sabato 17 giugno 2006

di Carlo Muscatello
TRIESTE «Dalla piazza dell’Unità di Trieste...». Sono appena passate le ventuno di ieri. La sigla di Gianna Nannini è già andata. Panoramica sui palazzi illuminati. E la voce stentorea di Andrea Salvetti apre la seconda serata del 43.o Festivalbar, quella che Italia 1 manderà in onda il 27 giugno. Folla più numerosa della sera precedente. Chi dice dodicimila, chi azzarda qualcosa di più. Il Mago Forest, Ilary Blasi e Cristina Chiabotto irrompono sul megapalco a passo di carica. Lui sfoggia una cravatta arancione, la «pupona» è in gonna nera lunga e ombelico al vento, la «miss-iena» ha sciolto i capelli sciolti e calza shorts bianchi che fanno sembrare le sue gambe due autostrade... «Ciao Trieste...!» E si ricomincia.
C’è da mettere subito a referto il forfait di Mary J. Blige, la regina del rhythm’n’blues annunciata ma trattenuta chissà dove. Tocca accontentarsi di Rihanna, nuova giovanissima star caraibica, che apre le danze con la ritmatissima «Sos» e codazzo di ballerini e ballerine. Lei ha vent’anni, il suo nome completo è Robyn Rihanna Fenty, arriva dalle Barbados con un caliente mix di ritmi caraibici e rhythm’n’blues. Due anni fa è stata scoperta dal produttore di Christina Aguilera e portata dritta dritta a New York. A Trieste - dove ieri pomeriggio ha partecipato anche alla diretta di «Trl» dal Molo Audace - è arrivata già da star. E i ragazzi delle prime file conoscono a memoria il suo brano.
Poi tocca agli Sugarfree («Solo lei mi dà»), ancora a Cesare Cremonini (prima «Le tue parole fanno male», poi «Ancora un po’»), finalmente agli Zeroassoluto. Il duo romano, formato da Matteo Maffucci e Thomas De Gasperi, ed esploso l’anno scorso con «Semplicemente», non molla la sanremese «Svegliarsi la mattina». Siamo a giugno, il Festival è dimenticato, ma la loro ballatina educata e romantica funziona ancora alla grande...
Dopo «Pago», quello di «Music Farm», che propone «Vorrei che tu fossi mia», parte la prima pausa. Già, perchè a volte, preso dall’entusiasmo per i cantanti, il pubblico dimentica che qui stiamo registrando un programma televisivo. Che ha le sue regole, i suoi tempi morti, le sue (a volte lunghe) pause. Appunto.
Qui, fra l’altro, in due sere di spettacolo si registrano tre puntate della rassegna (in tv il 20, il 27 giugno e il 4 luglio). La sera di giovedì sono andati avanti fin quasi alle due di notte, per registrare una parte del materiale per la terza di queste tre puntate triestine. Ieri sera, stessa cosa...
E può capitare anche, com’è successo ieri sera, che Ilary annunci i Darkness, che però il pubblico non vede e non sente, per il semplice motivo che sono stati registrati la sera precedente... L’escamotage viene usato soprattutto con gli stranieri: vengono una sera, registrano un paio di pezzi, e poi vengono usati su almeno due puntate. La cosiddetta ottimizzazione dell’ospite.
Ma torniamo a ieri sera. Dopo la prima pausa è il turno di Ligabue. Camicia rossa, grinta da vecchio rocker, il nostro indio padano infiamma la folla con «Happy hour». Poi, scendendo dalla scaletta del palco, inciampa e a momenti finisce per terra. Ma attorno a mezzanotte, per i motivi di cui si diceva prima, il Liga tornerà in scena altre due volte, prima con «Le donne lo sanno» e poi di nuovo con «Happy hour».<CF><CP> Il rocker di Correggio è così ricomparso in regione a tre settimane di distanza dal concertone del 23 maggio allo Stadio Friuli di Udine. E chissà che non torni a Trieste anche in autunno, nella parte teatrale di questo suo lungo tour.
Avanti, che tocca a Nate James, ai toscani Baustelle (una scelta di qualità, con la loro «La guerra è finita», fortemente voluta nel cast di quest’anno da Andrea Salvetti), di nuovo a Rihanna, che ricanta la stessa canzone, per un’altra puntata, non prima ovviamente di essersi cambiata d’abito...
Il pubblico, formato soprattutto da giovanissimi, non va tanto per il sottile. A loro interessa vedere da vicino i propri idoli, quelli dei video, quelli dei mille passaggi su Mtv o dei vari programmi musicali.
Trattandosi pur sempre della registrazione di un programma televisivo, si potrebbe discutere a lungo sull’opportunità di far pagare il pubblico. «Il gala di apertura a Napoli, in piazza del Plebiscito - spiega Andrea Salvetti, che ha raccolto il testimone della rassegna dal padre Vittorio, che alla scomparsa di quest’ultimo - possiamo farlo a ingresso gratuito per due motivi. Il primo: il contributo che riceviamo dagli enti pubblici è maggiore, rispetto a qui, dove comunque l’apporto della Regione Friuli Venezia Giulia è stato importantissimo. E poi c’è il fatto che, trattandosi del gala d’apertura della manifestazione, noi stessi come produzione abbiamo maggiori margini di investimento...».
Pare che una puntata del Festivalbar costi fra gli ottocentomila euro e il milione. Quattrini coperti dai diritti televisivi, dagli sponsor, dagli enti locali che ospitano la manifestazione e, appunto, dall’incasso della serata. Reso comunque meno ricco dall’alto numero di biglietti omaggio che vengono distribuiti per ogni serata. È certo infatti che, a fronte del contributo assicurato dalla Regione in denaro e dal Comune in servizi, entrambi gli enti abbiano potuto godere di un altissimo numero di tagliandi omaggio per le due serate triestine. E altrove dev’essere ovviamente la stessa cosa.
Soprattutto nella prima serata si sono registrate alcune proteste, da parte di chi aveva pagato il biglietto e si trovava circondato da gente che era entrata, per un motivo o per l’altro, gratis...
Ma qui stiamo divagando. Eravamo arrivati al bis di Rihanna. Dopo il quale, ieri sera, fra una pausa e l’altra, sono saliti sul megapalco di piazza dell’Unità l’italianissima Moony (vero nome Monica Bragato, veneziana, protagonista di diversi successi dance negli anni passati) con il brano «For your love» e ben due siciliani, uno dietro l’altro: il catanese Seba, che propone con la sua «Domenica d’estate» uno dei possibili tormentoni dell’estate, e poi il siracusano di nascita ma anche lui catanese d’adozione Mario Venuti. L’ex Denovo, che due anni fa ha fatto il botto a Sanremo con «Crudele», ma quest’anno ha avuto meno successo sullo stesso palco dell’Ariston con «Un altro posto nel mondo», a Trieste ha proposto «È stato un attimo», altro brano tratto dall’album «Magneti». Oggi pomeriggio sarà fra l’altro ospite di «Trl», nell’ultima diretta tivù su Mtv dal Molo Audace.
Dopo di lui, megapalco tutto per la pantera Skin. L’ex cantante degli Skunk Anansie, ormai approdata a una dignitosa carriera solista, ha cantato «Just let the sun». Giacca nera di paillettes, berretto mimetico militare, è una che regge la scena da grande professionista. Più tardi, come tanti altri, per i motivi già spiegati, anche lei farà un secondo giro...


