lunedì 15 novembre 2004

INTERVISTA POOH / RED CANZIAN

«Allo stadio devi gridare, a teatro puoi anche sussurrare. In fondo è la stessa differenza che c’è fra una cena con cinquanta invitati e una a lume di candela, con due soli commensali...».
Parla Red Canzian, che da trentatre anni (su un totale di trentotto di carriera del gruppo) è uno dei quattro Pooh. Il cui nuovo tour teatrale fa tappa giovedì e venerdì al Politeama Rossetti. «Erano dieci anni - spiega il bassista, che vive vicino Treviso - che non suonavamo nei teatri, e devo dire che ci mancava. Vedere la gente in faccia è una sensazione impagabile, ti permette di suonare più rilassato, non sei costretto a spingere sempre sull’acceleratore...».
Un altro vostro tour teatrale fu quello del ’91...
«Sì, quello dei venticinque anni di carriera, intitolato ”La nostra storia”. Ricordo anche in quell’occasione la tappa triestina, sempre al Rossetti, un bellissimo teatro nel quale torniamo sempre volentieri...».
Dall’arresto a Trieste del vostro batterista saranno invece passati trent’anni...
«Eh sì... era l’estate del ’74. Eravamo seduti al tavolo di un ristorante sulle Rive, davanti alla vecchia pescheria, e Stefano aveva difeso una donna presa a male parole da un automobilista per aver attraversato la strada in maniera repentina. Finì a insulti. E il tipo era un carabiniere, o un poliziotto, non ricordo bene, in borghese. Risultato: oltraggio a pubblico ufficiale, due notti al Coroneo, processo per direttissima con condanna a sei mesi in primo grado e assoluzione in appello...».
Quella sera fu anche il vostro unico concerto in tre...
«Già, dovevamo suonare al Castello di San Giusto. E mentre il nostro batterista stava in galera, noi ci presentammo in formazione inedita, senza batteria, con me e Dodi che davamo il ritmo battendo col piede sulle tavole del palcoscenico...».
Di quegli anni, in questo tour, rifate diverse canzoni...
«Sì, la scaletta comprende quarantacinque canzoni, una sorta di ”greatest hits” fra i quali non mancano i cavalli di battaglia degli anni Settanta. C’è anche ”Parsifal”, il nostro rock sinfonico, con tanto di parte orchestrale lunga più di sei minuti...».
Le vecchie «suite», proprio mentre a Sanremo pongono il limite dei tre minuti...
«Ecco, quella novità del regolamento la trovo davvero incredibile. Come si può porre un limite del genere? La nostra scelta di riproporre anche un momento orchestrale come la ”suite” va intesa in controtendenza con chi, soprattutto in tivù, vuole mettere la musica in secondo piano, privilegiando solo il revival o poenndo limiti assurdi...».
Invece...?
«Invece un artista, un gruppo devono avere la possibilità anche di sviluppare un discorso musicale, liberare la propria creatività, creare una magia attorno a un brano. Solo così si aiuta la discografia, solo così si restituisce energia vitale a un settore in perenne crisi...».
Ma case discografiche e artisti stanno correndo ai ripari...
«Per fortuna. La pirateria sta uccidendo il settore. L’unica alternativa è usare i nuovi strumenti, entrare con delle regole nel settore della musica ”on line”. Perchè se non ci sono i soldi si chiude baracca, non si investe più sui giovani, non c’è futuro...».
A proposito di giovani: in quattro avete undici figli, ma i due di Facchinetti sono ormai delle star...
«Dj Francesco ha ventiquattro anni, lo abbiamo visto crescere, siamo felici del successo che ha. Anche perchè è un ragazzo speciale e se lo merita. La sorella, Alessandra, che è più grande, me la ricordo che gattonava sotto il pianoforte del padre. Ora è una stilista di punta, ha preso il posto di Tom Ford nel settore donna di Gucci, le auguro di continuare così».
Li sentite un po’ «figli dei Pooh»?
«Sì, perchè la nostra è davvero come una grande famiglia. Lo dico senza retorica. E poi, Dj e Alessandra sono i più grandi di età: ma anche fra gli altri alcuni si stanno muovendo, pian piano, nel nostro settore. Del resto, sono cresciuti in questo ambiente...».
Il musical «Pinocchio»?
«È stata una grande esperienza. Per la prima volta ci siamo trovati a scrivere cose che non sarebbero state cantate da noi stessi. Ci siamo sentiti molto liberi. E siamo molto soddisfatti del risultato, oltre che dell’ottima accoglienza che il pubblico sta tuttora riservando al musical».
Nell’ultimo disco, «Ascolta», avete riscoperto i cori...
«Fra le nuove canzoni, abbiamo deciso di mettere nel disco proprio quelle che si prestavano di più al canto corale, che è stato storicamente una sorta di nostro marchio di fabbrica. Ne è venuto fuori quello che forse è il nostro album più lirico, frutto di una maturità compositiva di tutti e quattro...».
Perchè «Ascolta»?
«Non è un imperativo, ma piuttosto un consiglio: un consiglio rivolto a chi non ascolta le persone che ha vicino. Molti pretendono di essere ascoltati, ma non offrono al prossimo altrettanta disponibilità. Viviamo in un mondo in cui tutti urlano, ma sono pochi quelli che ascoltano...».
Vi dispiace essere ricordati solo per le canzoni d’amore?
«No, ormai lo abbiamo accettato. Ma il nostro pubblico più attento sa che abbiamo trattato spesso anche temi sociali. ”Pierre” parlava nel ’76 di omosessualità. ”Pensiero” era la storia di un uomo messo in galera ingiustamente, per un fatto che non aveva commesso. La stessa ”Parsifal” era un inno alla pace, con l’eroe wagneriano che getta le armi e rifiuta il ruolo di supereroe...».
Una volta siete stati anche censurati...
«Sì, nel ’66 del nostro esordio, con ”Brennero ’66”. Era ispirata a un fatto di cronaca: l’uccisione di un finanziere, nell’Alto Adige degli attentati di quegli anni. Vincemmo il Festival delle Rose, ma la Rai ci censurò, imponendo un titolo diverso per il festival (diventò ”Le campane del silenzio”) e cancellando un verso che diceva ”t’hanno ammazzato quasi per gioco”... Erano proprio altri tempi».

