mercoledì 25 luglio 2012

MARIO VENUTI, ultimo romantico contro lo spread, gio26-7 a Palmanova

Con “Quello che ci manca” ha firmato la più bella canzone italiana dell’estate. E nell’album “L’ultimo romantico” non ha perso l’occasione per ribadire come la pensa su questi nostri tempi scassati, sull’Italia e sul mondo, sulle cose che contano e su quelle superflue, sulla finanza e sullo spread. Stasera alle 21 Mario Venuti sarà l’ospite del Pov Music Contest, al Palmanova Outlet Village, mentre a pochi chilometri, nella piazza della città stellata, si terrà l’annunciato concerto di Paolo Conte.
«Non mi considero l’ultimo romantico - spiega il cantautore e musicista siciliano, classe ’63, già con i Denovo -, quella del titolo è una piccola provocazione. È che viviamo tempi poco romantici, dunque musica e cultura mi sembrano l’ultimo antidoto, l’ultimo baluardo a cui aggrapparsi».
Contro che cosa?
«Contro questo mondo che non ci piace, contro questi tempi nei quali siamo costretti ad affidare ogni speranza ai mercati, alla finanza, allo spread che deve scendere. Il termine romantico è diventato sinonimo di sentimentale, ma dovrebbe riacquistare il suo significato originario».
E aiutarci a sopravvivere?
«Lo so, parlo di cose che non si mangiano, come diceva Tremonti. Ma ho spesso la sensazione di trovarmi fuori posto, quando affermo che la cultura sazia più del cibo. Tutto sta a intendersi su quel che è necessario e quel che è superfluo».
Come fa nel brano “Rasoi”.
«Sì, il tema dei tagli alla spesa è di grande attualità. Allora ho giocato sul binomio beni/peli superflui, chiedendomi a che cosa servono i peli? E che cosa è veramente utile e necessario, che cosa è superfluo?»
Che cosa si è risposto?
«Che dobbiamo rivedere, oltre alla spesa, tutta una scala di valori. La crisi in questo ci può aiutare. Le ultime generazioni sono cresciute nel mito del consumo, bisogna spendere e spandere, sempre di più, anche quando non ce n’è bisogno».
E invece?
«Spegniamo la tivù, magari anche Facebook. E leggiamoci un libro...».
Tenco come c’entra?
«Lo evoco nel brano “Non sarò io”. Lui per me è sempre presente. Sapeva esprimere cinquant’anni fa lo stesso senso di inadeguatezza che a volte provo io».
La sua Catania?
«Ci vivo ancora, anche se qualche volta scappo a Milano. È una città strana, con una forte anima popolare mischiata a una borghesia illuminata. Un connubio che ha espresso in questi anni tanti ottimi musicisti...».

lunedì 23 luglio 2012

CARLOU D, dal senegal, mart24-7 a trieste

É la nuova voce del Senegal. Ha lavorato con Youssou N’Dour, che lo ha aiutato a farsi conoscere fuori dall’Africa. Stasera alle 21, al Castello di San Giusto, tiene il suo primo, per ora unico, concerto in Italia. «Con Youssou - spiega Carlou D, nato a Dakar, classe ’79 - ho scritto “Goree”, ispirata alle sofferenze degli schiavi che venivano deportati con le navi negriere. Lui è un grande professionista che vuole sostenere i giovani artisti. Ed è un pioniere della nuova onda musicale senegalese».
La musica del Senegal?
«La “mbalax” (ritmi tradizionali e suoni più moderni - ndr) è il genere più popolare. Ma i “mbalax men” a volte sono privi di preparazione. I pochi che si avventurano su percorsi differenti non trovano seguito in quanto la maggioranza dei senegalesi tende ad associare la buona musica con la “mbalax”».
La musica popolare?
«É la più ascoltata e seguita. Anche se i più giovani sono versatili nelle scelte musicali, che variano a seconda del momento. In un evento legato alle tradizioni popolari, i giovani ascoltano e partecipano ai ritmi della “mbalax”, ma se vanno a un concerto preferiscono la musica moderna e in discoteca vogliono l’hip hop».
La sua storia?
«Ho sempre avuto una predilezione per la musica e la sensazione che sarebbe stata il mio destino. Prima con il ritmo attraverso la danza, indirizzata al rap e all’hip hop. Poi ho cominciato a suonare la chitarra, a comporre, in un momento in cui la musica moderna non era molto popolare».
Cosa vuol far conoscere del Senegal e dell’Africa?
«Abbiamo un grande patrimonio culturale, c’è tanto da vedere e scoprire. Venite in Africa a vedere con i vostri occhi la bellezza della mia terra. E la musica senegalese è, fra le altre cose, un dono prezioso».
Qual è la situazione dei diritti civili?
«Domanda difficile. Il diritto alla libertà di parola ed espressione sono acquisiti senza limitazioni. Ma il rapporto fra governo e popolo è complesso. E i media non sono affidabili per mancanza di obiettività».
L’Italia?
«É un Paese che, per la sua storia, conosce l’importanza dell’immigrazione ed è uno dei più tolleranti e accoglienti. Lo dimostra la quantità di stranieri che vivono qui».
Stasera a Trieste Caorlou D presenta brani dai suoi album “Seedè”, “Weeru Waay”, “Ndeye Dior” e dai recenti “Muzikr” e “Audiovisa”. Con lui Sekou Kantè alla chitarra elettrica, Seyni Diop al basso, Dudu Sarr alla batteria, Noumou Cissoko alla kora, Lamine Sarr al djembe.

