venerdì 19 dicembre 2003

GLENN MILLER ORCHESTRA

Musiche e canzoni sopravvivono sempre ai loro autori. Anche perchè l’immortalità, si sa, è prerogativa dell’arte. Ma ad alcune musiche di Glenn Miller, il maggiore dell’esercito americano morto nel dicembre del ’44 mentre stava sorvolando la Manica a bordo del suo aereo, diretto a Parigi, dove era in programma un concerto con la sua orchestra, è stato riservato un destino particolare: sono ancora, a distanza di quasi sessant’anni, l’ideale colonna sonora della voglia di vivere, di ricominciare, di ricostruire. Trasmettono allegria, buon umore, voglia di... battere il tempo.
È il caso ovviamente di «Moonlight Serenade», il brano che ha aperto, ieri sera al Teatro Verdi, il concerto che la Glenn Miller Orchestra europea, diretta dall’olandese Wil Salden, ha tenuto a favore del Fai, il Fondo per l’Ambiente italiano.
Quest’orchestra, con i suoi concerti in giro per il mondo, ha una parte importante nell’attualità del repertorio milleriano. Si presentano in scena alla stessa maniera dell’orchestra originale, quella fondata da Glenn Miller nel 1937, la famosissima Army Air Force Band. Cinque sassofoni in prima fila, quattro tromboni nella fila centrale, quattro trombe nella terza fila. E sulla parte sinistra del palcoscenico, il pianoforte del direttore d’orchestra, la batteria, il contrabbasso. Con loro sul palco, tutto sembra cristallizzato nel tempo, uguale a sessant’anni fa: la musica, ma anche gli stand, i microfoni, i vestiti dei musicisti...
La storia racconta che Miller era stato arruolato proprio con il compito di creare una big band per sollevare il morale delle truppe. In patria era al culmine della popolarità e, sotto le armi, divenne il motore musicale degli Alleati in Europa. Creando un suono unico, assolutamente riconoscibile, che secondo una piccola leggenda venne fuori per caso: durante un’esibizione il primo trombettista si ferì al labbro, e il clarinetto dovette sostituire la parte del trombone, creando quel sound poi passato alla storia come quello di Glenn Miller.
Wil Salden, nono direttore a occupare (dal ’90) il podio che fu del fondatore, si muove nel solco della tradizione. E va sul sicuro. Dopo «Moonlight Serenade» infila altri classici del maestro: da «A string of pearls» a «Little brown jug», da «I know why» (con l’entrata in scena della cantante, Mariske Hekkenberg) a «Carribean Clipper». Nel programma sono inseriti anche brani italiani che facevano parte del repertorio di Glenn Miller, come «The woodpecker song» (da noi nota come «Campagnola bella») e «Ciribiribin».
Ma il concerto presentato ieri sera a Trieste s’intitolava «Swinging Christmas». E infatti non sono mancati brani natalizi eseguiti in stile swing: dall’immancabile «Jingle bells» a «Santa Claus is coming to town» (con tanto di cappellini natalizi e il sassofonista-cantante travestito ovviamente da Babbo Natale...), da «A Christmas love song» a «Have yourself a merry little Christamas»...
Citazione d’obbligo anche per «Dinah» (in apertura di secondo tempo), «Sing sing sing» (con un entusiasmante solo di batteria), «Chattanooga choo choo» e - fra i bis - l’immancabile «In the mood». A Trieste, teatro tutto esaurito, pubblico elegante e atmosfera natalizia. In quello che ad alcuni - visto il clima a stelle e strisce - è sembrato un piccolo anticipo dei festeggiamenti per i cinquant’anni del ritorno di Trieste all’Italia.