 

venerdì 16 giugno 2006

di Carlo Muscatello
TRIESTE «Ciao muli, come xè...?» Ci pensa il Mago Forest, abito blu e cravatta rossa, a lanciare l’urlo di battaglia che dà il via alla grande festa musicale del Festivalbar. Sono da poco passate le ventuno di ieri sera. Diecimila persone in piazza dell’Unità. Striscioni, telefonini usati per fotografare, cori da stadio...
Tutto è pronto. La sigla di Ligabue è già partita. La zona dietro il megapalco, fra i Duchi, il municipio e gli Specchi, è blindata che sembra di stare a qualche G8. Il pubblico è caldo, nonostante la pessima idea di fargli cantare, prima prima delle ventuno, quell’ameno motivetto che fa «Com’è bello far l’amore da Trieste in giù...», col fantasma di Raffaella Carrà che si materializza come per incanto.
Una telecamera, la cosiddetta «skycam», corre su un cavo teso fra il palazzo della prefettura e la fontana sotto il municipio. Un’altra, gli addetti ai lavori la chiamano «Jimmy Jib», sta su un lungo braccio metallico che parte a lato del palco e sfiora le teste dei giovanissimi accalcati nelle prime file. E poi c’è la «steadycam», portata a spasso da un operatore, per seguire da vicino i cantanti.
Già, i cantanti. Perchè in tutto questo caravanserraglio che sta dietro il palco (addetti ai lavori, ragazzoni più o meno nerboruti della security, operatori, parrucchiere, truccatori, uffici stampa...), si rischia di dimenticare che i protagonisti sono loro.
Eccoli, allora, presentati dalla statuaria «iena» Cristina Chiabotto (in jeans, tacchi super, generoso décolleté...) e dalla «pupona» Ilary Blasi (in shorts biancorossi e camicia rossa in voile), che affiancano un Mago Forest che, anche quando tenta di star serio, non ci riesce. Figuriamoci quando, più tardi, si presenta in accappatoio bianco...
Partono gli inglesi Darkness, con quella «One way ticket» che ha fatto parlare qualcuno dei nuovi Queen (che è un po’ come quando, al debutto degli Oasis, alcuni parlarono dei nuovi Beatles...). In piazza fa caldo. Ma con i salentini Negramaro la temperatura si alza ulteriormente. «Nuvole e lenzuola» è l’ennesimo singolo di successo della band bocciata a Sanremo Giovani 2005, ma poi consacrata come rivelazione dell’anno proprio al Festivalbar scorso. Il cantante è scatenato, scende dal palco, si avvicina ai ragazzi stretti dietro le transenne. Urla «Trieste balla...!», mezzo incitamento e mezza constatazione. Sì, perchè sui lastroni della piazza, quelli nuovi, quelli appena rifatti, quelli che ciononostante ogni tanto si sollevano, il popolo del Festivalbar balla. E balla alla grande.
Ancora musica. Tocca a Omar Pedrini, che torna in campo dopo l’aneurisma aortico che due anni fa a momenti lo mandava all’altro mondo. Non a caso il suo nuovo album s’intitola «Pane burro e medicine». Non a caso il pezzo che presenta è «Shock», che si apre con un omaggio ad Albertone Sordi con la citazione della «Marcia di Esculapio», di Piero Piccioni, dal film «Il prof. dott. Guido Tersilli, primario della clinica Villa Celeste convenzionata con le mutue». Appunto...
Ogni tanto, fra un brano e l’altro, c’è una pausa. Serve a inserire la pubblicità, qualche inserto, qualche spot... Stiamo o non stiamo registrando un programma televisivo? L’unica differenza, rispetto ad altre analoghe situazioni, è che qui il pubblico è pagante. Pagante e contento, a giudicare dagli applausi, dai cori, dagli urletti...
Che premiano gli inglesi Feeling («Sewn», ai vertici delle classifiche), l’italianissimo Cesare Cremonini col fido Ballo, reduce dai tempi dei Lùnapop («Le tue parole fanno male»), ma soprattutto un altro inglese, il bel Duncan James, quello dei Blue, reduce dalla diretta di «Trl» nel pomeriggio su Mtv dal Molo Audace, che fa impazzire le giovanissime con «Sooner or later», dal nuovo album «Future past».
Arriva Gianna Nannini. Era in questa piazza anche vent’anni fa, quando il Festivalbar fece tappa a Trieste nell’anno delle uova alla Bertè e di Sabrina Salerno che entra in scena tutta ballonzolante (erano i tempi della dance all’italiana...) e scivola ingloriosamente proprio sulle uova spiaccicate sul palcoscenico. La toscanaccia vi torna sull’onda di un rinnovato successo, trainato dall’album «Grazie» e soprattutto dal singolo «Sei nell’anima». Un brano già entrato fra i suoi cavalli di battaglia, alla stessa stregua di «Fotoromanza» e «Bello e impossibile». Ieri sera ha presentato il nuovo singolo, intitolato semplicemente «Io». Intramontabile.
Dopo i Rio e dopo Skye (ex Morcheeba), scena tutta per Carmen Consoli, punta di diamante dell’attuale canzone rock al femminile italiana. Chitarra acustica a tracolla, lunga chioma sulle spalle, canta «Signor Tentenna», dal nuovo album «Eva contro Eva», che l’ha vista </CP></CF><CF><CP>riscoprire le sue radici culturali e musicali che affondano in terra di Sicilia.
Poi è tempo di hip hop all’italiana con Mondo Marcio e i Finley, e ancora Bisbal, Novastar, James kakande, Bennato e Britti... Oltre alla puntata che Italia 1 trasmetterà il 20 giugno (quella del 27 si registra stasera), c’è infatti da registrarne mezza del 4 luglio. A che ora è finita la nottata musicale di ieri? Boh... È la televisione, baby.

giovedì 15 giugno 2006

Il Festivalbar ritorna a Trieste dopo una lunga assenza. E la storia di un antico e a tratti problematico rapporto si arricchisce di un nuovo capitolo.
Sì, perchè il legame della città con la manifestazione inventata da Vittorio Salvetti, e ora condotta dal figlio Andrea, è antico e strettissimo.
Un rapporto che comincia subito, già alla prima edizione, quando nel 1964 ad Asiago un giovanissimo Pilade (all’anagrafe Lorenzo Pilat, all’epoca in forze al Clan di Celentano) si impone con la canzone «Ciao». I giornali dell’epoca rimarcano che il giovanotto triestino alla fine batte anche il favorito Bobby Solo (Roberto Satti, di origine istriana), vincitore del girone dei big. Anche se poi, nella storia della rassegna, l’emulo italiano di Elvis Presley venne a lungo ricordato come il primo vincitore.
Passano cinque anni. E nel ’69 Lucio Battisti realizza sulla costiera triestina, a Grignano, il filmato di «Acqua azzurra acqua chiara», brano con cui vinse l’edizione di quell’anno del Festivalbar e si piazzò per varie settimane ai primi posti delle classifiche di vendita. Una sorta di video ante litteram, che è stato riproposto molti anni dopo nella manifestazione, nell’ambito di una retrospettiva filmata sulle canzoni che hanno iscritto il proprio nome nell’albo d’oro della rassegna.
Anche per quel motivo, Salvetti senior era molto legato a Trieste, dove negli anni Sessanta aveva lavorato come organizzatore di spettacoli musicali (alla Caravella di Sistiana, per esempio) e di concorsi per esordienti. Negli anni Ottanta il suo Festivalbar è ormai adulto. Dopo essere riuscito a sopravvivere alla scomparsa dei jukebox, si lega al mondo delle radio, annusa i nuovi fenomeni musicali, lancia nuovi personaggi, italiani e stranieri. E lui prova e riprova a portare la rassegna sotto l’ombra di San Giusto.
Dopo vari tentativi andati a male, ci riesce nell’86, quando il Festivalbar fa tappa per la prima volta in piazza Unità. L’ingresso è libero, la piazza è piena, non tutti i presenti sono arrivati per ascoltare i cantanti... Ne fa le spese Loredana Bertè, oggetto di un lancio di uova. Poi entra Sabrina Salerno e fa un mezzo scivolone sulle uova spiaccicate sul palcoscenico...
Peccato. Quell’86 è l’anno di «Easy Lady» di Spagna e della vittoria di Tracy Spencer con «Run to me». Tanta dance, insomma, anche e soprattutto made in Italy. In una rassegna rilanciata dal successo, l’anno precedente, dei Righeira con «L’estate sta finendo».
All’inizio degli anni Novanta, la finale del Festivalbar viene sfrattata dall’ormai tradizionale cornice dell’Arena di Verona. Problemi di permessi, di monumenti da preservare, di soprintendenze alle belle arti... Salvetti trova la soluzione. Si chiama Villa Manin, a Passariano, in Friuli.
Nel ’95 tenta di tornare a Trieste. Non ci riesce. Problemi di rapporti col Comune, di soldi, di finanziamenti che non arrivano. In compenso il carrozzone fa spesso tappa all’Arena Alpe Adria di Lignano Sabbiadoro. Nel ’96 anche all’Arena di Pola. Fino al gran ritorno di quest’anno.