giovedì 19 luglio 2012

WOODY GUTHRIE ricordato a Pordenone nei 100 anni dalla nascita con il film QUESTA TERRA E' LA MIA TERRA

Non ci fosse stato lui, probabilmente Robert Allen Zimmerman non sarebbe mai diventato Bob Dylan. E forse anche la storia di Bruce Springsteen sarebbe stata diversa. Basterebbe questa notazione, per comprendere la grandezza di Woody Guthrie. E pochi giorni dopo il centenario della sua nascita, il folksinger dell’Oklahoma (Okemah, 14 luglio 1912 – New York, 3 ottobre 1967) che ha influenzato tanti musicisti americani viene ricordato oggi a Pordenone nell’ambito di Folkest 2012. Al Convento di San Francesco, con inizio alle 21, in collaborazione con Cinemazero, verrà infatti proiettato il film “Questa terra è la mia terra”, di Hal Ashby, uscito nel ’76 e tratto dall’autobiografia “Bound for glory” del ’43.
Guthrie è stato un artista di grande importanza per la musica americana della seconda metà del secolo scorso. Le sue malinconiche ballate, le sue invettive politiche, i suoi “talkin’ blues” parlavano della vita della povera gente, dei lavoratori, delle loro lotte, della fatica quotidiana per la sopravvivenza. Diceva: «Scrivo le cose che vedo, le cose che ho visto, le cose che spero di vedere, da qualche parte, in un posto lontano». Anticipando di qualche anno quel genere musicale di protesta e di denuncia sociale che si sarebbe diffuso, negli anni Sessanta e Settanta, prima negli Stati Uniti e poi nella vecchia Europa.
A quel mondo, a quel modo di raccontare la vita della gente si ispirò innanzitutto Bob Dylan, il cui primo viaggio a New York, del ’61, avvenne proprio per far visita al suo idolo ricoverato al New Jersey Hospital per quella malattia genetica ereditaria che se lo sarebbe portato via nel ’67, a soli cinquantacinque anni.
Ma anche Springsteen, come si diceva, si è ispirato alla musica e ai testi del nostro. Tanto da dire una volta: «Woody Guthrie è il “ghost in the machine” di questa nazione. Per tutta la vita ho cercato di rispondere alla domanda fondamentale di Hank Williams: perchè c’è sempre un buco nel mio secchio?».
C’è da scommetterci: da ragazzi, fra vecchie copertine cartonate di 33 e 78 giri dei vari Pete Seeger, Odetta, Leadbelly, Almanac Singers, anche Dylan e Springsteen si saranno imbattuti nello sguardo intenso di Woody Guthrie, con la sua camicia sgualcita, il cappello e l’eterna sigaretta in bocca. E sopratutto quella chitarra malconcia con scritto sulla cassa “This machine kills fascists”, questa macchina uccide i fascisti.
E alcuni suoi versi fanno ormai parte dell’immaginario collettivo planetario, se è vero com’è vero che persino il segretario del Pd Bersani, l’altro giorno, all’assemblea nazionale del suo partito, ha parafrasato il celebre titolo di “This land is your land” (Questa terra è la tua terra, sorta di inno nazionale non ufficiale per molti americani), nello slogan “Questa Italia è la tua Italia”.
Stasera, a Pordenone, la proiezione del film sarà introdotta da un incontro con Maurizio Bettelli, considerato il massimo studioso italiano di Woody Guthrie. Fra i suoi libri, ricordiamo “Canzoni per crescere. Storie e canzoni di Woody Guthrie” (con Alessandro Portelli, 2001). Mentre segnaliamo che, in occasione del centenario della nascita del folksinger, la casa editrice Arcana ha appena pubblicato in Italia il volume “Woody Guthrie, americani radical”, di Will Kaufman.
La discografia ricorda l’artista innanzitutto con “Mermaid Avenue”, il cofanetto celebrativo, tre cd e un dvd, pubblicato dalla Warner Music: cinquanta brani inediti, che Woody scrisse tra il ’46 e il ’56, arrangiati e musicati dal cantautore inglese Billy Bragg e dalla band americana Wilco. Un incontro voluto dalla figlia dell’artista, Nora, che amministra la fondazione che ricorda l’opera di Guthrie.
Il titolo dell’opera ricorda la strada di Coney Island, dove al numero 3520, in un edificio a due piani, l’artista visse con moglie e figli, appunto dal ’46 al ’56. La zona è quella all’estremità sud di Brooklyn, fra traffico urbano e onde dell’oceano, con la spiaggia di Rockaway e lo storico luna park immortalati in “Radio days” da Woody Allen sull sfondo.
Per quanto riguarda invece Folkest, l’importante rassegna itinerante con trentatre anni di vita, per oggi vanno segnalati altri due appuntamenti. A Capodistria, in piazza Carpaccio, alle 21.15, concerto degli americani Klezmatics. A Tolmezzo, invece, in piazza Mzzini, e sempre alle 21.15, musica lusitana con la cantante Né Ladeiras, nome d’arte di Maria de Nazaré de Azevedo Sobral Ladeiras. Entrambi gli appuntamenti sono a ingresso libero.
Sempre a Capodistria, molta attesa per il concerto che Roberto Vecchioni terrà domani alle 21.15 in piazza Carpaccio.