lunedì 15 dicembre 2003

ELISA AL ROSSETTI

«Questa canzone è per voi», dice verso la fine del primo tempo. Dalla platea arriva un perentorio «Sei meravigliosa...». E lei si stringe nelle spalle, sorride quasi intimidita, prima di attaccare una versione di «Luce (Tramonti a Nord Est)» da antologia. È solo uno degli episodi del concerto che Elisa - per il terzo anno consecutivo a Trieste prima di Natale - ha tenuto ieri sera in un Politeama Rossetti tutto esaurito.
La ragazza che a undici anni aveva scritto su un biglietto «Io farò sognare il mondo con la mia musica» sta seduta al centro del palco. Attorno a lei stanno seduti anche i musicisti (tre su quattro della zona, fanno parte del «nucleo storico») e le coriste del gruppo, in una sorta di semicerchio. Quando attacca con «Hallelujah», di Leonard Cohen, la stessa canzone che apre il nuovo album «Lotus», sul palco ci sono anche i quaranta ragazzi del Coro di Torviscosa, seduti per terra su due file.
Al nuovo disco è in gran parte dedicato questo tour partito il primo dicembre da Udine, e che andrà avanti fino a febbraio nei teatri di mezza Italia. Da lì arrivano infatti subito dopo anche «Broken», «Rock your soul», «The marriage» (Elisa passa dalla chitarra ai bonghi), la «Femme fatale» presa a prestito da Lou Reed, anzi, dai Velvet Underground, «Yashal» (ora lei è al pianoforte, accompagnata solo dalle quattro coriste), «Stranger»... Le immagini proiettate sul grande schermo parlano di natura, di pace almeno interiore, di tranquillità, di equilibrio: fiori, alberi, mare, montagne... Le luci, i rumori della natura che a volte sbucano fra un accordo e l’altro fanno il resto. Strumenti quasi tutti acustici, giusto un organo Hammond e un basso semiacustico.
La ventiseienne cantante nata a Monfalcone (compie gli anni venerdì: auguri...!) e che ha scelto di continuare a vivere qui, a Papariano di Fiumicello, in una casa in campagna completa di studio di registrazione, a due passi dall’Isonzo, ha spiegato com’è nato questo disco. Dopo tre album, la casa discografica voleva un «greatest hits». A lei è sembrato troppo presto e ha detto no. Allora si è accorta che le sue nuove canzoni erano alcune intime e delicate, altre dure ed energiche. Ha deciso di non mescolarle come si fa di solito, ma di dedicare un disco a ogni «anima».
Il primo disco lo ha intitolato col nome di un fiore, il loto, che nella tradizione induista è la bocca del grembo dell’universo, il fiore sacro dell’illuminazione. E infatti la «posizione del loto» è usata dai buddisti per la meditazione. Il resto lo hanno fatto le immagini, le foto dei fiori e della natura che l’artista ha scattato, raccolto, selezionato e poi utilizzato in questo spettacolo.
Spettacolo che con tali premesse rischiava di tramutarsi in un soporifero polpettone new age, e che invece - come si è subito capito ieri sera - ha trovato la linfa giusta nelle «buone letture musicali», oltre che nella grandissima voce, di Elisa Toffoli, genietto cresciuto a un tiro di schioppo da qui e scampato a un futuro da parrucchiera nel salone della mamma. Fra le righe si colgono infatti sapori gospel, atmosfere intimiste stile West Coast anni Sessanta e Settanta, persino un certo spirito hippy che la ragazza deve aver fatto proprio a furia di ascoltare i (buoni) dischi con cui è cresciuta.
Il secondo tempo si chiude, dopo «Luce (Tramonti a Nord Est)», vincitrice a Sanremo 2001, con «Interlude» e «A prayer», che grazie anche al ritorno in campo dei ragazzini di Torviscosa si trasforma in un coro gospel. Alla ripresa Elisa infila «Gift», l’omaggio a Bob Marley con «Redemption song» (pare che non sia entrato nel cd solo perché, dopo 78 minuti, non c’era più spazio), «Electricity», «Sleeping in your hand» riveduta e corretta come appare nel nuovo disco. È già tempo di bis. Non può mancare «Almeno tu nell’universo», il capolavoro scritto da Bruno Lauzi e Maurizio Fabrizio, con cui l’indimenticata Mia Martini partecipò al Sanremo dell’89, e ripresa l’anno scorso da Elisa per la colonna sonora del film «Ricordati di me». Ma anche «Rainbow» e una «Labyrinth» che permette alla ragazza, rimasta seduta tutta la sera, di scatenarsi.
A Trieste, meritato trionfo di pubblico. E non solo perchè giocava quasi in casa.

