lo è stato più di tutti. Diede voce ai perdenti che non si arrendono, agli sconfitti indomiti, agli idealisti disillusi. Quando venne in Occidente per la prima volta disse: in Russia non credono all’anima dunque la lasciano stare, qui con i soldi si corrompe anche quella. È morto nell’80».

Come l’ha scoperto?

«Il Club Tenco mi chiese nel ’94 di interpretare le sue canzoni. Le ascoltai, scoprendo un uomo e un artista che non si è fatto mai corrompere dal potere. Uno che non era disposto a cambiare nulla di se stesso per compiacere chicchessia. Me ne innamorai. Il frutto furono lo spettacolo, che ora ripropongo a Capodistria, e il disco ”Il cantante col microfono”, assieme all’ensemble Sentieri selvaggi, che vinse il Premio Tenco».

Con ”Suoni”, invece, debutta nel teatro canzone che fu di Giorgio Gaber...

«Non scrivo canzoni nuove da dieci anni, dunque dall’altro secolo. Contenitori troppo brevi, per come io sono adesso. In questa fase della mia vita preferisco raccontare le ombre, i chiaroscuri, ho bisogno di spazi più ampi per esprimermi. La forma canzone è troppo limitata per contenere tutti i concetti che sento il bisogno di esprimere».

Dunque?

«Dunque sono in realtà tornato alle origini. Mia madre è americana. E a vent’anni, prima del successo con la musica in Italia, studiavo teatro a Boston. La mia prova d’esame fu ”L’uomo dal fiore in bocca” di Pirandello...».

La ”Musica ribelle” fu allora un incidente di percorso...

«In un certo senso. Capitai nella Milano della contestazione degli anni Settanta. Io, Alberto Camerini, Fabio Treves volevamo essere funzionali al Movimento. La musica era per noi un momento di militanza politica, quasi una parentesi. Non rinnego nulla, sia chiaro, ma quelle canzoni non erano un tentativo di fare poesia. Piuttosto dei ta-tze-bao in musica, utili alla causa...».

Torniamo allo spettacolo teatrale.

«Sì. Come dicevo è una dimensione che fa parte della mia storia, ma fu proprio lo spettacolo su Vysotsky a far scattare la molla. Ne è venuto fuori questo percorso teatrale e musicale, nel quale i racconti che ho scritto per l’occasione si alternano alle mie canzoni. È la mia storia personale, che mi offre lo spunto per rileggere anche fatti che hanno segnato il secolo scorso».

Nella prima scena parla di sua madre.

«S’intitola ”Nato in uno strumento musicale”. Quello strumento è lei, che era una cantante lirica. In casa si diceva che mi aveva partorito con l’acuto della Regina della notte, dal Flauto magico di Mozart. Leggende familiari a parte, mia madre ha avuto una grande influenza, anche musicale, sulla mia crescita. Adoro il blues perchè l’ho scoperto e subito amato a tredici anni, negli Stati Uniti. Ma nelle mie cose si può intravedere anche un’impronta barocca, qualcosa dell’opera settecentesca a lei così cara».

In un’altra scena parla del suo rapporto con Medici senza frontiere.

«Una delle esperienze più importanti della mia vita. Loro si occupano della cura, ma hanno bisogno anche di persone che si occupino della testimonianza. Io sono andato e ho raccontato. Nel ’98 in Sudan, nel ’95 a Sarajevo, prima degli accordi di Dayton. Luoghi diversi, ma storie sempre uguali di dolore e sofferenza e coraggio. Ricordi ancora presenti. In particolare quelli sotto l’assedio di Sarajevo, assieme a un gruppo bosniaco: forse i giorni in cui mi sono sentito più vivo...».

”Musica ribelle” chiude il monologo sul Sessantotto.

