Trentanove giorni. Tanto rimase a Trieste il neonato Pietro Garinei, dopo quel lontano 25 febbraio 1919 della sua nascita. «Non so se sia vero - ricorda il re della commedia musicale italiana, inventata con Sandro Giovannini, morto nel ’77 - ma mio papà mi raccontava sempre che ero stato il primo italiano nato a Trieste e battezzato a San Giusto dopo la Grande guerra. Fra l’altro il mio padrino fu Rino Alessi, che poi sarebbe diventato proprietario e direttore del ”Piccolo”, molto amico di papà...».
Ma che ci faceva la sua famiglia a Trieste?
«Mio padre, romano, faceva il giornalista per il Secolo - ricorda Garinei, che ieri mattina ha ricevuto nel Salotto azzurro del Municipio il sigillo trecentesco dal vicesindaco Paris Lippi, in occasione del debutto ieri sera al Rossetti del suo ”Vacanze romane” - ed era stato inviato qui, sul fronte nordorientale. Fra l’altro fu lui che trovò la salma di Francesco Baracca sulle pendici del Montello: una sorta di scoop, per l’epoca».
Sì, ma lei...?
«Semplice. Mia mamma, che era nata a Udine, lo raggiunse a Trieste e io nacqui qui. La mia permanenza in città durò in tutto trentanove giorni, quella dei miei genitori qualche settimana in più...».
Ma il legame dell’artista con la città non si limita ai natali. Sua moglie, di cui parla ancora al presente, anche se da tempo «ci guarda da lassù», era infatti triestina: si chiamava Gabriella Turco «ed è stata lei a farmi amare veramente quella che chiamo comunque ”la mia città”...».
«Come l’ho conosciuta? La mia famiglia - racconta Garinei - era proprietaria di una delle più antiche farmacie di Roma: fondata nel 1595, sta ancora scritto in una targa. Ogni trent’anni bisognava rinnovare la licenza comunale e c’era bisogno di un Garinei laureato in farmacia. Toccò a me, e quello fu il mio primo lavoro. Conobbi Gabriella perchè faceva l’impiegata in una ditta in Galleria Colonna, a due passi dalla nostra farmacia, che stava a piazza San Silvestro...».
Ma lei non faceva il giornalista?
«Sì, ben presto scaricai l’onere familiare della farmacia sulle spalle di mio fratello e mi lasciai sedurre dall'ambiente giornalistico che frequentava mio padre: dopo il Secolo aveva lavorato in un giornale che era stato chiuso dai fascisti, e dopo ancora alla Gazzetta dello Sport. Vicino alla farmacia c’era la grande sala stampa, dove arrivavano tanti giornalisti. E io cominciai proprio per la Gazzetta».
A Trieste ci tornava?
«Qualche volta. Ci tornai nel ’46, al seguito del Giro d’Italia, per un programma radiofonico della Rai che si chiamava ”Giro in Giro”: la sera dopo ogni tappa facevamo una piccola rivista di mezz’ora, con Mario Riva e il Quartetto Cetra. Fu l’anno in cui il Giro doveva arrivare a Trieste ma fu bloccato prima di Duino, ci furono degli incidenti, alla fine vinse Cottur...».
La farmacia, il giornalismo. Ma l’amore per lo spettacolo?
«Vicino alla farmacia, oltre al luogo di lavoro di mia moglie e la sala stampa, c’era anche il Cinema Galleria, regno dell’avanspettacolo, della rivista. E io, appena finivo il mio turno, non mi perdevo uno spettacolo. Fu lì, in quelle lunghe serate, che mi innamorai di questo genere teatrale...».
Giovannini come lo conobbe?
«Nella tribuna stampa dello Stadio Flaminio. Lui lavorava per il Corriere dello Sport, io per la Gazzetta. Fra i giornali c’era una grande rivalità, noi diventammo amici. Avevamo due amori in comune: la Roma e il teatro».
Come nacque il feeling?
«Facendoci degli scherzi feroci. Una volta lui mi fece credere che era morto Muscletone, un cavallo molto famoso negli anni Trenta: io pubblicai la notizia e ovviamente non era vero nulla. Bella figura... Per la vendetta lasciai passare un po’ di tempo e un giorno riuscii a fargli arrivare un comunicato del Coni, contraffatto, in cui c’era scritto che un tal ciclista olandese aveva battuto il record mondiale dell’ora che apparteneva a Coppi. Lui passò la notizia e quella volta risi io...».