sabato 13 dicembre 2003

GIORGIA AL PALATRIESTE

Soltanto una bella voce? Ieri, forse. Oggi no. Oggi lei è uno «spirito libero». Anzi, una «ladra di vento» che regala sentimenti, sogni, emozioni. Lei è ovviamente Giorgia, il cui tour ha fatto tappa ieri sera in un PalaTrieste affollato da circa duemila persone che hanno a lungo festeggiato la trentaduenne cantante romana.
Apre nientemeno che in duetto con Ray Charles, ma è solo registrato, ci pensa la parete di schermi sistemati a scacchiera a rilanciarlo. Poi lei arriva sul serio, minigonna a scacchi, golfino rosso, un curioso cappelluccio calato sugli occhi (nel corso della serata proporrà anche mise più eleganti). Per scaldare l’atmosfera piazza «Vivi davvero», «Senza ali», e poi dal nuovo album «Vetro sul cuore» e «Vento nel deserto»...
Poi canterà anche «Strano il mio destino». E il destino di Giorgia Todrani sembrava dovesse essere quello della ragazza della porta accanto, della bella voce, della brava, anzi, bravissima interprete che non chiede altro di occupare un posto al sole nella consolidata tradizione del belcanto melodico (magari moderno) all’italiana. Una piccola Mina, insomma, sempre alla ricerca di un repertorio in grado di valorizzarne le indubbie doti vocali.
E così in effetti è stato, ma solo fino a un certo punto. Poi è successo qualcosa, a livello musicale ma probabilmente anche umano. Qualcosa che probabilmente ha a che fare con la tragica scomparsa di Alex Baroni, suo ex compagno. E con la chiamata del regista Ferzan Ozpetek, con quella «Gocce di memoria» che lei ha scritto per il film «La finestra di fronte». Quel brano, ammette l’artista, «ha influenzato il mio modo di scrivere da quel momento in poi».
Ed eccola, la nuova Giorgia. Questo suo «Ladra di vento tour», partito da Foligno venti giorni fa, che si dovrebbe concludere la prossima settimana a Milano, rappresenta - assieme al disco da cui prende il nome - il segno di un’avvenuta mutazione, personale e artistica. Evasa dal teatrino sanremese e scampata dalle grinfie baudesche, oggi appare dotata di una nuova maturità e consapevolezza, di fiducia in se stessa, non ha paura di dire quel che pensa. Ed è interprete ma anche autrice delle canzoni di «Ladra di vento», su cui si basa gran parte dello spettacolo.
Spettacolo all’altezza delle nuove ambizioni. Palco su tre livelli, scalinata centrale, gli schermi di cui si diceva. E una band di livello internazionale: Sonny T al basso e Mike Scott alle chitarre, già con Prince (e del genietto di Minneapolis la band a un certo punto proporrà «Kiss»), Michael Baker alla batteria, già con Whitney Houston, Michael Bellar alle tastiere. E poi due coriste anche una coppia di ballerini, la cui presenza - contrariamente a quel che si potrebbe pensare - diventa accettabile completamento allo show.
Nelle due ore di musica, Giorgia spazia con eleganza e gusto fra le ballate sentimentali che rappresentano la sua cifra stilistica e sgroppate funk, episodi «quasi rock» e tentazioni jazz e persino momenti dance, senza dimenticare ovviamente il suo grande amore, quasi la sua naturale predisposizione nei confronti del soul, del rhythm’n’blues, della musica nera. Una moltitudine di stili nella quale lei si muove rilassata e assolutamente a suo agio.
Dopo il groviglio elettropop della citata «Vento nel deserto», con i ballerini avvolti nelle bandiere della pace, è il turno della classicissima «E poi» (Sanremo ’94), de «La gatta (sul tetto)», di «Viaggio della mente». Il tempo per cambiare la disposizione degli strumenti sul palco le serve a scambiare due chiacchiere col pubblico, a firmare qualche autografo, a farsi regalare da una ragazza delle prime file un piccolo striscione con una scritta a lei dedicata...
Set acustico. «Come saprei», «Strano il mio destino», l’omaggio a Bob Marley con «Turn your lights down low»... E ancora «Girasole», «L’eternità» giocata in bianco e nero, alla maniera di un Pierrot, «Di sole e d’azzurro». Il finale, prima dei bis e dei ringraziamenti di rito, è dedicato a «Gocce di memoria» (con le foto di Giorgia bambina sugli schermi) e «Spirito libero». Ovvero il manifesto programmatico della nuova Giorgia.