martedì 9 novembre 2004

INTERVISTA PATTY PRAVO

«Farò un film negli Stati Uniti, come attrice e come regista. E poi due dvd: uno dedicato alla canzone napoletana, che considero la vera musica italiana, quella delle origini, e uno ai miei classici. Oltre ovviamente al dvd che registro a Gorizia, per immortalare lo spettacolo che ho portato in tour quest’estate...».
Patty Pravo, che domani sera alle 20.45 canta al Teatro Verdi di Gorizia, ultima tappa del «Nic Unic Tour», vive un momento di grande soddisfazione professionale. «Sì, sento di avere un buon rapporto con il pubblico. Tanto che ho deciso di rinviare il momento in cui mi dedicherò completamente ad altre cose. Che ne so, magari andare a dirigere un’orchestra. Ora che finisco il tour devo partire per la promozione dell’ultimo disco all’estero: Francia, Spagna, Germania, Sudamerica... E poi la Cina, i cinesi sono fantastici, mi hanno adottata, con loro si è stabilito un feeling davvero particolare...».
«Nic Unic» è stato considerato un disco difficile.
«Perchè ho voluto fermamente lavorare con i giovani, che non è una cosa facile. Non hanno il senso della melodia e dell’armonia. E invece io trovo che la canzone vada rivalutata. A volte una canzonetta ti fa star bene, ti regala tre minuti di serenità, di tranquillità. Magari ti fa anche sorridere. Il che non guasta».
I giovani, invece...?
«Bisogna distinguere. La generazione dei trentenni è da accoppare. Non hanno curiosità, rifiutano di studiare, sono molto oscuri. Chissà, forse perchè sono figli di genitori sessantottini... I ventenni invece mi piacciono di più: studiano, sono promettenti, interessanti, mi danno maggior sicurezza».
Lei non ha avuto figli...
«L’ho deciso da ragazza, quando ho cominciato questo lavoro. Mi sembrava non fosse compatibile con l’allevare dei figli. Poi, chiaro, quando arrivi a una certa età, ci ripensi, magari ti mancano. Ma il mondo è pieno di bambini che non hanno una famiglia e che avrebbero bisogno di aiuto».
Insomma, forse adotta un cinesino...?
«No, due. Devono essere due, perchè hanno bisogno di giocare... Battute a parte, è un problema serio. Ricordate il caso di Dalila Di Lazzaro? Aveva cresciuto e perso il figlio in un incidente. E le è stato negato il diritto all’adozione».
Una sua frase sulle adozioni dei gay, un paio di mesi fa, ha scatenato una polemica...
«Io sono convinta che tutti possono fare quel che vogliono ed essere quel che sono. Ma sulle adozioni sono dura: penso che un figlio abbia bisogno di un padre e di una madre, con ruoli ben definiti. Solo che nell’intervista in questione domande e risposte erano state troppo schematizzate. È uscito un ”mi dà fastidio quando i gay rompono le palle con le adozioni”. E alcuni si sono sentiti feriti...».
Come ha rimediato?
«Con una lettera sul mio sito. In cui spiego come sono andate le cose e ribadisco che per me le persone sono tutte uguali. Non sono le scelte sessuali a indicare le qualità e l’intelligenza di una persona. E poi io sono un frocio, ma in senso culturale...».
Visto che siamo in argomento: in quell’intervista ha anche smentito la sua presunta bisessualità.
«Io ho sempre avuto amori maschili, mai femminili. L’amicizia fra donne l’ho scoperta da poco. Ho sempre vissuto con gli uomini, ho avuto quattro mariti. Insomma, la mia ambiguità sessuale è una leggenda».
Si sente l’ultima diva della canzone?
«Non solo della canzone... La verità è che, rispetto al mondo in cui sono cresciuta, mi sento un po’ sola. Molti miei amici sono morti: dal pittore Mario Schifano a Lucio Battisti... Non è facile trovare persone della tua stessa razza...».
Fra i suoi colleghi che hanno cominciato attorno al ’66 del suo debutto con «Ragazzo triste»?
«Beh, stimo molto Morandi, con Dalla ci conosciamo da che eravamo bambini, mi piace Battiato quando fa cose divertenti. Ma troppi altri pensano solo ai soldi: i soldi servono, sono importanti, ma non si può fare tutto in ragione del tornaconto economico. E non basta fare i cantanti per essere davvero artisti...».
Come affronta il passare degli anni?
«Con curiosità. E allegria. Non bisogna annoiarsi mai. Spero di diventare vecchia con una testa buona, di non smarrire mai la mia grande libertà. E la morte non mi incute paura: la vedo come un passaggio, fa parte della vita».
«Una volta da bambina - conclude l’icona del beat italiano - mi hanno chiesto ”quanti anni hai?”, e io ho risposto: ”sono millenaria”...».