«Sì, la trovo in tema con l’ultima epoca in cui c’è stata una visione del futuro come di un’utopia possibile. In quegli anni si è osato sognare, oggi siamo al salvate il salvabile. Per quella canzone comunque provo un sentimento di amore e odio. Per me rappresenta un marchio e una condanna. Ecco, quando ho deciso di dedicarmi ad altre cose è stato anche perchè non volevo essere condannato a cantare le stesse dieci o venti canzoni per tutta la vita...».

Quali altri brani ha inserito nello spettacolo?

«Ho scelto episodi noti e altri meno noti: ”Le ragazze di Osaka” e ”Laura degli specchi”, ”Patrizia” e ”Vil Coyote”, ”Diesel” e ”Dolce Italia”... Tutte canzoni che vengono usate a commento dei testi».

Ma ce n’è una che ama di più?

Ci pensa un attimo. «Sì, preferisco ”Non diventare grande mai”, perchè è una mia canzone che allora parlava già di oggi. La trovo paradigmatica di un mio modo di scrivere canzoni ispirate dagli ideali e non dall’ideologia. Nella scrittura ho sempre avuto un approccio molto pragmatico, sarà stato per il mio essere mezzo americano, ma il risultato è che molti di quei brani oggi sono ancora attuali».

Il tempo dei saluti. E di un ricordo. «Torno sempre volentieri da queste parti. Quand’ero bambino, nella Milano degli anni Cinquanta, avevamo una governante di Palmanova, che fra l’altro è poi sempre rimasta con la nostra famiglia. Con lei sono venuto tante volte, nella sua città, ma anche a Trieste. Cosa ricordo? Ovviamente la bora, per un bambino quel vento fortissimo era una cosa incredibile...».

giovedì 15 ottobre 2009

GIANMARIA TESTA


«Dentro la tasca di un qualunque mattino, dentro la tasca ti porterei...». La voce di Gianmaria Testa, che l’altra sera ha suonato nel teatrino dell’ex manicomio di San Giovanni per la festa dei 25 anni di Radio Fragola, ha una timbrica che a tratti ricorda quella di Ivano Fossati, altre quella di Paolo Conte. E come l’avvocato di Asti ai suoi esordi, anche lui, l’ex capostazione di Cuneo, classe ’58, ha più successo all’estero - a Parigi riempie l’Olympia - che in Italia, dov’è ancora artista di nicchia.

Il suo è artigianato nobile, musica dell’anima verrebbe da dire, dalla vena introspettiva e intimista, scarna ed essenziale, che si dipana attraverso una discografia che dal ’95 a oggi ha proposto sei album in studio e un disco dal vivo. Tutte cose di qualità, dunque roba per pochi.

A Trieste il cantastorie dagli occhialini tondi si è presentato da solo, alternandosi fra tre chitarre: una acustica e due elettriche (”una l’ho comprata perchè avevo scritto un pezzo rock-blues...”). Comincia con canzoni di qualche anno fa: la citata ”Dentro la tasca di un qualunque mattino” e ”Un aeroplano a vela” (da ”Montgolfieres”, del ’95), ”Veduta aerea” e ”Comete” (rispettivamente da ”Altre latitudini” del 2003 e ”Lampo” del ’99).

Poi, fra il ricordo autoironico degli anni in ferrovia («dalla finestra del mio ufficio, più che utilizzatori finali, eravamo sospiratori iniziali...») e una poesia di Erri De Luca, fra l’omaggio a De Andrè con ”Hotel Supramonte” e una lirica del suo ex socio Piermario Giovannone, c’è tempo per le canzoni di ”Da questa parte del mare”, sorta di ”concept album” uscito tre anni fa e incentrato sul tema dell’emigrazione: quella di ieri (la nostra, non troppi anni fa) e quella di chi arriva oggi, che molti italiani affrontano senza memoria del recente passato. Ecco allora ”Seminatori di grano” e ”Rrock”, ”Una barca scura” e ”Il passo e l’incanto”, ”3/4” e ”Al mercato di Porta Palazzo”.