OGGI FESTIVALBAR TORNA A TRIESTE

di Carlo Muscatello
Volete sapere quale sarà la colonna sonora dell’estate che sta cominciando? Beh, allora dovete venire oggi e domani a Trieste, in piazza dell’Unità. Dove fa tappa il fantasmagorico carrozzone del Festivalbar, la rassegna nata nel 1964 da una felice intuizione di Vittorio Salvetti (premiare le canzoni più gettonate nei jukebox...), ma poi sopravvissut<USNUOGRA><IP9>a in un mondo dai costumi musicali diversissimi. E giunta ormai alla 43.a edizione, grazie negli ultimi anni all’impegno di Andrea Salvetti, figlio del patron nel frattempo scomparso.
A Trieste, stasera e domani sera, si registrerà il materiale che servirà ad allestire ben tre puntate del programma che Italia 1 proporrà fra giugno e luglio. Gli artisti? Ligabue, Gianna Nannini (con il nuovo singolo «Io»), Mary J. Blige («One»), il belga Novastar («Never back down»), i Darkness (considerati gli eredi dei Queen), Nate James, Carmen Consoli...
E ancora Zeroassoluto, Omar Pedrini (che torna in scena dopo i seri problemi di salute), Mario Venuti, James Kakande con «You, you, you», Rihanna con il singolo caraibico «S.o.s.», Cesare Cremonini, Neffa, Piero Pelù, L’Aura, Skye (ex Morcheeba), The Feeling, Duncan James (ex Blue), Sugarfree, Baustelle, Negramaro (premio rivelazione al Festivalbar 2005, dopo essere stati bocciati a Sanremo...), la nuova accoppiata della musica italiana formata da Edoardo Bennato e Alex Britti («Notte di mezza estate»), e ancora Mondo Marcio assieme ai Finley.
Tutti nomi conosciuti e apprezzati dai giovanissimi. Alcuni forse non sono ancora noti al grandissimo pubblico, ma essere stati scelti per il cast del Festivalbar (che ogni anno significa anche una doppia compilation, la «rossa» e la «blu», sempre ai vertici delle classifiche di vendita...) rappresenta una garanzia assoluta. Insomma, se non conoscete qualche nome, tranquilli. Ma sappiate che potrebbe nascondere il protagonista di qualche successo dell’estate 2006.
Presentano il Mago Forest, Cristina Chiabotto e Ilary Blasi<WC>. Che già nel gala di apertura napoletano, in piazza del Plebiscito, hanno dimostrato di funzionare egregiamente, mischiando freschezza e ironia, per le esigenze della manifestazione.
Le due serate cominceranno alle 20.30 e verranno trasmesse su Italia 1 martedì 20 e 27 giugno e il  luglio. Si canta dal vivo, in alcuni casi su basi musicali preregistrate. E si finisce a notte tarda. Tardissima. Insomma, per due sere Trieste può anche fare uno strappo alla regola. Un po’ com’è successo l’estate scorsa con l’Isle of Mtv, anche se il pubblico che arriverà sarà di certo meno numeroso. Ma la grande visibilità che ne deriverà per la città, forse, giustifica un piccolo sacrificio.


 