lunedì 16 luglio 2012

BUENA VISTA SOCIAL CLUB mart17 a trieste

Primo concerto a Trieste, stasera alle 21 a San Giusto, per l’orchestra Buena Vista Social Club. Va in scena dunque la storia della musica cubana, con la performance di quelli che sono considerati alcuni dei suoi maggiori interpreti.
L’Occidente li ha scoperti prima nel ’96, con la pubblicazione dell’album al quale partecipa anche il chitarrista californiano Ry Cooder, e poi definitivamente nel ’99, grazie all’omonimo film documentario di Wim Wenders: entrambi dedicati al club dell’Avana che era attivo sin dal 1932, riservato ai neri durante gli anni della dittatura di Fulgencio Batista.
Con la rivoluzione castrista del ’59, il locale viene chiuso nel ’62, come altri luoghi considerati simbolo del precedente regime. Dopo quasi quarant’anni di silenzio, la rinascita grazie al lavoro di Juan de Marcos González, direttore del gruppo Sierra Maestra, che decide di mettere assieme un’orchestra che riunisca la storia e gli elementi più brillanti del “son” (caratteristico genere musicale cubano) e di tutta la musica tradizionale dell’isola: gli Afro Cuban All Stars.
La formazione mette insieme autentici pezzi da novanta: Compay Segundo, Ibrahim Ferrer, Manuel “Puntillita” Licea, José Antonio (Maceo), Pío Leyva, Raúl Planas, e ancora Manuel “Guajiro” Mirabal, Javier Zalba, Orlando López (Cachaíto), Rubén González, Miguel Angá...
A metà degli anni Novanta, il discografico Nick Gold, presidente della World Circuit Records, s’innamora dell’idea. Nel ’96 escono tre dischi, tra cui in citato “Buena Vista Social Club”, premiato con un Grammy nella categoria della musica tradizionale ma soprattutto da un enorme successo di pubblico e di critica.
È così che il Buena Vista Social Club - che ormai diventa il nome della formazione - diventa così il simbolo della musica afrocubana. E i suoi arzilli nonnetti (alcuni dei quali fanno appena in tempo ad assaporare il gusto del successo anche fuori da Cuba...) suonano nel corso degli anni sui palcoscenici più prestigiosi, dalla Carnegie Hall di New York all’Olympia di Parigi, dalla Royal Albert Hall di Londra al Liceu di Barcellona, dalla Konzerthaus di Vienna ai migliori teatri europei.
L’orchestra ora torna in Europa con un nuovo tour, proponendo in prima linea tre musicisti presenti proprio nel celebre film di Wenders: il chitarrista e cantante Eliades Ochoa, il virtuoso del “laud” Barbarito Torres e il trombonista Jesus “Aguaje” Ramos. La giovane generazione è rappresentata dal cantante Carlos Calunga, una delle nuove voci cubane più amate, e dal pianista Rolando Luna.
Ma la vera star della formazione che si esibisce stasera a Trieste è la cantante Omara Portuondo. Già ballerina del Tropicana cabaret, apprezzata interprete sin dagli anni Cinquanta, prima con il quartetto vocale Las d’Aida e poi da solista, è da sempre in grado di mischiare musica cubana e jazz.
Stasera a San Giusto, biglietterie aperte alle 19, ingresso consentito alle 20, inizio dello show alle 21. Posti a sedere sistemati nelle fasce laterali della platea, in modo da lasciare la parte centrale libera per chi vuole muoversi e ballare ai ritmi della musica cubana. Il concerto è organizzato dall’associazione Altramusica con il contributo del Comune, che l’ha inseito nel cartellone Serestate 2012.