Nel finale, spazio anche per ”Miniera”, di Bixio-Cherubini, del ’27, unica canzone non originale dell’ultimo album in studio, ispirata a una tragedia in una miniera di carbone americana dei primi del Novecento. «Me l’aveva fatta conoscere mia madre...», dice Gianmaria Testa. Salutato da applausi assai affettuosi.

lunedì 12 ottobre 2009

LAMPEDUSA / BAGLIONI


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO

LAMPEDUSA «Ho scoperto Lampedusa nel ’98. Ero a Palermo, avevo fatto un concerto allo stadio La Favorita. Tutti mi parlavano di quest’isola. Decidemmo di venire a dare un’occhiata. Mi fermai per un mese...».

Claudio Baglioni parla del suo amore per la maggiore delle Isole Pelagie nella sua casa a strapiombo su un mare turchese, vista mozzafiato sul Nordest dell’isola: Cala Creta, Cala Calandra, Capo Grecale. La dimora è tutta bianca, con grandi spazi all’aperto che si aprono quasi ad anfiteatro naturale sul mare. Alcuni elementi richiamano i caratteristici dammusi dell’isola. Da anni, il cantautore romano passa qui i suoi periodi di riposo.

«Ma non scrivo qui le mie canzoni, il posto è troppo bello, induce a fare altre cose. Per creare - scherza, ma fino a un certo punto - bisogna star male, magari con un muro scrostato davanti...».

La settima edizione di O’ Scià è stata appena archiviata. Oggi alle 23.40 La7 propone uno speciale girato nei quattro giorni della rassegna musicale, dedicata al tema dell’accoglienza e dell’integrazione fra culture diverse. Quest’anno c’erano Alice, Fiorella Mannoia, Pfm, Gianna Nannini, Alessandra Amoroso, Marco Carta, Angelo Branduardi, Edoardo Vianello, Marco Ferradini, Daniele Silvestri...

«Volevo fare qualcosa per Lampedusa - spiega l’artista, classe ’51 - e nel 2003 ho cominciato con un mio concerto sulla spiaggia della Guitgia, come atto d'amore per l'isola e per attirare l'attenzione sul dramma dell'immigrazione clandestina. Poi, anno dopo anno, siamo cresciuti».

Ogni anno la manifestazione sembra a rischio.

«Sì, siamo sempre appesi a un filo. Il senso di O’ Scià è mettere a confronto più voci, istituzionali e non governative, per cui senza le prime non potremmo continuare. Se dovesse mancare il sostegno dello Stato non andrei avanti solo con gli sponsor privati».

Il Governo che vi appoggia è lo stesso dei respingimenti.

«Lo so. Sembra una contraddizione. I respingimenti tout court non sono da paese civile. E poi sono misure che si limitano alla superficie, l’immigrazione non è stata fermata, le persone arrivano lo stesso sulle nostre coste. Solo il 15% degli immigrati arriva con mezzi di fortuna, l'85% entra in Europa con regolari visti turistici. Chi arriva su queste spiagge non è clandestino, è visibilissimo. Questi immigrati sono i più disperati».

L’integrazione è possibile?

«È una strada lunga e difficile, ma è l'unica in grado di scongiurare lo scontro e favorire l'incontro tra le civiltà. Che poi è il senso stesso della storia dell'uomo, una storia millenaria fatta di migrazioni e di incontri. Vogliamo dimostrare che la vita è l'arte dell'incontro: il sogno è quello di sconfiggere ignoranza, pregiudizi e paure».

Parla talmente bene che la vogliono fare sindaco...

Sorride. «No grazie, ho un mestiere da quarant’anni e non vorrei perderlo proprio adesso. Caso mai, quello di riserva è l’architetto, anche se mi sono laureato solo pochi anni fa».

E questa storia del Nobel?