di Carlo Muscatello


TRIESTE Ventuno e quaranta di ieri sera. Luci sparate sui sette o forse ottomila dello Stadio Rocco, divisi fra le cosiddette poltronissime da cinquanta e rotti euro del prato e quelli che hanno speso poco meno per stare in tribuna. La voce fuori campo di Fiorello che imita Mike Bongiorno («l’imitazione alla quale sono più affezionato...», aveva detto) accompagna gli ultimi ritardatari che prendono posto.
Alcuni volti finiscono rilanciati sui due megaschermi che affiancano il grande palco. Ed è tutto un grugnito, un «gelatiii», un «prego accomodatevi»... Lei dev’essere un pezzo grosso, qui a Trieste: avvocato? imprenditore? Ecco i principi di Torlonia: aspettavamo solo voi. Ma lo sa che lei è sputata a Cameron Diaz...
Dieci minuti così, di amabile e godibile cazzeggio, alla maniera di Fiorello. Entra l’orchestra, con il triestino Claudio Pascoli al sax, ma soprattutto col maestro Cremonesi che il pubblico di «Stasera pago io» ricorda bene. Stop. Di nuovo occhio di bue in platea, c’è Ilary Blasi che arriva, anzi «Ailari, la presentatrice del Festivalbar». Battutina d’obbligo: quando il topo non c’è... Seconda battutaccia altrettanto d’obbligo: ai mondiali di Germania è pieno di prostitute, anche Gattuso ha dichiarato «Prenderemo le nostre precauzioni...».
Le note di «Balla balla ballerino» fanno da sigla. Fiorello finalmente appare, nerovestito, capelli corti e baffetti che sembra Jean Reno, o forse Jeremy Irons. Stavolta con la sua voce. «Buonasera amici di Trieste...!» L’atmosfera diventa come per incanto quella dei vecchi varietà, quelli del sabato sera in bianco e nero della Rai, quando c’era un solo canale. «Se canti questo allegro ritornello, con Fiorello...».
Giusto un lampo musicale, nell’immaginario collettivo di chi ha passato i quaranta e magari pure i cinquanta. Ma l’attualità spinge. Come perdere l’occasione di parlare dell’Italia, dei mondiali. «Ehi, ha segnato Kaka...». Il Brasile sta battendo la Croazia. Ma ieri sera, appena ventiquattr’ore fa, c’erano in campo gli azzurri.
«Abbiamo vinto con una squadra fortissima, il Ghana. Come si chiamava quel giocatore? Pimpong...?» E giù risate e battutacce, come da copione. E come da copione arriva la staffilata. «Certo che il calcio ci sta dando delle grandissime soddisfazioni. Abbiamo nove arbitri e cinquantaquattro giocatori indagati, anche l’arbitro della playstation... Pensate che Sky, per l’anno prossimo, ha comprato i diritti di ”Un giorno in pretura”...». Ancora risate, forse liberatorie, in uno stadio che abitualmente ospita sedicenti campioni della pedata. «Eppure da quando c’è lo scandalo del calcio nessuno parla più di Ricucci. Che fine ha fatto? Se lo sono scordati in galera?»
Fiore dice che lui ama il calcio che ride. Il calcio di Ronaldinho, che ha il corpo in posizione regolare ma i denti in fuorigioco. O quello di Cassano, che quando parla con Trapattoni chiamano un interprete di Al Jazeera per capire che si dicono... «Ma statene certi, se vince l’Italia tutto finisce in gloria, tana libera tutti. Abbiamo anche il ministro giusto: Masti...».
È lo spunto per passare dal calcio alla politica. «Siamo governati da una classe politica giovane. Via Ciampi che ha ottantasei anni e dentro Napolitano che ne ha solo ottantuno... Ma quel che dicono i politici per noi è oro. E vi dico la verità: a me Berlusconi già mi manca...».
Grande ex premier, che ha sdoganato la parola «coglioni». Che gira con la collana d’aglio da quando le massime cariche dello Stato sono occupate da comunisti, che anni fa fu fotografato dai giapponesi che poi hanno inventato Pokemon, che c’ha Bossi che ringhia: «Quello è Napolitano e pure comunista...».
Comunque tranquilli signori, ammonisce lo showman: mentre voi siete qui, qualcuno entra a rubare nelle vostre case. Non fate gli scongiuri, è statisticamente certo. Perchè con i delinquenti, e qui Fiorello si trasforma in Rosa Russo Jervolino, «bisogna fare la voce grossa...».
E poi il nuovo Papa, «con la sua proverbiale dolcezza tedesca». E l’Osservatore romano, che «è un signore con binocolo sul cupolone che ci dice cosa dobbiamo e cosa non dobbiamo fare...». E quel tale che si è inventato la balla secondo cui la vita comincia a quarant’anni, mentre invece, dopo quell’età, si sa che cominciano gli acciacchi e i guai...
Lo show visto ieri sera a Trieste, rodato ormai da un anno di repliche viste da 350 mila spettatori in giro per l’Italia, è un grande spettacolo di varietà concepito per i grandi spazi.
S’intitola «Volevo fare il ballerino» perchè lui, Fiorello, da ragazzo voleva effettivamente ballare sulle punte. Si sentiva, spiega, una sorta di Billy Elliot siciliano. Ma in Sicilia, diciamo così, fare il ballerino non è un mestiere molto indicato. «Già avevo questo cognome, in mezzo a compagni di scuola con nomi che vi potete immaginare. Ma lo scaldamuscoli rosa, beh, quello era un po’ troppo...».
«Ricordo ancora quando lo dissi a mio padre. Lui era in tinello che leggeva le Cronache dell’Etna. Gli dissi che volevo fare il ballerino, e lui rispose: ma non potevi fare gli scippi come tutti gli altri...». E lui, povera anima, si chiudeva a ballare nel bagno. E la madre, di rimando, a dirgli: vieni fuori di lì che diventi cieco...
Sulle note di «Singin’ in the rain» abbozza allora qualche passo di danza e confessa: «Da bambino io sono stato folgorato da Enzo Paolo Turchi, che voi l’avete visto all’Isola dei famosi, con Al Bano, ma che allora era tutta un’altra cosa... E poi, diciamolo: in Sicilia non pioveva mai...».
Tocca al duetto assai virtuale con Michael Bublè. Cantano assieme «Home», uno fa le strofe in inglese, l’altro quelle in italiano... Ma il finto collegamento diretto col Canada s’interrompe per svelare che ovviamente si trattava di un nastro registrato.
«Siamo schiavi della tecnologia - confessa Fiorello - ormai se non hai l’iPod non sei nessuno. Anche il carabiniere che ti ferma per strada ormai ti chiede iPod e patente...». A questa battuta una signora ride talmente tanto da meritare la riaccensione delle luci in platea e il rilancio del suo volto sui megaschermi.
In lontananza si sente il rombo di un motore. Il nostro non perde l’occasione per notare: «Però, che moto... Io non ho mai visto tante moto e tanti motorini come qui a Trieste...».
Si prosegue così, fino a mezzanotte passata, con il rito della partita in tivù la domenica che non può essere interrotto. Ingredienti: telecomando, pantaloncino largo, ciabatte, birra e patatine, rutto libero, caccole sotto il divano, e tua moglie che ha organizzato una visita a degli amici che non sai nemmeno chi sono. Fiore ci infila da par suo l’imitazione di Franco Califano in una canzone dei Tiromancino («e mescolai la vodka con l’acqua tonica...»), ma anche la proposta di un Premio Nobel per la pace all’Inter: «Non facciamo male a nessuno, siamo l’unica squadra onesta, forse perchè non siamo capaci nemmeno di fregare il prossimo...». E poi un Otello in cui si rivela che Jago è gay («ma Shakespeare lo sa...?»), e ancora l’omaggio a Lelio Luttazzi e ai grandi programmi della radio e della televisione di una volta.
A guardarlo lassù sul palco, a sentire le sue battute-verità, capisci forse qual è il segreto, la ragione del grande successo di Rosario Tindaro Fiorello, quarantasei anni, nato a Catania ma cresciuto ad Augusta, in provincia di Siracusa. Quello che ha cominciato in una piccola radio del suo paese e poi è diventato animatore nei villaggi turistici, prima di essere scoperto da Claudio Cecchetto e portato a Milano, a lavorare a Radio Dee Jay e poi in televisione. Quello che col «Karaoke» ha riportato la gente in piazza, quello che ha lanciato la moda del codino e poi, al culmine del successo, ha rischiato di smarrirsi per strada per colpa della droga.
«La cocaina - ha confessato una volta - che per me è stata una malattia. La cocaina è il diavolo, ti illude di non essere solo, ti convince di essere il più forte. Tanti la prendono, tantissimi. Nessuno lo sa, nessuno li scopre. Avevo milioni di spettatori, avevo tante donne, avevo tutto, quindi non ho alibi, sono più condannabile di altri. Qualcuno, sui giornali, mi fece passare quasi per un narcotrafficante. No, ero solo caduto in un tombino, forse nel momento del massimo benessere. Ma pochi sanno quanto è triste trovarsi da soli, dopo la serata, in una camera d'albergo, con due guardie alla porta. Ne sono uscito grazie a mio padre, non potevo tradirlo, uno che si batteva contro il traffico di droga, uno che ci aveva insegnato: "Ricordatevi che un uomo onesto cammina tutta la vita a testa alta..."».
Ecco allora il segreto, forse la ragione stessa del grande successo di questo eterno ragazzo che può camminare a testa alta come voleva suo padre. Tanti sanno cantare meglio di lui, imitare meglio di lui, presentare, ballare poi non ne parliamo proprio... Ma nessuno, oggi in Italia, sa fare tutte queste cose, e tante altre ancora, in un solo spettacolo, come ieri sera allo Stadio Rocco di Trieste, bene come le fa lui. Che sbaglio dopo sbaglio, ma anche risalita dopo risalita, è oggi il numero uno dello spettacolo leggero in Italia.

martedì 13 giugno 2006

TRIESTE La diretta su Mtv dal Molo Audace per l’appuntamento giovanissimo di «Trl» - che prosegue fino a sabato - è una godibile anteprima. Ma l’estate spettacolare triestina comincia a tutti gli effetti stasera alle 21, allo Stadio Rocco, con lo show di Fiorello «Volevo fare il ballerino» (ci sono ancora biglietti disponibili, in vendita alle casse a partire dalle 18.30).
Dopo il grande successo dell’estate scorsa, lo spettacolo è stato portato in tour teatrale anche quest’inverno, confermando dal vivo il momento d’oro dello showman siciliano, che da qualche tempo ha deciso di abbandonare la televisione per dedicarsi alla radio. Che ha rilanciato col suo «Viva Radio Due», per mesi un appuntamento fisso per tantissimi...
Fra l’altro il programma (da cui è stato anche tratto un cd, già ai vertici delle classifiche) ha chiuso pochi giorni fa con una piccola polemica in diretta. L'ultima puntata, in onda anche in tv su Raisat Extra, doveva essere una grande festa andando avanti a oltranza. L'interruzione improvvisa, chiesta per dare la linea alla pubblicità e al Gr2, ha mandato su tutte le furie Fiorello che ha lasciato da solo Marco Baldini per saluti e ringraziamenti finali. Cose che succedono...
Quello che vedremo stasera è uno show concepito per i grandi spazi, con una scenografia tecnologica che, grazie a particolari proiezioni video, cambia ogni volta dimensione e percezione visiva. Fiorello, accompagnato da un gruppo musicale, vi propone la sua miscela fra costume e attualità, con imitazioni (l’ex presidente Ciampi, il nuovo presidente Napolitano, Mike Bongiorno, Antonio Cassano, Andrea Camilleri, il re del pollo Amadori...) ed esibizioni canore, in un percorso assolutamente godibile.
In un anno di repliche ha fatto oltre 350 mila spettatori, ha appena terminato un ciclo di nove spettacoli al PalaLottomatica di Roma, vivendo anche dei momenti emozionanti come quello in cui Fiorello ha reso omaggio alla memoria di Pietro Garinei facendo cantare «Aggiungi un posto a tavola» agli ottomila spettatori.
La sua presenza a Trieste, nel cartellone estivo 2006, è fra l’altro quasi un debutto in città, visto che del quarantaseienne Rosario Tindaro Fiorello si ricorda solo una fugace apparizione tanti anni fa, in una discoteca vicino piazza Unità, prim’ancora del successo con il karaoke.
«Volevo fare il ballerino» è uno spettacolo molto legato all’attualità e all’improvvisazione. Oltre alle imitazioni storiche, promette un duetto virtuale con Michael Bublé e la proposta di un Nobel per la pace all’Inter in quanto è «la squadra meno offensiva del mondo...».
Con Bublé, Fiorello canta «Home»: lui le strofe in italiano, il crooner canadese quelle in inglese. «Quando è stato mio ospite a "Stasera pago io" abbiamo instaurato un rapporto magnifico - ha spiegato lo showman -. Ho offerto l'idea del duetto alle case discografiche e mi hanno risposto che era improponibile, così ho chiesto di parlare con lui direttamente. Ha accettato subito. Ma dal vivo devo stare attento perché questa chicca ci riesce grazie al sincrono di alcuni click digitali. In quei momenti non posso improvvisare granché...».
Quella di stasera potrebbe essere una delle ultime repliche prima della pausa che l’artista ha voluto prendersi in occasione dell’imminente nascita di sua figlia, prevista a luglio. L’idea è comunque quella di riprendere successivamente il tour e magari di fare un’ultima replica in diretta televisiva.
Anche questo spettacolo di Fiorello è frutto della collaudata regia di Giampiero Solari, che ha già firmato quella di «Stasera paghi te!» e di «Fiore, nessuno e centomila», mentre la direzione musicale è affidata all'inseparabile maestro Enrico Cremonesi. I testi sono stati scritti da Fiorello con Francesco Bozzi, Riccardo Cassini, Alberto Di Risio e Federico Taddia; le luci sono di Marcello Jazzetti, le scene di Betta Gabbioneta.