martedì 9 dicembre 2003

BAGLIONI AL PALATRIESTE

Baglioni arriva dalla platea, nerovestito e scortato da quattro nerboruti bodyguard. Sono le 21.14 di ieri sera. Il primo di una lunga serie di boati parte quando attacca da solo «Yesterday» dei Beatles. Musica classica del Novecento, che gli serve per ricordare i tempi degli esordi in cantina, più o meno trentacinque anni fa. E il palco sembra una cantina, nella prima delle trasformazioni del nuovo spettacolo intitolato «Crescendo», visto ieri sera al PalaTrieste da quattromila persone.
Dopo il megashow dell’estate, aveva promesso una dimensione «più raccolta, essenziale, intima». Ma trattandosi di Claudio Baglioni, si sa che una certa qual grandeur è ormai connaturata all’uomo. Il cinquantaduenne artista romano ha dunque sì messo da parte l’orchestra con 33 elementi, la compagnia di 34 ballerini e circa 300 figuranti e giocolieri del precedente tour (immortalati in un dvd appena uscito), ma non per questo ha deciso di presentarsi con uno show alla buona.
No, lui vola sempre e comunque più in alto. Lo show propone infatti un palcoscenico-casa (la casa della sua storia) su quattro livelli, che corrispondono ad altrettante fasi. Dimostrando una predisposizione naturale per l’architettura (si laurea a primavera, dopo aver ripreso gli studi interrotti trent’anni fa, e comunque da qualche parte serba un diploma da geometra), per raccontare in tre ore trentacinque anni di carriera ha immaginato gli spartani esordi in una cantina, poi il primo trasloco in un comodo appartamento, il secondo in una terrazza-tetto e infine l’«ascesa in cielo», o giù di lì, con i cavalli di battaglia, i classici più attesi, senza i quali un concerto di Baglioni non è tale.
A ogni livello scende dall’alto un palco: struttura semplice ma complessa, e infatti i vari banchi di regia sembrano una centrale della Nasa. Il conto lo paga la qualità dei suoni, a tratti zoppicante. In un gran via vai di «addetti ai traslochi», tanti oggetti caratterizzano le varie fasi: un vecchio registratore che diventa proiettore, un baule da cui poi escono le bolle, un telescopio che diventa faro per illuminare il pubblico, e ancora il tavolo, la cucina, la scala, il camino... Le canzoni delle varie fasi non sono coetanee dei diversi momenti storici: l’assemblaggio è tematico, avvicinando anche brani di anni lontani.
Ecco allora che dopo «Yesterday», mette in fila «Noi no» e «Dagli il via», «Quanto ti voglio» e «Fotografie» (entra il quintetto d’archi, per quattro quinti femminile), «Ragazze dell’Est», «Bolero», «Tienimi con te». Ma anche, quasi a voler indicare un passaggio verso un futuro migliore e allora solo sognato, quella «Di là dal ponte» che sta nell’ultimo disco «Sono io, l’uomo della storia accanto».
Scende un altro palco. E siamo nella fase «comoda» dell’appartamento. Tratteggiata da «Notte di note» e «Quante volte», «Serenata in sol» (ancora dal nuovo disco, impietosamente definita «una delle canzoni più terrificanti che abbia mai scritto...») e «Mai più come te», «Domani mai», «E adesso la pubblicità», «Un giorno nuovo»...
È tempo di salire sul tetto, in una terrazza che è una citazione beatlesiana (l’ultimo concerto dei Fab Four, 30 gennaio ’69, mezzogiorno, sul tetto degli Apple Studios...). Da lassù, guardando il mondo, arrivano «Acqua dalla luna», «Avrai», «Ninna nanna nanna ninna», «Tutto in un abbraccio», «Grand’uomo» («un figlio ama sempre un padre ma lo fa mentre lo giudica e quasi mai perdona, finchè gli scopre il segno di una lacrima e per la prima volta vede una persona...»), il coro collettivo di «E tu». La fine della crescita, il rapporto fra padre e figlio, la speranza nel domani.
Rimane il tempo per le stelle. Ovvero un piccolo concerto nel concerto, col canzoniere baglionesco che non può mancare quando canta il commendator Baglioni (lo ha nominato Ciampi, un mese fa): «Amore bello», «Strada facendo», ovviamente «Questo piccolo grande amore», «Cuore di aliante», il medley con «Poster», «Solo», «E tu come stai», «Io me ne andrei»... C’è spazio anche per quella «Io sono qui» durante la quale, due settimane fa a Treviglio, vicino Bergamo, confuso fra tutte queste pedane sali e scendi, ha messo un piede nel vuoto, è caduto e ha incassato quindici punti di sutura alla gamba e una settimana di stop.
A Trieste, una delle poche città del tour dove non è stato necessario il raddoppio della serata, meritato trionfo di pubblico. Chiusura a mezzanotte e mezzo. Forse il miglior Baglioni di sempre.