«Ne ho parlato con tre Premi Nobel per la pace, Adolfo Perez Esquivel, Shirin Ebadi e Betty Williams, per portare avanti l’idea di candidare Lampedusa. Sarebbe una cosa grandissima. Anche perchè il premio non è mai stato dato a una città, a un luogo. Sarebbe la consacrazione di quest'isola come luogo simbolo dell'integrazione fra le culture come unico viatico per un futuro di pace e speranza».

Nella terza serata ha duettato con suo figlio Giovanni. Emozionato?

«Un po’. L’avevo ospitato già a un mio concerto a Roma. E anche quella volta mi aveva colpito per la sua simpatica faccia tosta. Trovo sia un ottimo chitarrista, ma è meglio non dirglielo altrimenti si monta la testa...».

Quest’anno i consensi maggiori sono andati ad Alessandra Amoroso e Marco Carta, ultimi vincitori di ”Amici”.

«I talent show funzionano, anche perchè per fare carriera nella musica un altro percorso oggi non c'è. Però trovo che creino omologazione, per la tendenza di questi ragazzi a cantare un po’ tutti nello stesso modo, puntando su un vocalismo ricercato. E poi sono tutti interpreti, mancano i cantautori».

Tutti figli della tivù.

«È vero. La televisione ormai si è impadronita di tutto, non ti lascia mai. Non va bene. Anni fa mi avevano chiesto di condurre ”Operazione trionfo”, poi affidato a Miguel Bosè: rifiutai perchè provo troppa pena verso chi viene bocciato in quel modo. Tu sì, tu no... L’unico risvolto interessante dei talent show è che permettono al pubblico di capire che dietro a questo mestiere c'è studio, lavoro, preparazione».

Il prossimo disco?

«Ora comincio a lavorarci. Ma non c’è fretta...».


 

domenica 11 ottobre 2009

CREMONINI / BARCOLANA FESTIVAL


Manca un quarto alle dieci di ieri sera. I due megaschermi al lato del grande palco rilanciano le immagini della piazza: i palazzi illuminati, le luci, la folla... Sull’intro strumentale di ”Cercando Camilla” entrano i musicisti. Un attimo e arriva anche lui, Cesare Cremonini, che attacca con ”Louise”, altro brano dall’ultimo album ”Il primo bacio sulla luna”. Dal quale subito dopo estrae quel piccolo capolavoro pop che risponde al titolo di ”Dicono di me” (”che sono un bastardo, bugiardo e lo fanno senza un perchè...”).

Poi il nostro comincia a pescare in un canzoniere giovane ma già importante: ”Padre madre” (da ”Bagus”), ”La fiera dei sogni” (dalla riedizione di ”Squerez”), ”Le tue parole fanno male” (da ”Maggese”)... Mezz’ora dopo, quando partono prima ”50 Special” (do you remember? ”ma com’è bello andare in giro con le ali sotto ai piedi...”) e poi una superba ”Vorrei” solo pianoforte e voce, il pubblico è innamorato cotto.

A maggio Cremonini aveva praticamente aperto qui il suo tour estivo, nella seratona di inizio estate dei Trl Mtv Awards. Ieri sera lo ha concluso, in una piazza Unità stavolta tutta sua, da non dividere con nessuno, eccezion fatta per le migliaia di spettatori accorsi per la serata finale di quello che un tempo era il Barcolana Festival e ora, in tempi di crisi per tutti, dunque anche per gli organizzatori degli eventi collaterali alla grande regata triestina, si è ridotto a due-serate-due. La seconda delle quali con un solo nome in cartellone. Ma va bene lo stesso, quando il nome in questione, quello dell’ex Lunapop, è in grado di metter d’accordo tutti.