domenica 15 luglio 2012

TORMENTONI AUTARCHICI, c'è anche il "PEDOCIN"

I tormentoni dell’estate 2012? Si adeguano ai tempi di crisi, stringono la cinghia proprio come le finanze familiari, insomma, sono fatti in casa. Sia chiaro: non mancano come ogni estate i successi italiani e stranieri che impazzano sulle spiagge e nelle boccheggianti città straziate dalla calura. Ma dopo aver registrato nelle annate passate che non c’è più il brano che sbaraglia la concorrenza, quello che nei mesi autunnali e invernali viene ricordato come la colonna sonora dell’estate trascorsa e rimpianta, la novità targata 2012 è questa: il tormentone casereccio, il successo fai da te, la hit autarchica, in bilico fra ironia e disincanto. Che però - sorpresa! - sembra in grado di catalizzare il gradimento delle folle spossate dalla crisi e dallo scoramento, oltre che dal caldo.
Dicono che la star estiva del web sia il Pulcino Pio, con il suo video animato che ha superato due milioni di visualizzazioni su Youtube. È una sorta di rivisitazione della storica “Nella vecchia fattoria”, con un finale crudele: il pulcino viene travolto da un trattore. Firmato Radio Globo e Medita, il brano sta facendo furori e un segnale è rappresentato anche dalle tante versioni autoprodotte che si moltiplicano sul web. E i produttori si sono inventati persino una “app” per gli smartphone.
Va forte anche “La danza della panza”, di certo Mimmo Mirabelli, che totalizza due milioni di visualizzazioni su Youtube e può essere scaricata su iTunes. Il ritornello non punta all’olimpo della letteratura con versi che recitano: «Muovi la panza, è la danza della panza, con il ritmo che terrai poi ti sgonfierai...».
Altri due pezzi da novanta. “La banana - Betobahia” di Dany Lorence & Benny (altro refrain memorabile: «Ce l’ho la banana, sì ce l’ho la banana...») e “Ti amo amore”, del dj siciliano Nino Tortorici, che mischia il premier Mario Monti, l’onnipresente spread e l’amata Imu in un tormentone ottimista che lancia un messaggio di speranza: è l’amore la ricetta giusta contro la crisi. Il video, girato sulla spiaggia di Ostia, ha superato le 14.000 visualizzazioni su Youtube.
Ma in questa imperdibile passerella di futuri classici, per una volta è presente anche Trieste. Sì, proprio con quel “Pedocin” di Riki Malva e Theo LaVecia, primo singolo dell’album “Kraputnik”, venduto da un paio di settimane in edicola proprio assieme al “Piccolo”. Un omaggio - con tanto di gustosissimo video su Youtube - al popolare stabilimento balneare triestino, unico in Europa e forse al mondo ad avere ancora la spiaggia divisa fra donne (e bambini) e uomini. L’ultimo muro, che nessuno vuole né può abbattere...
Per tutti gli altri, per quelli ancora affezionati al tormentone “old style”, quello che nell’ultimo mezzo secolo ha lanciato - e spesso dimenticato coi primi freddi - tanti cantanti e gruppi, segnaliamo che l’estate 2012 se la stanno giocando Shakira con “Addicted to you” e Kylie Minogue con “Time bomb”, Linkin Park (“Burn it down”) e Jennifer Lopez (“Dance again”), Kate Perry (“Part of me”) e Madonna (“Girl gone wild”), ma anche Emili Sandè (“Next to me”) e Kasabian (“Man of simple pleasures”), John Legend (“Tonight (best you ever had)”) e Adele (“Rumor has it”).
Fra gli italiani? Biagio Antonacci con “Non vivo più senza te” e Laura Pausini con “Le cose che non mi aspetto”, Ligabue con “Sotto bombardamento” e Tiziano Ferro con “Hai delle isole negli occhi”, ma anche Modà (“Come un pittore”), Giorgia (“Tu mi porti su”), Giuliano Sangiorgi coi Planet Funk (“Ora il mondo è perfetto”). Ancora? Ecco: “L’amore è femmina” di Nina Zilli, “Cercavo amore” di Emma, persino la rilettura, vent’anni dopo, di “Hanno ucciso l’uomo ragno”, di Max Pezzali con J.Ax.