venerdì 5 dicembre 2003

FRANK ZAPPA MORIVA 10 ANNI FA

Oggi sembra normale mischiare rock, pop, jazz, musica classica e contemporanea e colta e chi più ne ha più ne mischi. Ma quando lo faceva Frank Zappa - morto dieci anni fa, il 4 dicembre del ’93, ucciso a cinquantatre anni da un cancro alla prostata - normale non lo era per nulla. Lui, il figlio di emigranti italiani (che, non lo sapevate? eravamo emigranti pure noi...) e greci, diventato grande virtuoso della chitarre e genio della composizione, non rendeva certo la cosa più commestibile aggiungendo, in tempi seriosi assai, anche nel campo del rock, dosi massicce di ironia e dissacrante sarcasmo.
Nato a Baltimora, nel Maryland, il 21 dicembre del 1940, da padre siciliano e madre greca, si narra che Francis Vincent Zappa ebbe un’autentica folgorazione quando, a tredici anni, ascoltò un album di Edgar Varèse. Giovanissimo, tentò allora di emulare i procedimenti compositivi «aleatori» del suo maestro con una penna a sfera e un foglio di carta da musica. Per i suoi quindici anni chiese alla madre come regalo i cinque dollari necessari per una telefonata interurbana allo stesso Varèse. Ma il maestro non era in casa...
La sua avventura musicale è comunque già cominciata, visto che da tempo il ragazzo, in casa, si esercita alle percussioni. Comincia a suonare batteria e chitarra quando frequenta la Antelope Valley High School, dove nel ’56 forma la sua prima band, The Blackouts, con Don Van Vliet (poi più noto come Captain Beefheart). Nel ’64 forma le Muthers, che poi diventano Mothers, e successivamente - nel ’66, alla firma del primo contratto discografico - The Mothers of Invention, che pare originato dalla citazione «la necessità è la madre dell’invenzione». «Freak Out» è il titolo del disco d’esordio: vero e proprio manifesto della sua creatività musicale, nonchè primo di una serie lunghissima di album.
Una discografia sterminata (un centinaio di album fra il ’66 e gli ultimi anni di vita), eredità di una personalità vulcanica e unica nel mondo del rock ma forse anche della cultura del Novecento. Una discografia che, come la sua carriera, può essere divisa in tre fasi. La prima, quella con le «Mothers», legata alla cultura alternativa della West Coast degli anni Sessanta: in bilico fra rock e aperture al jazz, caratterizzata da continui sberleffi e provocazioni contro l’establishment musicale e non solo musicale, si conclude nei primi anni Settanta con il leggendario concerto assieme all’Orchestra Filarmonica di Los Angeles diretta da Zubin Mehta.
Nella seconda fase, durata tutti gli anni Settanta, Zappa - che nel frattempo era diventato un’icona della cultura alternativa - sviluppa il discorso avviato con le «Mothers», proseguendo nella ricerca di tutti i possibili punti di contatto tra i vari generi musicali. Gli anni Ottanta sono quelli del primo, parziale ritiro dalle scene: anni in parte dedicati alla ricerca, alla composizione di lavori e opere lontane dalla tradizione del rock. Si pensi soltanto alle musiche eseguite sotto la direzione di Pierre Boulez. Non a caso la sua ultima apparizione in pubblico, nel ’91, fu quando diresse, già provato dalla malattia, un concerto dell’ensemble classico Yellow Shark.
Disse una volta: «Le prime canzoni che abbia mai ascoltato erano musica araba, non ho idea dove e come sia accaduto, perchè i miei genitori hanno comprato il primo giradischi quando avevo quindici anni. Il primo disco che ho avuto era un pezzo di rhythm and blues dei Robins. Poco dopo ho letto un articolo sul compositore Edgar Varèse così ho comprato un suo disco: avevo The Robins e Varèse: da subito non ho trovato alcuna differenza, per me faceva parte di un unico universo. Ciò che mi ha attratto di Varèse era la capacità della sua musica di essere così diretta».
Fra musica, ironia e nonsense Zappa mescolava rhythm’n’blues e rock, pop e jazz, musica barocca e rinascimentale, ma anche le avanguardie musicali americane. Il tutto con una straordinaria capacità creativa ma anche di sintesi. Né va dimenticato il ruolo politico di Zappa, punto di riferimento costante delle opposizioni statunitensi, sfociato anche in provocatorie candidature alle principali cariche politiche, compresa quella alla presidenza degli Stati Uniti nel '92.
Prima di morire disse: «Oggi tutte le decisioni che riguardino la musica sono prese dai pubblicitari e dai creatori di moda. Quel tipo di gente che, ai vecchi tempi, andava in giro con dei grossi sigari tra le labbra: l'unica novità è che oggi negli uffici non è più possibile fumare...».