Che storia, quella del ragazzo con lo sguardo furbetto. Bolognese, classe 1980, a sei anni studia pianoforte, ma a dieci è già stufo marcio di scale e preludi classici: preferisce Beatles e Freddie Mercury. A tredici anni fonda con alcuni compagni di scuola il primo gruppo, a quindici scrive le prime canzoni, a diciannove - giusto dieci anni fa - è il leader del gruppo più amato dai giovanissimi italiani, i Lunapop, a ventuno scioglie il gruppo e debutta nel cinema, a ventitre è già un solista affermato.

Di quei Lunapop, creati e dissolti con un colpo di bacchetta magica, il piacione Cesare si è portato dietro solo il fidato bassista ”Ballo”, al suo fianco anche nel quarto album solista ”Il primo bacio sulla luna” oltre che in questo tour seguito al disco e caduto nel decennale di ”50 Special”, canzone-tormentone dell’estate ’99.

Dal vivo, il ragazzo si conferma uno dei migliori autori e interpreti del pop di casa nostra. Come nel disco, mischia con freschezza e una buona dose di faccia tosta pop e rock, canzone d’autore e swing, tentazioni classiche e jazz. Lo fa dosando gli ingredienti con gusto, senza strafare. E alternando gli episodi che in pochi anni lo hanno trasformato in un protagonista di primo piano del pop italiano: da ”Latin lover” a ”Vieni a vedere perchè”, da ”Qualcosa di grande a ”Gli uomini e le donne sono uguali”. In mezzo ci infila anche un omaggio a Johnny Cash, con la voce di Ballo finalmente protagonista. Quelle di Cremonini sono belle canzoni pop, è buona musica leggera cantata bene e scritta meglio, con chiare ascendenze beatlesiane e radici ben piantate nella magica stagione degli anni Sessanta/Settanta. Il fatto che a tratti dia l’impressione di rimanere ancora in bilico fra la pop band degli esordi ormai lontani e le atmosfere da cantautore che sono comunque nel suo dna non è un fatto negativo: dà maggiore brio e leggerezza al tutto. A Trieste, finale sotto la pioggia ma successo caloroso e meritato. In attesa della regata di stamattina.

giovedì 8 ottobre 2009

LAMPEDUSA / IMMIGRATI


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO



LAMPEDUSATornano gli immigrati. Il Governo italiano non fa in tempo a cantare vittoria sul fronte della cessata emergenza sbarchi, che ieri un gommone con trentacinque persone a bordo, tutti maschi e nordafricani, è stato intercettato a poche centinaia di metri dalla spiaggia dell’Isola dei Conigli, uno dei gioielli naturalistici di Lampedusa. Due motovedette, una della Guardia costiera e una della Guardia di Finanza, li hanno raccolti e - su disposizione del ministero degli Interni - hanno fatto rotta verso Porto Empedocle, a due passi da Agrigento.

Uno sbarco che arriva dopo un’estate relativamente tranquilla. E che conferma quel che qui dicono in molti: sarebbero migliaia le donne e gli uomini in mano al racket degli scafisti libici, in attesa di partire nella speranza di raggiungere Lampedusa, porta sul nuovo mondo, eldorado per masse di disperati in fuga dalla povertà o dalla guerra. Come dire: la politica dei respingimenti voluta dal Governo ha abbassato la febbre, ma non ha curato la malattia. E il dramma dell’emigrazione è ancora un’emergenza con cui fare i conti.

Nell’ottobre dell’anno scorso, al Centro di Primo Soccorso e Accoglienza dell’isola c’erano 2.200 persone sopravvissute al viaggio della disperazione e della speranza: quello fra le coste libiche e la maggiore delle Pelagie, estrema propaggine meridionale e d’Italia e d’Europa, più vicina all’Africa che alla Sicilia. Settanta miglia di dolore e di speranza.

Oggi, nella struttura a due passi dall’aeroporto, in località Imbriacola, non c’è nessuno. Mentre negli alberghi e nelle case di vacanza, gli ultimi turisti - dei cinquantamila che ogni anno si aggiungono ai cinquemila lampedusani - inseguono l’estate a sud.