 

lunedì 8 novembre 2004

INTERVISTA SABINA GUZZANTI

Da quando l’anno scorso, di questi tempi, il suo «Raiot. Armi di distrazione di massa» è stato censurato dalla Rai, Sabina Guzzanti vive un momento di grande popolarità. Suo malgrado è diventata uno dei personaggi simbolo - con Daniele Luttazzi, Paolo Rossi, gli stessi Enzo Biagi e Michele Santoro - di quella parte di Paese che si oppone all’Italia berlusconiana ed è sempre più convinta di vivere in un regime. Ovviamente non un regime come quelli che il mondo ha conosciuto nel Novecento. Ma un regime mediatico, fondato sul potere della televisione e sul pensiero unico, nel quale per far sparire qualcuno non serve mandarlo al confino ma basta, più banalmente, decretarne l’ostracismo da sua maestà il video.
Estromessa in malo modo dal piccolo schermo, la Guzzanti da qualche mese si consola nei teatri. Anche questo suo «Reperto Raiot», che ha debuttato nell’aprile scorso a Brescia, ha già girato mezza Italia, doveva concludersi a luglio e invece prosegue, arrivando ora a Trieste, dopo aver ottenuto ovunque un grande successo di pubblico prim’ancora che di critica: lo dimostra il fatto che al Politeama Rossetti, dove era prevista domani sera una sola rappresentazione, in apertura del cartellone «Cabaret», gli ottimi dati di prevendita dei biglietti hanno convinto gli organizzatori ad allestire una replica per la serata di giovedì.
Nello spettacolo - scritto in collaborazione con Carlo Giuseppe Gabardini e l’editorialista di «Repubblica» Curzio Maltese, che aveva già firmato con la Guzzanti il precedente «Giuro di dire la varietà» - si immagina che in un futuro prossimo, mentre si cerca di ricostruire gli eventi e i personaggi mediatici e politici del nostro momento storico, ci si imbatta in un misterioso «Reperto Raiot», magari conservato in un futuribile Museo della Resistenza.
Ovviamente un pretesto, dal quale parte un’analisi dei mezzi d'informazione e della politica dell’Italia del 2004, vista attraverso gli occhi dell’attrice con la sua faccia e la sua voce, ma anche attraverso una lunga galleria di personaggi da lei interpretati: da Bruno Vespa e Barbara Palombelli, da Rocco Buttiglione (e qui i riferimenti alla stretta attualità di queste ultime settimane, ovviamente, si sprecano...) a Massimo D’Alema, da Valeria Marini a Clarissa Burt, da Antonella Clerici a molti altri.
Nel quadro inquietante dell'Italia berlusconiana, alla fine non può mancare il deus ex machina, nella persona dello stesso premier: e allora Silvio-Sabina dà il meglio di sé, dispensando agli italiani (improbabili) consigli per poter vivere bene e «interpretare al meglio» le leggi emanate dal suo governo.
La regia dello spettacolo è firmata da Giorgio Gallione. Sul palco, con la Guzzanti, anche Maurizio Rizzuto alle percussioni e Danilo Cherni alle tastiere. Visto che, fra sketch e riflessioni, imitazioni e monologhi, sono previste anche diverse canzoni, fra cui una «Tiggì ciao» cantata sull’aria di «Bella ciao», con versi che fanno più o meno così: «Uno mattina mi sono svegliata, o tg ciao tg ciao, tg ciao ciao ciao, uno mattina mi son svegliata e ho parlato con Mimun. Questa notizia non s'ha da dare, o tg ciao tg ciao, tg ciao ciao ciao, questa notizia non s'ha da dare, la dobbiamo seppellir...».
Seconda strofa: «Guarda qui invece c'è una notizia, a mio giudiz a mio giudiz a mio giudiz fondamental, in Valtellina c'è una gallina che sa contare fino a tre...».
Ma torniamo ai personaggi che la Guzzanti interpreta nello spettacolo. «Ho scelto Vespa - ha spiegato l’attrice - perché in questo momento è lui la televisione. E non soltanto la televisione, ma anche il Parlamento. Le leggi, invece che alle Camere, si discutono soprattutto da lui».