domenica 30 novembre 2003

IVANO FOSSATI ALLA TRIPCOVICH

È un Ivano Fossati nuovo, diverso, inedito, quello visto ieri sera alla Sala Tripcovich, nella tappa triestina del suo tour teatrale. Un Fossati che parla, scherza, ride, si prende addirittura bonariamente in giro. Un Fossati che a mezzanotte, dopo due ore e mezzo di grande musica, all’ennesimo bis lascia tutti a bocca aperta tirando fuori dal cilindro una versione un po’ blues e un po’ jazzata de «Il ragazzo della via Gluck». Roba di Adriano Celentano, roba del ’67, canzone geniale a suo avviso, che nessuno avrebbe mai creduto di sentirgli un giorno cantare dal vivo.
Cose che succedono in questo mondo. Un mondo, ti viene in mente vedendo il cinquantaduenne artista genovese illustrare le caratteristiche di una mandola orientale, nel quale a Oriente non c’è soltanto il presunto nemico dell’Occidente. C’è anche la culla della civiltà da cui discendiamo tutti. Verità cui non sembra pensare più nessuno. Dall’«altipiano barocco d’Oriente, sagrato immenso» arrivano oggi donne e uomini in cerca di un futuro fatto anche di «Pane e coraggio», titolo del brano che ha aperto la serata. Canzone intensa, struggente, figlia di «Italiani d’Argentina», di quando gli emigranti eravamo noi. Canzone popolata di anime salve, immigrati dagli occhi neri, che «ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un’altra che non ci vuole».
Man mano che prosegue la serata, al posto del solito Fossati, intellettuale impegnato (quasi) a tutti i costi, a volte difficile da seguire, si scopre un artista nuovo. Che non rinuncia all’impegno da poeta civile, ma sembra aver per la prima volta dopo tanto tempo recuperato una certa qual leggerezza, una nuova semplicità, quasi una gioia di vivere. Non sta per tutta la sera nascosto dietro al pianoforte, parla con il pubblico, ricorda episodi del passato più o meno lontano, la sua infanzia, l’amore per i burattini. Si prende insomma anche la libertà di sorridere. E lo fa all’interno di uno spettacolo acustico, rinunciando quasi interamente alla tecnologia: strumenti veri, lui e la sua maiuscola band (col figlio Claudio alla batteria), come se fossero in una bottega artigiana ricca di idee, circondati da oggetti quotidiani che si trasformano in macchine sonore. Ecco allora - in una scenografia assolutamente teatrale, con quattro enormi abat-jour di tulle - una ruota di bicicletta che «suona» come si faceva da ragazzini infilando un cartoncino fra i raggi, ecco i bicchieri di cristallo da suonare con le bacchette, ecco una vecchia radio a valvole che gracchia.
Dopo «Pane e coraggio», che sta nell’ultimo «Lampo viaggiatore», un salto indietro di oltre dieci anni, per ripescare da «Lindbergh» un brano come «La barca di legno e di rosa». E poi subito l’omaggio a De Andrè, con «Smisurata preghiera», e quello a Chico Buarque de Hollanda (e alla saudade sudamericana cui il nostro è sempre stato sensibile), con «Oh che sarà».
Il viaggio nella memoria, in bilico fra tempo perduto e presente, sceglie poi i toni minimalisti di «C’è tempo» (dal nuovo disco), le suggestioni di «L’uomo coi capelli da ragazzo», i ricordi bambini di «La casa», la magia di «Una notte in Italia», l’allegria contagiosa di «Buontempo». Geografia dell’anima, percorsa con sguardo emozionato e attento alle ragioni del cuore e della mente.
Secondo tempo. Subito gli afrori forti de «La pianta del tè», e poi un gioiello sentimentale come «Il bacio sulla bocca» («la mia unica canzone d’amore a lieto fine...»), e ancora la raffinata semplicità di «Cartolina». Prima del crescendo finale che veste gli abiti sgargianti di «Discanto», di «Mio fratello che guardi il mondo» («e il mondo non somiglia a te...»), di «Terra dove andare».
I bis, stavolta, non sono una formalità. E fra i bis, aperti da «I treni a vapore», arriva la citata sorpresa del «Ragazzo della via Gluck». E ancora «La musica che gira attorno». Con Fossati che imbraccia ridendo la chitarra. Roba da non credere. A chiusura di un concerto assolutamente trionfale.