Quella struttura vuota è il risultato visibile dell’azione del Governo italiano, fatta di accordi bilaterali con la Libia ma soprattutto della contestatissima - secondo alcuni ”disumana” - politica dei respingimenti. Che ha permesso di ridurre gli sbarchi del novanta per cento. Ma, come si diceva, non di risolvere il problema.

Eppure, c’è chi canta vittoria. Secondo il ministro Maroni l'attuazione dell'accordo con la Libia «rappresenta la svolta nella lotta all'immigrazione clandestina e consentirà di portare a zero gli sbarchi». La nostra, sostiene il titolare dell'Interno, «è una politica che funziona e che continueremo, perfettamente conforme a tutte le convenzioni internazionali ed europee».

I dati diffusi dal ministero. Nel 2008, fra maggio e settembre, sono sbarcati sulle nostre coste 18.761 immigrati. Quest’anno, nello stesso periodo, un decimo: per l’esattezza 1.833. Da un anno all’altro, dunque, diciassettemila persone in meno. Rimaste in attesa, in condizioni disumane, nelle mani del racket dei trafficanti di esseri umani.

A Lampedusa, fra la gente del porto, c’è scetticismo. Chi parla dei morti nel Mediterraneo dall'inizio dell'accordo con la Libia, chi dei rifugiati politici cui è stato negato il diritto d'asilo: gente respinta senza verifiche, in violazione delle leggi internazionali e con le istituzioni europee contrarie.

Il Centro è abilitato a ospitare 381 persone. Nel settembre 2008 c’erano 1.800 immigrati, a ottobre 2.200, a dicembre 1.500, scesi a febbraio a 1.200, crollati nel giugno scorso a venti e poi, da luglio a oggi, a zero. Dicono dal ministero: «Dovremo riconsiderare la destinazione delle strutture di Lampedusa (dove c’è anche il Centro di Identificazione ed Espulsione: altri duecento posti - ndr), ma aspettiamo la fine dell'anno per essere sicuri che la stagione più a rischio sbarchi si concluda positivamente».

Intanto, l’ex vicesindaco Angela Maraventano - lampedusana eletta al Senato con la Lega Nord - si è portata avanti con il lavoro. Ha fatto approvare da Palazzo Madama un ordine del giorno per stanziare un contributo per la realizzazione di un porto turistico sull’isola. A fronte di una natura da togliere il fiato, in effetti, qui strutture e infrastrutture lasciano ancora a desiderare. Per chi vuole puntare sul turismo.

Soldi, numeri, dichiarazioni politiche. Ma dietro c’è sempre il dramma di donne e uomini che partono dall’Eritrea, dall’Etiopia, dalla Nigeria, dal Sudan. La Libia è spesso solo l’ultima tappa di un lungo viaggio, prima del salto finale verso le coste dell’isola.

L’Alto commissario dell’Onu per i rifugiati, Antonio Guterres, lo ha detto: quelle degli immigrati irregolari in Libia sono «condizioni di detenzione terrificanti», con le persone che avrebbero i requisiti per chiedere diritto di asilo in Europa che «rischiano di essere rinviati nei Paesi di origine» dove sono perseguitati. Dopo il recente incontro a Bruxelles con i ministri degli interni dell’Unione Europea, Guterres ha espresso «forti riserve» sui respingimenti operati dal Governo italiano, invitato a ripartire «dalla straordinaria esperienza» del Centro di Primo Soccorso e Accoglienza di Lampedusa.