«Lo spettacolo è incentrato sul linguaggio e sul significato contraddittorio delle parole. Basti pensare a termini "guerra e pace" e "censura o libertà". In un'epoca orwelliana come la nostra, la guerra porta addirittura la pace e la censura diventa difesa della libertà».
Ancora Guzzanti: «La società in cui viviamo mi sembra triste. Troppa gente è costretta a una vita che non è vita. E in televisione appare solo quella finta. Nella società reale invece la maggior parte delle persone vive praticamente in uno stato di schiavitù, obbligata a lavori spiacevoli che non avrebbe mai scelto. Più passa il tempo e più i diritti sul lavoro diminuiscono: col timore di essere licenziati per delle fesserie, si è tornati a uno stato di forzato servilismo. La vita costa di più, e molti, troppi sono costretti a occuparsi esclusivamente della propria sopravvivenza».
«Ecco, per tutte queste cose - dice l’attrice - la nostra è una società triste. Non c'è davvero molto da ridere. Cercano di convincerci che facciamo parte di una società evoluta, ma per quanto riguarda la qualità della vita c'è il palese tentativo di privarci tutti sia dell'identità che delle radici. Ormai esiste solo la televisione, che oggi come oggi è qualcosa di orripilante, organizzata proprio per umiliare le persone ancor di più e inculcare loro un senso di schifo per se stessi».
«Io, quando guardo la tv, mi deprimo. Se capita di accenderla e di rimanerne catturati per un attimo, dopo non si ha più voglia di fare nulla. Tutta l'ispirazione sparisce. La televisione attuale è devitalizzante. Ho notato questo effetto anche su di me. Purtroppo ci sono popolazioni intere, che vivono incollate alla tv e rischiano di diventare sempre più tristi e anche più brutte, contagiate da brutti e volgari modi di fare...».
Lo scorso anno, quando «Raiot. Armi di distrazione di massa» fu cancellato dal palinsesto di Raitre dopo la messa in onda di una sola puntata, Sabina Guzzanti si era detta «molto arrabbiata anche per la reazione dei giornali che non gridano allo scandalo. Eppure tutta la stampa straniera ci chiede interviste e ci ha dato ragione. Questa è una censura bieca e lo strumento della querela da parte di Mediaset è pericolosissimo, un pretesto usato per chiuderci, al quale viene dato credito solo dai giornali italiani».
«Il ”Corriere della Sera” ha ironizzato sul fatto che una sola puntata è costata alla Rai una causa da venti milioni di euro. Ma non la vinceranno, perché l’atto di citazione di Mediaset fa ridere. Spiegano cos’è la satira. Lo studio Previti stabilisce che la satira è quella cosa che tende a sdrammatizzare e a rendere simpatico un politico, a diminuire le tensioni sociali. Quello che faccio io, invece, secondo loro è scorretto, perché cercherei di orientare l’opinione pubblica, farei ”opinione”, cosa che la satira non può fare...».
Secondo Sabina Guzzanti - ma anche secondo molta altra gente - il problema oggi non è solo se in tv c’è uno spazio per la satira. «Qui non c’è spazio per la libertà d’espressione, anche sui giornali. È vergognoso, ma ci sono casi infiniti di censura che non vengono denunciati. Tutti i telegiornali sono sottoposti ogni giorno a censure e ad autocensure. Non è un problema solo della satira, ma più in generale è questo illegalissimo, anticostituzionalissimo, vergognosissimo atteggiamento repressivo verso ogni voce diversa dal pensiero unico del governo».
«Qualcuno ha detto - conclude l’attrice - che la mia opinione non rappresenta la maggioranza, quindi è giusto che io non parli. Sta passando una prassi antidemocratica, in cui è complice anche chi dovrebbe stare dalla parte opposta».