giovedì 8 giugno 2006

di Carlo Muscatello
TRIESTE Da ieri pomeriggio Trieste è per tutta la settimana sugli schermi giovani di Mtv, che torna dunque in città dopo il megaevento dell’estate scorsa. Giovedì e venerdì arriva la carovana del Festivalbar, che porterà le immagini triestine per tutto il mese di luglio su Italia 1. E poi i concerti, i set televisivi e cinematografici, i festival e le rassegne...


Ma in questa società dove conta (solo?) apparire, magari col botto, è dunque necessario il grande evento, per trasformare l’identità culturale di Trieste in un segno visibile anche all’esterno? Ci vuole qualcosa come un grande festival (letteratura, cinema, teatro, musica...), per tradurre l’anima culturale della città in volano capace di contribuire alla sua crescita economica e turistica? O è la città stessa, come ha scritto qualcuno, che deve cambiar marcia e farsi essa stessa evento?
Il dibattito avviato nei giorni scorsi sulle colonne del «Piccolo» si arricchisce ogni giorno di nuovi contributi e interventi. «Tutta la vita culturale della città - afferma lo scrittore <CF32>Giorgio Pressburger</CF>, nato a Budapest, triestino d’adozione -, che non è comunque da disprezzare, andrebbe aggiornata e resa costante, non legata soltanto ai grandi eventi. Eventi che ci possono essere, ma non bastano a fare il valore della città. La cultura va affidata a chi la fa. E Trieste meriterebbe che tutte le istituzioni culturali avessero più peso, venissero considerate come il perno della vita cittadina, e non solo come un contorno».
«La scelta della città - aggiunge Pressburger - è andata in questa direzione per tutto il Novecento, ma da tempo la cultura è relegata in secondo piano. Come se Trieste non fosse già stata un centro importante, una capitale. Il suo ruolo deve tornare a essere quello di tramite fra varie culture. Come nel ’46, nel dopoguerra, quando c’era un grande fervore culturale. O si riacquista la consapevolezza di questa sua importanza, oppure non c’è grand’evento che tenga...».
La pensa così anche <CF32>Chiara Omero</CF>, direttore artistico del festival Maremetraggio, che parte il 30 giugno. «Non credo serva un singolo grande evento, essendo già Trieste un brulicare di eventi che vivono di vita propria in una città fino a poco tempo fa addormentata. Ci sarebbe bisogno di maggior coesione, collaborazione, "centrifugazione" di buona parte di questi eventi per far cambiare marcia alla città».
«Trieste - aggiunge Chiara Omero - ha cinque festival cinematografici: se le istituzioni ci aiutassero, sarebbe già un buon passo avanti. Un unico grande evento farebbe morire tutti, e non so sinceramente con quale riscontro...».
Un parere analogo quello di <CF32>Gino D’Eliso</CF>. «Credo che la città - spiega il musicista - abbia a disposizione addirittura troppi stimoli, troppe possibilità, troppe memorie e potenzialità ancora inespresse. L'incombere onnipresente della storia, che si dovrebbe vivere come arricchimento morale e culturale, le tradizioni marinare, commerciali, cosmopolite e di tolleranza; la Trieste plurilingue, multiculturale, multietnica, pluriconfessionale, porta dei Balcani; e ancora la letteratura, la musica, il neoclassico, la psicanalisi, sino ad arrivare a Basaglia. Non si possono dimenticare la scienza, la ricerca...».
«Dovremmo evitare - conclude D’Eliso - sia di autoincensarci (quante belle cose abbiamo...), che di autocommiserarci (quante belle cose abbiamo ma nessuno le conosce, le promuove...). Non serve presentare Trieste come città dell’operetta, della scienza, della riforma psichiatrica, del neoclassico... Trieste non deve avere un target di riferimento preciso: abbiamo la fortuna di avere un vento che scuote, che agita, che mescola, che ingarbuglia un po' tutto. Questa dovrebbe essere la nostra forza, il nostro punto di riferimento. Non occorre copiare le iniziative di nessuno: siamo già noi "un evento" e basterebbe saper organizzare il tutto in maniera agile e interdisciplinare, senza umiltà ma senza supponenza...».
Sentiamo <CF32>Valerio Fiandra</CF>, operatore culturale. «Ogni idea, ogni evento, sia da inventare che da copiare, o da ripescare fra i tanti bruciati per insipienza o poca lungimiranza, ha senso solo se anticipato da piccoli ma concreti segnali di apertura e coraggio. Un’effettiva programmazione coordinata, a fini turistici e di attrattiva economica, per esempio. Una scelta di fondo fra settori e mercati maturi e l'innovazione ben temperata...».
«È necessaria - aggiunge Fiandra - un’opera di valorizzazione delle risorse selezionate per competenza, di accoglimento delle idee giovani e aggiornate tecnologicamente, di sprovincializzazione, di orgoglio, ma senza alcuna nostalgia, tranne quella del futuro... Bisogna avviare un dibattito provvisto di potenziale efficacia per produrre un'idea condivisa e concretizzabile di Trieste. Soltanto dopo, si potrà anche pensare a un ”evento”, o a un progetto su cui concentrare risorse...».
Il parere di <CF32>Guido Galetto</CF>, assessore alla cultura della Provincia nei cinque anni passati: «Piaccia o non piaccia, l’evento, la manifestazione di richiamo è il primo tassello da incastrare nel puzzle chiamato Trieste. In tal senso sono convinto che la Pescheria giocherà un ruolo fondamentale, diventando un polo artistico unico per collocazione ambientale. Perché un conto è muoversi dal Nord Italia per andare in un sito decentrato come Villa Manin, un'altra cosa è recarsi per un evento culturale nella nostra città. Ed è qui che devono partire le sinergie, creando eventi collaterali (magari concordati con le gallerie private locali), dando la possibilità al visitatore di usufruire gratuitamente dei nostri spazi museali e anche dei teatri».
«Sarebbe importante - dice ancora Galetto - che ognuno degli enti pubblici rinunciasse a un frammento di propria legittima visibilità, per condividere (soprattutto economicamente, con l’aiuto di sponsor da ricercare in maniera professionale) la partecipazione».
«Quello che qui non si riesce a cogliere e promuovere - sostiene <CF32>Rosella Pisciotta</CF>, del Teatro Miela - è il fatto di vivere in una città centrale tra nord e sud, est e ovest d'Europa: su questo bisognerebbe lavorare, creando un progetto che occupi lo spazio di una stagione e coinvolgendo tutte le realtà culturali, ciascuna nel suo campo e con il coordinamento delle istituzioni. Potrebbero essere degli appuntamenti scaglionati nella stagione (letteratura, musica, teatro, cinema, nuove tecnologie, comunicazione...) ma con un tema comune (centralità di Trieste, apertura dei confini). Allora sì che si potrebbe arrivare a un anno di manifestazioni, che creerebbero l'anima culturale della città. Oggi in realtà c'è una miriade di eventi tutti staccati tra loro e nessuno capace di crescere. Certamente è più facile pensare a un evento unico, metterci molti soldi, ma...».
«Alcuni eventi già ci sono - sostiene <CF32>Gabriele Centis</CF>, coordinatore della Casa della Musica - come del resto moltissime offerte di spettacolo e culturali di varia natura, livello e interesse. E ciò testimonia comunque un certo tenore culturale della città. Ma per dare unità all'anima culturale della città, penso alla creazione di un ufficio, realizzato con il contributo degli enti istituzionali, con una visione d'insieme, che crei una rete di connessione tra i vari soggetti e le iniziative».
«Forse per la musica manca ancora un vero festival - dice ancora Centis - con una forte riconoscibilità e identità. E certo servirebbe, con una programmazione pluriennale, un suo pubblico e quella credibilità che solo la continuità nel tempo può dare...».
L’ultima parola ad <CF32>Antonio Calenda</CF>, direttore dello Stabile del Friuli Venezia Giulia. «Mi sembrerebbe un alibi inutile inventare l’ennesimo festival, l’ennesima nuova iniziativa, pensando che basti ad assicurare alla città maggiore visibilità e crescita economica e turistica. Il lavoro che Trieste deve svolgere è molto più profondo, ma anche più semplice e naturale. Città e regione possiedono già fin troppi eventi e festival, che spesso vengono lasciati sopravvivere, privi di linfa, entusiasmo e vera convinzione».
«Trieste deve ”essere evento” nella sua ricchezza, nella sua complessità, dando espressione alle sue infinite potenzialità che sono già tutte esistenti e attendono solo di essere valorizzare. Servono lavoro, fantasia, collaborazione e sinergie. ”Fantasia al potere”, dunque: dev’essere questo il comandamento. E bando alle soluzioni parziali e transitorie che disperdono energie, concentrazione e risorse».
«Perchè la scarsezza delle risorse - conclude Calenda - non dev’essere un nuovo alibi. Le idee hanno grande valore economico: va dunque premiato chi sa inventare, chi ha il coraggio di rischiare. La città ha gli strumenti per esprimersi, per inventare il proprio futuro».