PER NON DIMENTICARE BORSELLINO, stasera al teatro basaglia

Sei magistrati, un avvocato e una giornalista sul palcoscenico. Per ricordare Paolo Borsellino nel ventennale della strage di via D’Amelio, nella quale furono assassinati dalla mafia (quella che secondo alcuni “non esiste”) il giudice siciliano e gli agenti della scorta, tra cui il triestino Eddie Cosina.
È qualcosa di più di una commemorazione e di diverso da un “normale” spettacolo teatrale, quello che va in scena oggi alle 20.30 al Teatro Basaglia di San Giovanni. “Paolo Borsellino. Essendo Stato” di Ruggero Cappuccio era già passato dalle nostre parti, nel 2006 al Rossetti, nell’interpretazione di un cast di attori professionisti, capitanati da Massimo De Francovich.
Stavolta la novità sta in quegli otto donne e uomini, che a vario titolo lavorano tutti al tribunale di Milano, e che per una volta hanno scelto di lasciare le aule di giustizia e salire su un palcoscenico. Per ricordare, per testimoniare, per riaffermare il proprio no alla mafia, a tutte le mafie.
I magistrati si chiamano Oscar Magi (che firma anche la regia), Lucio Nardi, Ilio Mannucci Pacini, Luciana Greco, Monica Cavassa, Maria Bambino. Con loro l’avvocato Barbara Medagliani e la giornalista Marica Orlandi. Hanno debuttato nel dicembre scorso al Teatro San Carlo di Milano, la loro città, e sembrava che dovesse trattarsi di un’unica rappresentazione.
Poi a primavera è arrivato un invito da Sassari, ora da Trieste, nell’ambito delle iniziative organizzate dalla rete di Libera nel ventennale della strage di via D’Amelio, che si concluderanno domani alle 20.30, all’Auditorium del Museo Revoltella, con la presentazione del libro “Quarant’anni di mafia” di Saverio Lodato (presente l’autore, modera Lorenzo Frigerio di Libera Informazione, interviene il sindaco di Trieste Roberto Cosolini).
Lo spettacolo di stasera al Teatro Basaglia è un atto unico, a cura dell’Associazione Nazionale Magistrati di Milano (il sindacato di categoria). Un testo nel quale viene data voce, fra tragica realtà e documentata fantasia, a quel che poteva essere passato nella mente di Borsellino in quei bravi ma forse al tempo stesso lunghissimi istanti passati fra l’esplosione e la morte. Memorie, speranze, confessioni, forse sogni di un giudice che aveva scelto di rimanere nella sua terra, nella sua città. Proprio come l’amico e collega Giovanni Falcone, saltato in aria a Capaci il 23 maggio 1992.
Destino analogo, due mesi dopo quel 19 luglio 1992 di via D’Amelio. Per l’esattezza, cinquantasette giorni. Nei quali Borsellino sapeva che il suo turno era solo questione di tempo, forse di poco tempo. E che lo Stato, il “suo” Stato, quello che aveva scelto di servire fino all’ultimo giorno, non avrebbe saputo o potuto salvarlo. «Palermo - diceva Borsellino - non mi piaceva, per questo ho imparato ad amarla, perché il vero amore consiste nell’amare ciò che non piace, per poterlo cambiare...».