Per l’isola qualcuno ha proposto il Premio Nobel per la Pace. Berlusconi è d’accordo. Nella lettera inviata a Claudio Baglioni, che sull’isola ha appena concluso la settima edizione di O’ Scià, il festival musicale che ha per tema l’integrazione fra le culture, scrive che «Lampedusa è il simbolo dell'integrazione tra le culture dell'Europa e del Mediterraneo. Nessun Paese ha salvato tante vite in mare come l'Italia, e Lampedusa ne è buona testimone. La politica del Governo, doverosamente severa verso i clandestini e i mercanti di uomini, contempla da sempre il rispetto dei diritti umani, e dunque l'accoglienza e l'integrazione dei migranti che cercano un futuro migliore per sfuggire alle persecuzioni politiche, razziali e religiose».

Strana la politica. Il Governo dei respingimenti in mare appoggia - e finanzia, attraverso il ministero dell’Interno - una rassegna musicale le cui parole d’ordine sono accoglienza, solidarietà, rispetto per ogni essere umano. Oggi che, per tanti, ”Lamerica” siamo noi. Travolti da un’emergenza umanitaria permanente. Come il gommone di ieri dimostra.

lunedì 5 ottobre 2009

O' SCIA' 2009 - LAMPEDUSA


dall’inviato

CARLO MUSCATELLO


LAMPEDUSA Tocca ancora una volta alla musica seminare idee e parole di speranza, rispetto, solidarietà. Lampedusa, estrema propaggine meridionale d'Italia e d'Europa, quaranta chilometri quadrati d'isola più vicina alle coste africane che a quelle siciliane, in lutto per la tragedia di Messina. Qui Claudio Baglioni ha casa da tanti anni. Qui dal settembre 2003 organizza O' Scià, fiato mio o respiro mio nel dialetto dell'isola. Espressione usata dai locali come saluto amichevole, ma ora anche acronimo di Odori Suoni Colori d'Isole d'Alto mare.

Accoglienza, non respingimenti. Un appello-invito a cui ormai è diventata quasi una tradizione che rispondano ogni anno, quando a queste latitudini l'estate non vuol terminare, una nutrita schiera di artisti amici di uno dei cantautori più amati e popolari di casa nostra. «E se una cosa del genere l'ha inventata lui, che non ha mai fatto dell'impegno una bandiera - dice Daniele Silvestri, uno dei protagonisti dell'edizione di quest'anno, conclusasi l'altra notte - è chiaro che assume un valore ancor maggiore…».

«Nessun uomo è un'isola, ogni respiro è un uomo», filosofeggia Baglioni, da quasi quarant'anni artista di successo da milioni di dischi venduti e da tournèe interminabili, che cura questa sua piccola grande creatura con affetto particolare e quasi paterno. Quando ne parla sembra che gli brillino gli occhi. «Avevo cominciato - dice - con un mio concerto sulla spiaggia della Guitgia, come atto d'amore per quest'isola e per attirare l'attenzione sul dramma dell'immigrazione clandestina, sugli sbarchi, sui viaggi della speranza che spesso finivano e finiscono in tragedia per esseri umani in cerca di un futuro migliore».

Poi, anno dopo anno, edizione dopo edizione, la manifestazione è cresciuta. Ora ha l'alto patronato della Presidenza della Repubblica e si svolge con il contributo del Ministero dell'Interno e di importanti enti e organizzazioni. È nata anche una Fondazione O' Scià. E sul grande palco eretto sulla più popolare spiaggia lampedusana si sono alternati in questi anni decine e decine di artisti di prima grandezza. Partecipazioni a titolo gratuito, in un mondo come quello dello spettacolo dove impera - come quasi dappertutto, del resto - il dio denaro, fatte per amicizia nei confronti di Claudio e per condivisione dei valori alla base del progetto.

Quest'anno c'erano Alessandra Amoroso e Marco Carta (i più festeggiati dai giovanissimi), Alice e la Pfm, Renzo Arbore e Gianna Nannini, Fiorella Mannoia e Marco Ferradini, Angelo Branduardi e Laura Bono, Edoardo Vianello e Annalisa Minetti, Laura Bono, un certo Giovanni Baglioni e il citato Silvestri… Ma anche attori e comici come Ficarra e Picone, Enrico Montesano, Maria Grazia Cucinotta, Enrico Brignano.