lunedì 5 giugno 2006

TRIESTE E LE IDEE


LA CULTURA CAMBI MARCIA


di Carlo Muscatello


E' necessario dunque un grande evento, per trasformare l’identità culturale di Trieste in un segno visibile anche all’esterno? Ci vuole dunque qualcosa come un grande festival (letteratura, cinema, teatro, musica: quasi non importa, pur che sia...), per tradurre l’anima culturale della città in volano capace di contribuire alla sua crescita economica e turistica? O è la città stessa, che deve cambiar marcia e farsi evento?
Interessante dibattito, quello innescato su queste colonne da Roberto Morelli. Che induce a qualche riflessione, in un settore troppo a lungo trascurato dagli amministratori locali. Con i risultati che sono sotto gli occhi di tutti. Dall'operetta in su o in giù, a seconda dei gusti e dei punti di vista.
Trieste non ha fama soltanto di città culturale. Chi vi giunge, da sempre, viene colpito da quell’«atmosfera mitteleuropea» di cui molti si riempiono la bocca e pochissimi il portafogli. Strade, piazze, palazzi, persino odori e sapori che rimandano a Vienna piuttosto che a Budapest piuttosto che a qualche altra città del Centro-Est europeo. Del quale, come annota Mauro Covacich nel suo ultimo libro, Trieste è in fondo «la città più meridionale».
Ebbene, cominciamo col dire che i tanti interventi compiuti negli ultimi anni sul tessuto urbanistico e architettonico cittadino rischiano di mettere a dura prova anche quest’anima, quest’atmosfera, questa ricchezza.
Non vogliamo entrare nel merito della presunta bellezza o bruttezza della nuova piazza Goldoni, di piazza Vittorio Veneto, dei mascheroni all’inizio del Viale, della nuova Adriaco, della superstrada che sta nascendo sulle Rive, della vecchia piscina buttata giù senza sapere che farne...
Il punto è che in tutto ciò manca un filo conduttore, un’idea forte e portante, un’attenzione al contesto architettonico preesistente. Col rischio di andare verso una «città patchwork», una città che, nello spazio di uno o due decenni, procedendo di questo passo, rischia di perdere quell’identità di cui si diceva prima.
Nella cultura il rischio della «città patchwork» è già presente. Anzi, giusto per mutuare antichi slogan, è vivo e lotta assieme a noi... Sì, perchè Trieste ha molte eccellenze non solo nella scienza, nella psichiatria, nelle banche e nelle assicurazioni, nella perduta gloria mitteleuropea, nell’essere laboratorio di fenomeni, sociali e politici, che qui si sono presentati e si presentano in anticipo.
La Trieste culturale vive di chiaroscuri, di bianchi e neri, di eccellenze e povertà. Fra le prime, pensiamo alla città di Magris e di Pressburger, di Pino Roveredo (insuperato esempio di riscatto attraverso la cultura) ma in qualche modo anche di Moni Ovadia e di Veit Heinichen, di Susanna Tamaro e dei «nuovi scrittori», dei tanti teatri e dei tantissimi spettatori che a teatro ci vanno. La Trieste dei festival cinematografici e dei tanti set che cinema e televisione allestiscono sempre più spesso qui da noi, quella della Casa della Musica (realtà ormai più nota e apprezzata all’estero che in città...), ma anche di quel fenomeno unico in Italia che sono i ricreatori comunali. Avremmo voluto dire anche la Trieste dell’operetta, ma le cronache di questi giorni non ce lo permettono.
A queste eccellenze fa da tristo contraltare la mancanza quasi assoluta, ormai da anni, di una politica culturale degna di questo nome, che sappia imporre all’agenda politica la cultura e lo spettacolo come priorità, come urgenza da coniugare con l’economia, con il lavoro, con la crescita civile e democratica di una società. La Roma di Veltroni insegna.
Sì, perchè lo stato assistenziale è finito da un pezzo. E non ritorna. Non ritornano i finanziamenti a pioggia, a fondo perduto, buoni per mantenere in vita carrozzoni slegati dalla realtà del 2006. Ma dove sta scritto che con la cultura, con lo spettacolo, si debbano perdere quattrini? Dove sta scritto che questi settori o godono dei finanziamenti di cui si diceva oppure agonizzano e prima o poi muoiono?
La verità è che bisogna creare un ponte tra cultura ed economia, che devono lavorare assieme, in sinergia. Trieste è luogo di confini, di contrasti, di diversità, di separazioni, di scontri, di ferite ancora difficili da rimarginare. Anime che non devono essere vissute come chiusura, ma come ponte, come dialogo, come incontro, comunicazione, progettazione di qualcosa che non c’è. Cultura, appunto.
In questo la città, con la sua storia e la sua configurazione importanti, deve porsi come ponte fra Mitteleuropa (ancora lei...) e Mediterraneo. Sapendo che il futuro può e deve passare anche attraverso la cultura. Ben venga dunque l’evento, il festival, la rassegna capace di attirare attenzione e danari. Ma l’anima culturale non può né dev’essere solo questo. Altrimenti diventa mera riproposizione di fenomeni sperimentati altrove.
Trieste è stata davvero grande quando ha accolto le diversità. E oggi merita più delle mostre di seconda mano, più dei carrozzoni tivù cui affidare la piazza più bella, più delle bancarelle e dei «sardon day» e delle frecce tricolori spacciati per cultura. In una parola: bisogna pensare in grande, bisogna volare finalmente alto. Perchè il tempo delle piccole rendite di posizione, anche nel campo della cultura e dello spettacolo, è finito da un pezzo. E non ritorna.