DYLAN lun16 unica tappa italiana del tour, 50 anni fa BLOWIN' IN THE WIND

Stasera unica tappa italiana per quest’estate - a Barolo, provincia di Cuneo, a chiusura del festival Collisioni - del Never Ending Tour di Bob Dylan. Che esattamente cinquant’anni fa scriveva “Blowin’ in the wind”, il celebre inno pacifista (“How many roads must a man walk down before you call him a man...?”) considerato il manifesto, l’inno pacifista di un’epoca, che sarebbe stato pubblicato all’inizio del ’63 nell’album “The freewheelin’ Bob Dylan”.
Torniamo per un attimo a quegli anni. Il ricordo ancora fresco del conflitto mondiale, la paura di una guerra atomica, l’opposizione di tanti giovani americani alla politica del loro governo, sfociata dapprima nella guerra fredda e poi nella guerra nel Vietnam: tutti elementi già presenti negli scritti della Beat Generation di Allen Ginsgerg e Jack Kerouac, come nel movimento della controcultura statunitense alla ricerca di propri paladini anche nel campo della musica.
E lì che entra in scena quel giovane cantastorie nato a Duluth e proveniente da Hibbing, piccolo sobborgo minerario del Minnesota. Robert Allen Zimmerman non ha ancora compiuto vent’anni quando nel gennaio del ’61 arriva a New York per far visita al suo idolo Woody Guthrie, ricoverato al New Jersey Hospital. Il ragazzo comincia a suonare nei locali del Greenwich Village, partecipa a qualche festival, suona l’armonica nel disco di una cantante folk. Viene notato da John Hammond, talent scout della Columbia Records, che lo mette sotto contratto e gli fa incidere il suo primo album, intitolato semplicemente “Bob Dylan”.
Brani della tradizione folk, blues, gospel, oltre a due canzoni di sua composizione. L’album vende cinquemila copie (poche, per l’epoca), i suoi discografici vorrebbero stracciare il contratto, Hammond tiene duro. I fatti gli daranno ragione.
Nell’agosto ’62 il giovane Zimmerman va alla Corte suprema di New York e sceglie di cambiare il suo nome in Robert Dylan. Non basta: incontra Albert Grossman, che diventa il suo manager. Due mosse che portano al secondo album, “The freewheelin’ Bob Dylan”, pubblicato nel maggio ’63 e considerato da molti come il primo vero disco del nostro. Con dentro, fra le altre, anche quella “Blowin’ in the wind” da cui siamo partiti, che Dylan teneva nel cassetto ormai da qualche mese.
Ma nel disco c’era anche un altro futuro classico dylaniano, “A hard rain’s a-gonna fall”, con la sua struttura da ballata folk - voce, chitarra acustica, armonica - e i suoi riferimenti abbastanza espliciti alla paura di un’apocalisse nucleare. Erano i mesi della crisi dei missili di Cuba, del rischio di una terza guerra mondiale, e anche quel brano - con le sue visionarie riflessioni sul senso della condizione umana - divenne un inno del pacifismo, del rifiuto della violenza e dell’opposizione a tutte le guerre.
Mezzo secolo dopo, Bob Dylan è un signore di settantuno anni, che probabilmente ha avuto dalla vita e dalla carriera molto più di quanto avrebbe mai osato immaginare in quell’estate del ’62. Da anni viene candidato al Nobel per la letteratura, prima o poi c’è anche la possibilità e la speranza che l’ambitissimo premio gli venga assegnato.
Ogni tanto sforna ancora qualche ottimo album (come “Modern times”, del 2006), alternandolo a cose meno fondamentali e a
Ed è praticamente sempre in tournèe, nonostante l’età e gli allori potrebbero permettergli una vita più ritirata. Il suo cosiddetto Never Ending Tour (la tournèe che non finisce mai) è infatti cominciata, secondo i suoi storici, il 7 giugno ’88 e, concedendosi ovviamente delle pause di qualche mese per volta, non dà ancora l’impressione di volersi concludere.
In questi anni Dylan ha cantato praticamente ovunque, in tutti i continenti, nelle grandi città come nei piccoli centri, accompagnato da una band in perenne evoluzione. Come in perenne evoluzione - per non dire peggio - sono le letture e a volte i veri e propri stravolgimenti cui l’eterno menestrello sottopone cavalli di battaglia e brani vecchi e nuovi. A volte anche i suoi fan più accaniti - quelli che il 24 maggio di ogni anno festeggiano a casa propria, con amici e parenti, il compleanno del nostro - stentano a ricoscere certi attacchi dal vivo...
Forse succederà anche stasera, in provincia di Cuneo, dove Dylan concluderà il piccolo ma prestigioso festivan che quest’anno ha ospitato anche Patti Smith. I seimila biglietti (a 26 euro) sono andati esauriti in soli quattro giorni, con presenze da tutta italia e anche da Svizzera e Francia. Per uno dei grandi protagonisti della cultura e della musica del Novecento. Che mezzo secolo fa, appena ventenne, annunciò al mondo che un vento nuovo stava soffiando.