giovedì 4 novembre 2004

IPOD

Si chiama iPod. È una scatoletta rettangolare, poco più grande di un pacchetto di sigarette. Può contenere, a seconda delle versioni, cinquemila o diecimila canzoni. Il suo avvento (ne sono già stati venduti sei milioni soprattutto negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo) rappresenta una rivoluzione nel settore della fruizione musicale. Una rivoluzione che fa impallidire quelle incarnate quarant’anni fa dal mangiadischi, trent’anni fa dal walkman, vent’anni fa dal lettore cd portatile...
Già, il cd. Quando il dischetto argenteo soppiantò il vecchio disco di vinile ma anche la cassetta - più o meno all’inizio degli anni Ottanta - sembrava avesse tutte le carte in regola per diventare il supporto del nuovo millennio. Ma i tempi delle moderne tecnologie sono molto più veloci, quasi frenetici, di quelli a cui eravamo abituati nel vecchio Novecento. Ed ecco allora che non si fa in tempo a familiarizzare con una novità, che subito viene spedita in soffitta da quella successiva.
Ma vediamo di capire di che cosa stiamo parlando. Tutto nasce con la musica online, libera e senza regole per definizione. Uno si collega a Internet e grazie a dei software mette il proprio computer in comunicazione con altri computer. Ognuno dei partecipanti a queste reti (le cosiddette P2P) mette a disposizione degli altri un certo numero di brani da scambiare.
Per scaricare un brano, disponendo di una linea veloce, basta meno di un minuto. Lo fanno decine e decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ma è illegale, perchè viola le leggi sul diritto d’autore. In questo modo nessuno paga niente a nessuno: case discografiche, autori, editori, esecutori... Una situazione che è alla base della profonda crisi dell’industria discografica.
Ecco allora che le case discografiche e gli stessi artisti sono corsi ai ripari. Nell’ultimo anno e mezzo sono nati numerosi negozi musicali online, collegandosi ai quali si può scaricare legalmente, pagando delle cifre ridotte rispetto all’acquisto di un disco vero e proprio, singoli brani o interi album. L’ultimo arrivato in Italia è l’iTunes Music Store: offre un milione di brani negli Stati Uniti e settecentomila in Europa, al prezzo fisso di 0,99 euro (o dollari, oltreoceano) per brano.
E siamo all’iPod, che sta alla musica online come il vecchio (si fa per dire...) lettore cd portatile sta al compact-disc. È un lettore di mp3, sigla che sta per Mpeg1-Layer3, e che indica il formato audio digitale più diffuso in rete: molto compresso, riesce a ottenere una qualità paragonabile a quella dei cd-audio, occupando circa un mega byte per minuto.
L’iPod è prodotto dalla Apple. Alla fine del 2001, la multinazionale di Steve Jobs lancia la prima generazione di iPod, un lettore mp3 (formato audio molto vicino alla qualità sonora di un cd) la cui memoria di cinque o dieci gigabyte può archiviare inizialmente fino a duemila brani musicali. Da allora si sono succedute varie versioni, sempre più sottili, con una capacità di memoria superiore: fino a quaranta gigabyte per ben diecimila brani.
Piccolo e leggero, l'iPod permette l’ascolto senza rischio di sussulti o scossoni che interrompono il brano, come avveniva nel lettore cd portatile. L’uso è semplice: grazie a una ghiera sensibile al tocco, la navigazione nella lista di canzoni sullo schermo (i titoli vengono classificati per album o artista) è veloce e precisa e si effettua con un tocco.
Per quanto riguarda l’estetica, la Apple ha puntato sul colore bianco argentato, sulla superficie liscia al tatto, sulle cuffiette bianche: elementi che ne hanno fatto, soprattutto negli Stati Uniti, ma ormai anche nella vecchia Europa, un vero e proprio oggetto di culto. «Newsweek» è uscito con in copertina l’immagine del lettore e la frase: «iPod, therefore I am» (iPod, dunque sono). E secondo il «New York Times», alcune settimane fa, gli americani non si dividevano fra Bush e Kerry, ma fra chi ha già l’iPod e chi ancora lo desidera...
Ma la torta è troppo succulenta per non attirare nuovi commensali. E la Apple, per rispondere all’attacco della Sony, che ha lanciato a sua volta sul mercato dei lettori mp3, adesso punta sugli U2. La band irlandese, protagonista delle pubblicità televisive americane dell'iPod con «Vertigo» e in testa alle classifiche dei singoli scaricati da iTunes, ha infatti permesso alla Apple di mettere in vendita online l'ultimo album, intitolato «How to dismantle an atomic bomb», in uscita il 19 di novembre.
Anzi, Bono e compagni hanno fatto di più. Firmando un accordo - presentato alla stampa la settimana scorsa in California - che permetterà alla multinazionale di Steve Jobs di mettere in commercio (a un prezzo maggiorato di trenta dollari) un nuovo iPod, già ribattezzato Black iPod, con il logo della band e con memorizzato all’origine proprio il nuovo disco degli U2, oltre a una selezione dei brani più noti cantati in venticinque anni di carriera dalla band irlandese. Che dovrebbe inoltre garantire alla Apple l'esclusiva, a tempo determinato, per vendere la loro musica su iTunes.
Insomma, la strada sembra ormai indicata. È una strada che non può fare a meno della musica online, ma a pagamento. Potrebbe essere la chiave per risolvere tre problemi in una botta sola: battere la piaga della pirateria, sconfiggere la crisi dell’industria discografica, risolvere il problema del caro-cd. Perchè se scaricare un brano costa 0,99 euro, un intero album viene a costare fra i sei e gli otto euro e mezzo.
Provare per credere. Gli utenti italiani, collegandosi al sito www.apple.it, possono già ora scaricare brani di Gianni Morandi e Andrea Bocelli, Laura Pausini e Zucchero, Anastacia e Black Eyed Peas, Duran Duran e Bob Marley, Prodigy e George Michael... Insomma, il futuro - in questo caso della musica - è già cominciato.