domenica 4 giugno 2006

A volte, per riconciliarsi con la musica, con la canzone, bisogna inciampare su un disco come questa «Antologia» (Alabianca) di Giovanna Marini. Un vero e compiuto e appassionante autoritratto della studiosa classica che fu proprio Pier Paolo Pasolini, un giorno di tanti anni fa, a convertire alla musica popolare. Lei che studiava musica classica si trovò allora protagonista di una stagione culturale e politica irripetibile, testimoniata su vinile dai leggendari Dischi del Sole. Tanti anni dopo, è toccato invece a Francesco De Gregori, con cui ha firmato il disco «Il fischio del vapore», il compito di rivelare a un pubblico più giovane e più vasto Giovanna Marini, la sua ricerca sulla tradizione orale ma anche l’originale vena creativa che di essa è discendente diretta. Ritornano entrambe in questa raccolta, che si apre con «I treni per Reggio Calabria» (titolo di un disco del ’75) e prosegue con pagine straordinarie come «Lamento per la morte di Pasolini», «A Zurigo uno mi dice», «La manifestazione in cui morì Zibecchi», «Correvano coi carri», «L’uomo che di notte si è svegliato»... Rigore artistico e passione civile si fondono per raccontare «un'Italia che ha perso la sua anima antropologica, cambia ma non si sa come, per chi e perché», come scrive Enrico De Angelis nella prefazione al disco. Un disco che «ci fa scoprire che il mondo non è solo quello che si vede in tv, che ce n’è un altro, di cui i mass media non parlano, quello che lei racconta con precisa memoria storica, con indignazione ma anche con arguzia, con quello stile che si usa per le favole. Ma favole non sono». L’album propone anche tre inediti: «Passerà», «Era domenica» e «Muto carme».



Sedicesimo album in carriera per il cantautore romano Mimmo Locasciulli. S’intitola «Sglobal» (Hobo Records), è stato realizzato fra Roma e New York, e brilla per alcune inaspettate contaminazioni e atmosfere jazzistiche. Dieci canzoni per denunciare i condizionamenti che ognuno di noi subisce nella vita quotidiana. Fra gli ospiti: Frankie Hi-Nrg (che ha scritto e cantato con Locasciulli la title-track), Alex Britti (chitarra in «Aiuto!») e Stefano Di Battista (sax in «Perso e trovato» e «Sglobal»).



Ancora Roma con il nuovo album dei Flaminio Maphia, intitolato «Videogame» (SonyBmg). Il duo formato da G-Max e Rude Mc punta su ironia e sarcasmo politicamente scorretto, disseminati su un tappeto musicale che propone soul, echi dance, melodia ma anche canzone popolare e dialettale. Insomma, l’hip hop che li ha fatti emergere sembra non bastare più. L’imperativo è quello di allargare lo spettro sonoro della proposta, senza dimenticare la lezione del loro riconosciuto maestro, Franco Califano. Ospite Max Pezzali, che canta con loro «La mia banda suona il rap» (anche su singolo).



Se la stagione più recente di Loredana Bertè non vi convince completamente, ma riconoscete nella cantante calabrese una delle migliori voci espresse dalla musica italiana negli ultimi tre decenni, beh, allora è uscito il disco che fa per voi. Si tratta di una raccolta doppia, intitolata senza troppa fantasia «Tutto Bertè - Sei bellissima!» (Warner). Dentro c’è tutto: da «Dedicato» a «E la luna bussò», da «Buongiorno anche a te» e «Una sera che piove». E ancora «Fotografando», «Amici non ne ho», «Jazz», «Per i tuoi occhi», ovviamente «Non sono una signora»... Grandissima Loredana.


Rischiare di morire e continuare a vivere. È successo a Omar Pedrini, ex cantante dei Timoria, colpito da un aneurisma cerebrale nel 2004. Ha riportato a casa la pellaccia, non può strapazzarsi troppo (niente concerti dal vivo, per esempio...), ma la musica è ancora la sua vita. Ecco allora questo«Pane burro e medicine» (Carosello), il disco con cui si riaffaccia nel mondo della discografia. L'album, che esce in contemporanea con i suoi 39 anni, è dedicato a Luigi Veronelli, «il mio maestro enogastronomico», cui è dedicata, in particolare, la ballata «Follia», ispirata «a persone meravigliosamente anarchiche come lui e Alda Merini». «Dimenticare Palermo» è invece dedicata al rocker Bertrand Cantact e all'attrice Anne Marie Trintignant: «Ho conosciuto personalmente Bertrand quando abbiamo collaborato: lo ricordo come un uomo anarchico, coerente e buono. Leggere che era diventato un assassino mi ha sconvolto...»
La seconda opera solista di Pedrini, dopo l'esordio nel 2004 con «Videomar», è intrisa delle emozioni vissute in questi due ultimi anni. Si muove con garbo sul filo dei ricordi. Fra i nove brani, soltanto tre rievocano esplicitamente la sua malattia. «Nel mio profondo» racconta il momento in cui ha scoperto di essere in pericolo di vita e la relativa serenità con cui ha affrontato il rischio. «Shock» è un ricordo in chiave ironica dei primi giorni della convalescenza, quando le macchine mantenevano artificialmente la sua pressione bassa e lui non poteva concedersi neppure la più innocente forma di eccitazione mentale. «Strana sera» descrive invece le sue riflessioni mentre lo preparavano per l'intervento: non un solo pensiero per se stesso, ma tutti rivolti ai suoi cari.
All'inizio, i medici avevano proibito a Omar di cantare, perchè sarebbe stato uno sforzo eccessivo per il suo cuore convalescente. Così lui, nel 2005, si è reinventato come autore televisivo, scrivendo alcuni programmi per la Rai. Ora il permesso di tornare a cantare, anche se limitato alla sala d'incisione...


Pink. Il recente album «I’m not dead» ha fatto scoprire al pubblico una nuova Pink. Sia esteticamente (basta con le chiome fucsia, le boccacce, gli eccessi...) che sostanzialmente: da diva trash a impegnata militante pacifista. Ora di Alecia Moore, ventisettenne di Philadelphia, arriva ancge questo dvd tratto dal tour del 2004: 72 spettacoli che hanno toccato 62 città e 23 paesi diversi. Fra i brani: «Just like a pill», «Family portrait», «Get the party started», «Lady marmalade»... Convince soprattutto il medley dedicato a Janis Joplin, con «Me and Bobby Mc Gee» e altri brani. Grinta da vendere.


Paolo Conte. «It's wonderful, it's wonderful...». Il ritornello di «Via con me» è un classico, utilizzato anche dal cinema. Un classico che ritorna a titolare questo cofanetto con tre cd e cinquanta canzoni del grande avvocato di Asti. C’è praticamente tutta la sua produzione dal ’74 all’82 (gli «Rca years», si direbbe se fossimo in America...). Ovvero il periodo basilare per la sua affermazione in prima persona dopo il fecondo periodo di autore negli anni Sessanta. Qualche chicca: «Onda su onda», «Wanda», «Una giornata al mare», «La topolino amaranto», «Alle prese con una verde milonga»... Insomma, tre ore e mezzo di grandissima canzone italiana.