giovedì 12 luglio 2012

LIGABUE il rumore dei baci a vuoto

Quando nel ’97 debuttò come scrittore con la raccolta di racconti “Fuori e dentro il borgo” (esordio col botto: oltre settecentomila copie vendute...), Luciano Ligabue era già una rockstar capace di infiammare i cuori e gli animi. Ma pochi, anche fra i suoi fan più accaniti, avrebbero mai immaginato che con quel libro sarebbe cominciata per l’indio di Correggio, classe 1960, una sorta di carriera parallela: musicista ma anche scrittore, dunque, senza dimenticare qualche tentazione anche in campo cinematografico (ricordate il film “Radiofreccia”?).
Ora, giunto alla quarta prova come scrittore, fra romanzi e antologie di racconti e raccolte di poesie, il gradimento di pubblico e critica per le sue opere si esprime ancora a botte di centinaia di migliaia di copie vendute (numeri abituali nel rock, molto meno nell’editoria) ma anche di recensioni sempre più che positive. E quasi non fa più notizia.
“Il rumore dei baci a vuoto” (Einaudi, pagg. 167, euro 15) è di nuovo una raccolta di racconti, proprio come in quell’antico e fortunatissimo esordio della fine degli anni Novanta, suggellato anche dal Premio Elsa Morante. E svetta maestoso nelle classifiche di vendita di questa calda estate 2012, sbucando spesso fra le letture obbligate sotto gli ombrelloni.
Il Liga stavolta propone tredici storie di gente comune, quasi dei piccoli grandi drammi della nostra vita quotidiana. In un’atmosfera spesso cupa, quasi noir, come suggerisce già il verso di una sua canzone riportato in copertina: «L’amore conta, conosci un altro modo per fregar la morte?».
Ecco allora la vicenda di un uomo che sembra disposto a tutto, a quasi tutto, pur di salvare il cane della moglie. E forse il proprio stesso matrimonio. Una storia che fa quasi da contraltare a un’altra, dedicata a un signore tormentato dai sensi di colpa per aver messo sotto un gatto.
Poi c’è la lettera che un chirurgo aprirà, o forse no. Righe che parlano dell’umanità del dolore, del rispetto che merita. E ancora il segreto che una donna anziana si è portata dietro per tutta la vita, la vacanza che assume le sembianze di un incubo per colpa di una compagna di viaggio sbagliata, un rapporto che scricchiola per colpa della ricerca della verità a tutti i costi, la vicenda di un giovane medico tormentato dalle manie più particolari, il senso disperato di un rapimento...
La brevità, esaltata dalla formula del racconto, si trasforma in cifra stilistica quando ogni storia, ogni racconto non conosce una vera e propria conclusione. Sembra quasi rimanere in sospeso, ancora aperto a una novità, a un ipotetico colpo di scena, a un nuovo finale. Flash su istanti della vita delle persone, della gente comune, che quasi promettono un seguito, una speranza di un futuro diverso.
Come nelle sue belle canzoni, anche qui si parla di vita e di amore. Amore nella coppia, amore nei confronti dei figli, dei genitori, degli amici. Amori e sentimenti mai facili, ma sempre pervasi da un tocco di rassicurante tenerezza. Che regalano un tocco in più a racconti ben scritti.
Ligabue, ha notato qualcuno, corteggia il lato crudele della vita. E lo fa dall’osservatorio di quel grande serbatoio di ispirazione - e di narrativa - che è la provincia, la vita di provincia che l’artista non ha abbandonato nemmeno con il successo.
Continuando a nutrire la propria creatività anche delle cosiddette “chiacchiere di paese”. E pescando nella sua vita, nei suoi ricordi, nelle storie vere o inventate che ha abitato in tutti questi anni. Prima e dopo il successo come artista.