PAOLO CONTE, ELEGIA

Nove anni senza un disco di inediti. Nove anni dal precedente «Una faccia in prestito», arricchiti comunque di tournèe - in Italia e all’estero -, di album dal vivo, di raccolte di successi, persino di un progetto multimediale fatto di canzoni e disegni («Razmataz»)... Ma pur sempre nove anni, un lasso di tempo lunghissimo, soprattutto nel settore della discografia.
C’è dunque una certa comprensibile attesa, per questo nuovo disco di Paolo Conte. «Elegia» - che esce domani, distribuito da Warner - propone tredici nuove canzoni baciate da quell’inconfondibile marchio di fabbrica che ha fatto grande l’avvocato-cantautore astigiano. Il mondo, l’Italia, forse persino la provincia del 2004 sono diversi da quelli del ’95 in cui uscì il disco precedente. Ma l’universo contiano sembra miracolosamente essersi preservato dai tanti virus che ci ammorbano. Quasi un mondo parallelo nel quale la realtà, la quotidianità entrano di soppiatto.
La dimostrazione sta in un brano come «La nostalgia del Mocambo», quarta e chissà se ultima parte della saga musicale costituita finora da «L'uomo del Mocambo», «La ricostruzione del Mocambo» e «La sagra del Mocambo». E incentrata sulla figura dell’uomo di provincia, quell’antieroe perennemente in cerca della donna giusta (stavolta una francese, Jeannine...) che è un po’ l’alter ego dell’artista.
«Con tutto il mitragliare che c'è in giro, forse ho qualche possibilità di salvarmi nascondendomi dietro al mio piano», spiega Conte, che ama difendersi «con i vecchi metodi, come la fantasmagoria».
Disco grondante nostalgia e struggente malinconia. Come nel «Sandwich man» che gira la città bardato dalle reclame dei film e che finisce per parlare con il linguaggio del cinema, altra grande passione di Conte.
Ma il gusto del pastiche impreziosice e rende unici anche gli altri brani: da «Elegia» a «La casa cinese», da «Frisco» a «Chissà», da «Molto lontano» a «Non ridere», da «Il regno del tango» (con il «tanguero encantador» armato di bandoneon) a «Bamboolah», da «Sonno elefante» a «India», fino a «La vecchia giacca nuova».
Il tour europeo dedicato al nuovo disco di Paolo Conte parte il 23 novembre da Firenze. Poi va in Francia (dove l’hanno fatto Chevalier dans l'Ordre des Arts et Lettres...), Olanda, Belgio, Austria, Germania... Rispetto al nuovo spettacolo dal vivo il nostro dice: «Vorrei sparigliare le carte, ma non sono mai stato un corridore da palco, anzi, sono sempre attaccato al piano, come a una zattera...».