sabato 3 giugno 2006

di Carlo Muscatello


TRIESTE Massimo Ranieri guarda il mare, davanti al Teatro Verdi dove sta lavorando da qualche giorno (martedì 6 giugno debutta con la regia lirica de «La Traviata»), e inevitabilmente torna con il pensiero a Napoli. «Sì, Trieste mi ricorda un po’ Napoli. Com’è che dicono? I triestini sono i napoletani del Nord... Sarà vero...? È un fatto che le città di mare si somigliano un po’ tutte. Porti spalancati sul mondo, pronti ad accogliere genti che arrivano da chissà dove. Culture, lingue, religioni, razze, usanze, costumi diversi... Cosa c’è di più bello...?»
Poi il pensiero va a Strehler, che Ranieri chiama ancora «il maestro». E dice: «Lui era fiero di essere triestino. Diceva sempre che esistono due sole grandi lingue: il veneto (e il triestino ne è parente stretto) e il napoletano, gli altri sono dialetti. Mi piacerebbe conoscere di più questa città, anche in suo onore. Invece ci vengo da tanti anni, sempre per lavoro, e quando sei in una città per lavoro finisce che non la conosci mai veramente. Stai in teatro, in albergo, al ristorante... Certo, riesci a ritagliarti qualche spazio, qualche pausa, ma sei troppo concentrato sul lavoro per poterti rilassare. E conoscere veramente una città».
Ancora Strehler: «Con lui ho lavorato la prima volta nel 1980, per ”L'anima buona di Sezuan”. Poi nel ’94 abbiamo fatto assieme anche ”L'isola degli schiavi”. Lui mi ha insegnato davvero tutto: la disciplina, il rigore, l’amore e l’abnegazione per questo mestiere...».
Già, questo mestiere. Il pensiero torna indietro negli anni. All’infanzia povera napoletana. «Quando ho cominciato a cantare avevo tredici anni. Era un modo per tirare a campare, come fanno tanti ragazzi a Napoli. E in più c’era che facevo qualcosa che mi piaceva... I miei genitori avevano vissuto in tempi di guerra, avevano fatto la fame. Vedere un figlio che si guadagnava da vivere cantando all’inizio sembrava loro una cosa impossibile, poi è diventata una grande soddisfazione. Nella vita si impara sempre, non ci si deve fermare mai. Proprio come il bambino che muove i primi passi, dice le prime parole, guarda alla madre e al padre cercando esempio e protezione...».
Gli chiedi quali sono stati gli incontri importanti della sua vita. Non ci pensa neanche su e spara: «Bolognini, che mi ha fatto fare ”Metello”; Patroni Griffi, con cui ho cominciato a fare teatro; e Strehler, il maestro...».
Gli fai notare che non c’è nessun nome legato alla sua anima musicale, che rimane forse quella più importante, o se non altro quella con cui è cominciato tutto. Ci pensa e risponde: «È vero. Perchè quella mi sembra una fiaba ormai lontana nel tempo. Certo, fu importante l’incontro con Enrico Polito, il mio primo produttore, quello che tanto per cominciare mi cambiò nome: Giovanni Calone faceva troppo vicoli napoletani, poteva al massimo vendere pizze, non certo diventare un cantante... Meglio Massimo Ranieri: a Napoli in quegli anni nessuno si chiamava Massimo, e Ranieri faceva tanto nobiltà, gente ricca e famosa...».
«Fu Polito che mi portò a Roma, a Milano. Mi ricordo un incontro con Ladislao Sugar, padre di quel Piero Sugar che poi sposò Caterina Caselli. Mi concesse un’audizione nel ’66, a Milano. Avevo quindici anni. Mi chiese: ”Ma lei cosa vuol fare nella vita...?” Mi ascoltò, e poi mi disse: ”Vedrà, vedrà che un giorno le chiederanno le sue canzoni...».
Seguì il primo contratto, il primo disco, il successo immediato... Un successo incredibile, per un ragazzo costretto a crescere in fretta, autodidatta in tutto. «Fra il ’69 e il ’75 avevo fatto tutto. Canzone e cinema. Ero senza più stimoli. E i tempi stavano cambiando. Mentre Morandi, mio amico e rivale di tante gare canore, si metteva a studiare contrabbasso al conservatorio, io incontrai Patroni Griffi: ”Io ti faccio fare teatro...”. Me l’avesse detto qualche anno prima, gli avrei risposto: ”Ho da fare...”. Mi beccò invece nel momento giusto. E mi trovai a teatro, dove i primi tempi furono duri. Ero considerato il cantantino, il divetto, certe volte ci scapparono pure delle litigate...».
Saltiamo trent’anni. E siamo al 2003. Alla sua prima regia lirica. «Mi offrirono di fare ”Cavalleria rusticana” e ”Pagliacci” a Macerata. E mi ci sono buttato. Ho deciso di ricominciare, un’altra volta. In fondo, è quello che ho sempre desiderato. Del resto a teatro o ti butti o non combini nulla. È un’altra lezione di Strehler...».
O il suo senso tutto napoletano e tutto meridionale di arrangiarsi, di imparare facendo, di rubare con gli occhi e le orecchie la lezione di chi è più bravo di te... «Sì, certo, è anche questo. Il bisogno aguzza l’ingegno. Imparare improvvisando è più bello, e noi del sud siamo degli specialisti in materia. Siamo sempre stati schiacciati, oppressi, dimenticati, e allora è chiaro che ti tocca inventarti la vita. Senza scuola, senza studio, anzi, meglio: studiando dopo, cercando le conferme teoriche delle soluzioni che tu ti sei inventato con la fantasia, con il gusto per l’improvvisazione. E comunque studiare dopo, andare a ritroso è più faticoso. Anche se forse non mi sarebbe piaciuto ”fare le cose regolari”, studiare a tavolino e poi metter in pratica. Molto meglio così...».
Chiacchieriamo da mezz’ora e non abbiamo ancora parlato di questa sua «Traviata»... «È vero. E allora dico subito che la mia non è una ”Traviata” stravolta, io rispetto il libretto, rispetto il grande genio di Verdi. Piuttosto ho tentato di mettere in risalto una cosa a mio avviso fondamentale: la protagonista è una ragazzina di sedici anni che muore di tubercolosi a ventitre... È poco più di una bambina che si prostituisce, che non ha mai conosciuto l’amore di nessuno, né genitori né tantomeno uomini, e che quando scopre l’amore glielo sottraggono...».
«Ecco, io ne ho viste tante, di ”Traviate”, ma secondo me nessuno ha mai messo adeguatamente in rilievo questo dramma che la ragazza si porta dentro. È quello che ho tentato di fare. Per il resto, musicalmente è una ”Traviata” ortodossa, il mio è stato un lavoro drammaturgico sul testo. Insomma, non è una ”Traviata” pop...».
Cos’è, non le piacciono le contaminazioni? «Nella musica sì. E infatti sto facendo un altro disco di canzo<USnuogra>ni napoletane, della serie con Mauro Pagani, nel quale contaminiamo che è una bellezza... Ma a teatro no, io sono per il teatro classico, mi piace lavorare sul testo. Non credo che ”La Traviata” abbia bisogno di contaminazioni, anche se ovviamente rispetto Lucio Dalla e gli altri che mischiano linguaggi anche a teatro...».
Poi Massimo Ranieri divaga di nuovo. Parla di televisione («Quando mi chiamano, ci vado. Ma quella attuale non mi piace, è lo specchio di questa società che non va bene...»), del nuovo Presidente della Repubblica («Napolitano è una grande figura. Ed è il terzo napoletano, dopo De Nicola e Leone, al Quirinale...»), di politica («Troppo gridata, proprio come la tivù. Non c’è più dialogo, non c’è educazione...»), della sua Napoli («Ci torno spesso. C’è una gran voglia di vivere e di rinascere...»).
E di Gianna Nannini: «Anni fa mi è successa una cosa incredibile. Ero in un negozio, a Milano, e lei mi si para davanti, dicendomi: ”Massimo, come stai... ma non mi riconosci...”. Io le dico che sì, la conosco, che è Gianna Nannini. E lei invece mi dice ”no, bischero...”, e mi ricorda un episodio del ’69, quando lei aveva quattordici anni, alla Bussola di Viareggio, dove io cantavo per una settimana. E dove ogni pomeriggio, alla fine delle prove, arrivava questa ragazzina con la vespa e si offriva di accompagnarmi fino all’albergo. Così, per quattro o cinque giorni. Contenta solo di darmi un passaggio. Poi non l’avevo più vista. Fino a quel giorno a Milano, quando mi fece tornare in mente quell’episodio sepolto nella mia memoria. È stata un’emozione incredibile, mi viene la pelle d’oca ancora ricordarlo...».