Ognuno ha cantato le sue canzoni, quasi tutti hanno duettato con il padrone di casa, in un'atmosfera di grande semplicità e fratellanza. Non a caso i momenti migliori della rassegna sono coincisi con alcuni duetti: quello con Alice in "La cura" di Battiato (del quale la cantante ha proposto anche un'emozionante "Prospettiva Nevskji"), ma anche quelli con la Mannoia in "Amore bello", con la Amoroso in ”Io me ne andrei”, con il figlio chitarrista in ”Vivi”, persino quello un po' stonato con Gianna Nannini - che ha chiuso l'ultima serata, prima del commiato di Baglioni sulle note di ”Strada facendo” - nella classicissima "Fotoromanza".

Una curiosità. Le immagini delle serate vengono immortalate da un triestino: il regista Andrea Sivini, da anni collaboratore del cantautore romano (ha firmato i suoi recenti filmati e dvd) e cameraman ufficiale della manifestazione. E un altro triestino trapiantato sull’isola, Paolo Brandolisio, cura il catering per gli artisti e gli ospiti del backstage.

Da alcuni mesi, da quando cioè è cominciata la politica dei cosiddetti respingimenti - da molti definita inumana - da parte del governo italiano ed è stato introdotto il reato di immigrazione clandestina, il Centro di Prima Accoglienza qui è vuoto. E nelle vie del piccolo centro storico, fra gli abitanti del luogo e i turisti che inseguono l'estate a sud, gli extracomunitari che incroci si contano sulle dita delle mani. Ma il problema ovviamente è lungi dall'essere risolto.

«Bisogna guardare all'immigrazione - dice Baglioni - senza indifferenza ma anche senza buonismo. La politica deve fare quello per cui è nata: non basta abbassare la febbre, bisogna curare la malattia. E ciò significa intervenire sulle cause che costringono decine di migliaia di persone a lasciare tutto e rischiare la vita attraversando questo mare per inseguire il sogno di una vita degna di essere vissuta».

«Dietro gli sbarchi - prosegue l'artista - ci sono nomi, occhi, cuori, carne, ossa. Dolore e speranza. L'oltraggio di un passato incapace di garantire un futuro, la speranza disperata di un presente che possa restituire il futuro rubato. Ma soprattutto l'immagine più evidente di una democrazia che si scopre inadeguata a governare società sempre più vaste e complesse, nelle quali fedi, culture, storie, tradizioni e linguaggi sembrano incapaci di incontrarsi e capaci solo di scontrarsi, rischiando ogni volta di prendere fuoco ed esplodere».

Ancora Claudio: «Se la maggioranza è fatta da quelli che stanno meglio, tutela i diritti solo dei più forti. Il divario con i più deboli aumenta sempre più. Non possiamo fingere di ignorare che torto, ragione, responsabilità, colpa, legalità, diritto siano parole che assumono un significato completamente diverso se pronunciate nella serenità di casa nostra o nel buio gelido di una notte d'alto mare».

A Baglioni quest'anno qualcuno ha chiesto, fra il serio e il faceto, di fare il sindaco di Lampedusa. Lui ha sorriso dicendo che un mestiere ce l'ha già. Ma quando altri gli suggeriscono di proporre l'isola per il Premio Nobel per la pace, lui si fa serio: «Non è mai stato dato a una città, a un luogo. Ma penso che sarebbe una cosa straordinaria. Per eleggere quest'isola a luogo simbolo dell'integrazione fra le culture come unico viatico per un futuro di pace e speranza».

Insomma, quarant'anni dopo l'utopia di poter cambiare il mondo attraverso la musica, resiste l'ambizione di dettare alle istituzioni e alla politica - spesso inadeguate se non latitanti - le vere urgenze all'ordine del giorno.