lunedì 1 novembre 2004

INTERVISTA PIETRO GARINEI

Trentanove giorni. Tanto rimase a Trieste il neonato Pietro Garinei, dopo quel lontano 25 febbraio 1919 della sua nascita. «Non so se sia vero - ricorda il re della commedia musicale italiana, inventata con Sandro Giovannini, morto nel ’77 - ma mio papà mi raccontava sempre che ero stato il primo italiano nato a Trieste e battezzato a San Giusto dopo la Grande guerra. Fra l’altro il mio padrino fu Rino Alessi, che poi sarebbe diventato proprietario e direttore del ”Piccolo”, molto amico di papà...».
Ma che ci faceva la sua famiglia a Trieste?
«Mio padre, romano, faceva il giornalista per il Secolo - ricorda Garinei, che ieri mattina ha ricevuto nel Salotto azzurro del Municipio il sigillo trecentesco dal vicesindaco Paris Lippi, in occasione del debutto ieri sera al Rossetti del suo ”Vacanze romane” - ed era stato inviato qui, sul fronte nordorientale. Fra l’altro fu lui che trovò la salma di Francesco Baracca sulle pendici del Montello: una sorta di scoop, per l’epoca».
Sì, ma lei...?
«Semplice. Mia mamma, che era nata a Udine, lo raggiunse a Trieste e io nacqui qui. La mia permanenza in città durò in tutto trentanove giorni, quella dei miei genitori qualche settimana in più...».
Ma il legame dell’artista con la città non si limita ai natali. Sua moglie, di cui parla ancora al presente, anche se da tempo «ci guarda da lassù», era infatti triestina: si chiamava Gabriella Turco «ed è stata lei a farmi amare veramente quella che chiamo comunque ”la mia città”...».
«Come l’ho conosciuta? La mia famiglia - racconta Garinei - era proprietaria di una delle più antiche farmacie di Roma: fondata nel 1595, sta ancora scritto in una targa. Ogni trent’anni bisognava rinnovare la licenza comunale e c’era bisogno di un Garinei laureato in farmacia. Toccò a me, e quello fu il mio primo lavoro. Conobbi Gabriella perchè faceva l’impiegata in una ditta in Galleria Colonna, a due passi dalla nostra farmacia, che stava a piazza San Silvestro...».
Ma lei non faceva il giornalista?
«Sì, ben presto scaricai l’onere familiare della farmacia sulle spalle di mio fratello e mi lasciai sedurre dall'ambiente giornalistico che frequentava mio padre: dopo il Secolo aveva lavorato in un giornale che era stato chiuso dai fascisti, e dopo ancora alla Gazzetta dello Sport. Vicino alla farmacia c’era la grande sala stampa, dove arrivavano tanti giornalisti. E io cominciai proprio per la Gazzetta».
A Trieste ci tornava?
«Qualche volta. Ci tornai nel ’46, al seguito del Giro d’Italia, per un programma radiofonico della Rai che si chiamava ”Giro in Giro”: la sera dopo ogni tappa facevamo una piccola rivista di mezz’ora, con Mario Riva e il Quartetto Cetra. Fu l’anno in cui il Giro doveva arrivare a Trieste ma fu bloccato prima di Duino, ci furono degli incidenti, alla fine vinse Cottur...».
La farmacia, il giornalismo. Ma l’amore per lo spettacolo?
«Vicino alla farmacia, oltre al luogo di lavoro di mia moglie e la sala stampa, c’era anche il Cinema Galleria, regno dell’avanspettacolo, della rivista. E io, appena finivo il mio turno, non mi perdevo uno spettacolo. Fu lì, in quelle lunghe serate, che mi innamorai di questo genere teatrale...».
Giovannini come lo conobbe?
«Nella tribuna stampa dello Stadio Flaminio. Lui lavorava per il Corriere dello Sport, io per la Gazzetta. Fra i giornali c’era una grande rivalità, noi diventammo amici. Avevamo due amori in comune: la Roma e il teatro».
Come nacque il feeling?
«Facendoci degli scherzi feroci. Una volta lui mi fece credere che era morto Muscletone, un cavallo molto famoso negli anni Trenta: io pubblicai la notizia e ovviamente non era vero nulla. Bella figura... Per la vendetta lasciai passare un po’ di tempo e un giorno riuscii a fargli arrivare un comunicato del Coni, contraffatto, in cui c’era scritto che un tal ciclista olandese aveva battuto il record mondiale dell’ora che apparteneva a Coppi. Lui passò la notizia e quella volta risi io...».