Quando decideste di unire le forze?
«Lo spettacolo era la nostra vera passione. Scrivemmo un testo, ”Sono le sette e tutto va bene”, che non fu mai rappresentato. C’era la guerra, e le sette era l’ora del coprifuoco. Finita la guerra rifondammo ”Cantachiaro”, un giornale satirico che era stato soppresso dai fascisti. E poi ne facemmo una rivista teatrale, con lo stesso titolo: debuttò il primo settembre del ’44, al Teatro Quattro Fontane. C’erano Anna Magnani, Marisa Merlini, Olga Villi...».
Fu subito successo?
«Fummo accolti bene. E andò meglio l’anno dopo, con ”Cantachiaro n.2”, al Teatro Valle, sempre con la Magnani, ma anche con Gino Cervi, Aroldo Tieri, Ave Ninchi, un debuttante Raimondo Vianello che si faceva chiamare Raimondo Viani...».
Insomma, era nata la ditta «Garinei & Giovannini»...
«Sì. La prima volta che i nostri nomi campeggiavano solitari sulle locandine fu per lo spettacolo ”Soffia, so’”. C’era ancora la Magnani con noi, e il fatto che lei, donna straordinaria, non ci avesse lasciato era la prova del nostro successo».
E Wanda Osiris?
«Lavorare con lei rappresentò il passaggio dalla rivista satirica, con compagnie di otto, massimo dieci attori, alla grande rivista, che significava anche grandi compagnie. Con la Wandissima debuttammo con ”Si stava meglio domani”, doveva essere il ’46, e l’anno dopo facemmo anche ”Domani è sempre domenica”...».
Ma la commedia musicale italiana quando è nata?
«Dopo. Eravamo stanchi della rivista, sapevamo che in America era nata la musical comedy, cioè la commedia musicale, ed eravamo impazienti di andarla a vedere. Con Sandro facemmo una scommessa, su chi per primo sarebbe riuscito ad avere il visto e a volare oltreoceano. Vinsi io, sbarcai a New York e la sera stessa andai a vedere ”Guys and dolls” a Broadway. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi: Sandro, dobbiamo cambiare tutto...».
Cos’aveva capito?
«Che c’era un altro modo di fare uno spettacolo musicale. E che era molto più accattivante, agile, divertente, adatto al grande pubblico».
La differenza fra rivista e commedia musicale?
«La rivista era un susseguirsi di immagini, senza una storia vera. Sì, c’era una trama, ma era leggera, quasi un pretesto per le immagini. Nella commedia musicale invece la storia c’era, ed era molto importante».
Tornato in Italia...
«Cominciammo a lavorare alla prima commedia musicale del dopoguerra: ”Attanasio, cavallo vanesio”, con Renato Rascel e Lauretta Masiero. Musiche di Gorni Kramer. Debuttammo a Roma, nel ’52...».
Lei non ama il termine ”musical”...
«No, è che mi piacciono i termini italiani, e ”musical” non è altro che la contrazione di ”musical comedy”, ovvero commedia musicale. Poi l’Italia oggi è abbastanza frequentata da spettacoli americani che si chiamano musical, quindi è bene che quelli italiani si chiamino commedia musicale: l’erede dell’operetta, la modernizzazione del melodramma...».
Che voi avete portato anche all’estero...
«Sì, in tutti questi anni i nostri spettacoli sono stati rappresentati in mezzo mondo. Ma vedere il nostro ”Rugantino” a Broadway, nel ’64, nella patria della ”musical comedy”, è stata davvero una soddisfazione impagabile: era come andare all’università del musical...».
S’è fatto tardi. Pietro Garinei, signore d’altri tempi, sorride e ringrazia. Dice che deve tornare in teatro per le ultime prove. «Ma tutte queste cose, non vorrà mica scriverle sul giornale... A chi vuole che interessino... Bastano dieci righe su questo sigillo del Comune. Che farà piacere a Gabriella, che ci guarda da lassù...».
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