Quando decideste di unire le forze?
«Lo spettacolo era la nostra vera passione. Scrivemmo un testo, ”Sono le sette e tutto va bene”, che non fu mai rappresentato. C’era la guerra, e le sette era l’ora del coprifuoco. Finita la guerra rifondammo ”Cantachiaro”, un giornale satirico che era stato soppresso dai fascisti. E poi ne facemmo una rivista teatrale, con lo stesso titolo: debuttò il primo settembre del ’44, al Teatro Quattro Fontane. C’erano Anna Magnani, Marisa Merlini, Olga Villi...».
Fu subito successo?
«Fummo accolti bene. E andò meglio l’anno dopo, con ”Cantachiaro n.2”, al Teatro Valle, sempre con la Magnani, ma anche con Gino Cervi, Aroldo Tieri, Ave Ninchi, un debuttante Raimondo Vianello che si faceva chiamare Raimondo Viani...».
Insomma, era nata la ditta «Garinei & Giovannini»...
«Sì. La prima volta che i nostri nomi campeggiavano solitari sulle locandine fu per lo spettacolo ”Soffia, so’”. C’era ancora la Magnani con noi, e il fatto che lei, donna straordinaria, non ci avesse lasciato era la prova del nostro successo».
E Wanda Osiris?
«Lavorare con lei rappresentò il passaggio dalla rivista satirica, con compagnie di otto, massimo dieci attori, alla grande rivista, che significava anche grandi compagnie. Con la Wandissima debuttammo con ”Si stava meglio domani”, doveva essere il ’46, e l’anno dopo facemmo anche ”Domani è sempre domenica”...».
Ma la commedia musicale italiana quando è nata?
«Dopo. Eravamo stanchi della rivista, sapevamo che in America era nata la musical comedy, cioè la commedia musicale, ed eravamo impazienti di andarla a vedere. Con Sandro facemmo una scommessa, su chi per primo sarebbe riuscito ad avere il visto e a volare oltreoceano. Vinsi io, sbarcai a New York e la sera stessa andai a vedere ”Guys and dolls” a Broadway. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi: Sandro, dobbiamo cambiare tutto...».
Cos’aveva capito?
«Che c’era un altro modo di fare uno spettacolo musicale. E che era molto più accattivante, agile, divertente, adatto al grande pubblico».
La differenza fra rivista e commedia musicale?
«La rivista era un susseguirsi di immagini, senza una storia vera. Sì, c’era una trama, ma era leggera, quasi un pretesto per le immagini. Nella commedia musicale invece la storia c’era, ed era molto importante».
Tornato in Italia...
«Cominciammo a lavorare alla prima commedia musicale del dopoguerra: ”Attanasio, cavallo vanesio”, con Renato Rascel e Lauretta Masiero. Musiche di Gorni Kramer. Debuttammo a Roma, nel ’52...».
Lei non ama il termine ”musical”...
«No, è che mi piacciono i termini italiani, e ”musical” non è altro che la contrazione di ”musical comedy”, ovvero commedia musicale. Poi l’Italia oggi è abbastanza frequentata da spettacoli americani che si chiamano musical, quindi è bene che quelli italiani si chiamino commedia musicale: l’erede dell’operetta, la modernizzazione del melodramma...».
Che voi avete portato anche all’estero...
«Sì, in tutti questi anni i nostri spettacoli sono stati rappresentati in mezzo mondo. Ma vedere il nostro ”Rugantino” a Broadway, nel ’64, nella patria della ”musical comedy”, è stata davvero una soddisfazione impagabile: era come andare all’università del musical...».
S’è fatto tardi. Pietro Garinei, signore d’altri tempi, sorride e ringrazia. Dice che deve tornare in teatro per le ultime prove. «Ma tutte queste cose, non vorrà mica scriverle sul giornale... A chi vuole che interessino... Bastano dieci righe su questo sigillo del Comune. Che farà piacere a Gabriella, che ci guarda da lassù...».