venerdì 28 novembre 2003

...fini è arrivato alpunto di sostenere di essere antifascista. è il colmo, è come se d'alema dicesse di essere anticomunista. cosa? l'ha già detto?
(jena - il manifesto)
...quando uomini piccoli fanno ombre lunghe, siamo già al tramonto...
(antico detto cinese)

sabato 22 novembre 2003

DISCHI DE GREGORI E LIGABUE

Francesco De Gregori e Luciano Ligabue hanno scelto lo stesso giorno, oggi,
per far uscire i propri nuovi dischi. S’intitolano rispettivamente «Mix» e
«Giro d’Italia». In entrambi i casi si tratta - oltre che di cd doppi - di
materiale quasi interamente già noto, riproposto dal vivo o in nuove
versioni. A dimostrazione del fatto che, quando si hanno alle spalle
carriere ormai lunghe (trenta e più anni per il cantautore romano, quindici
per il rocker emiliano), il fatto di rimettere le mani nella produzione
passata, e tirarne fuori nuove proposte discografiche, diventa un’attività
importante quasi quanto quella di dedicarsi alle nuove composizioni. Si
entra insomma nella categoria dei classici, che vengono riletti, magari
vestendoli di nuovi abiti musicali. Anche a beneficio delle nuove
generazioni, che non avevano fatto in tempo a conoscerli al tempo delle
pubblicazioni originali.
De Gregori propone trentuno canzoni per due ore e mezzo di musica, aperte da
un’originalissima (e «sporchissima»...) versione blues di «A chi», classico
di Fausto Leali negli anni Sessanta, che a sua volta era una cover di
«Hurt». Poi si alternano capolavori di ieri («Alice», «Rimmel», «Generale»,
«Bufalo Bill», «La donna cannone»...) e di oggi («Il cuoco di Salò»), la
friulana «Stelutis Alpinis», le due cover dylaniane «Non dirle che non è
così» e «Come il giorno» (che «traducono» rispettivamente «If you see her
say hallo» e «I shall be released»), ma anche l’inedito «Ti leggo nel
pensiero», che chiude la doppia raccolta.
L’unico criterio di compilazione del disco sembra essere quello di... non
aver nessun criterio: i brani sono frammenti di vita musicale mescolati,
«curve della memoria» fotografate dal vivo o in studio, senza pretese di
organicità o di raccontare una storia. Ma avendo l’artista in questione
scritto negli anni molte belle canzoni, il disco (di cui esiste anche una
versione dvd, intitolata «Mix Film») si fa ascoltare e apprezzare.
Discorso diverso e al tempo stesso analogo per Ligabue. Il nuovo album
ripropone i momenti migliori del particolarissimo tour dell’inverno scorso,
passato un anno fa anche da Trieste: in ogni città il rocker di Correggio
suonava la prima sera in teatro, in versione acustica, affiancato fra gli
altri da Mauro Pagani, anche proponendo brani meno noti al grande pubblico,
e la seconda sera al palasport, in versione elettrica che più elettrica non
si può, chitarre a tracolla e «greatest hits» a disposizione di un pubblico
impaziente di cantare in coro.
Sotto quindi con «Piccola stella senza cielo» e «Sogni di rock’n’roll»,
«Questa è la mia vita» e «Una vita da mediano», «Eri bellissima» e «Tra
palco e realtà», «Tutti vogliono viaggiare in prima» e «Ho messo via»...
Insomma, ballate da fiammelle accese e rock tiratissimi: le cose migliori di
un artista che in pochi anni, quando ha debuttato, è stato capace di
diventare una delle pochissime rockstar italiane. Oltre al cd doppio, esiste
una versione limitata e numerata con un terzo cd, con altri brani e
interventi parlati del Liga.

RENZO MAGGIORE AL CET DI MOGOL

Uno dei (tanti) dubbi che pesano sul prossimo Festival di Sanremo
riguarda il ruolo di Mogol e del suo Cet. Al Centro Europeo di Toscolano, in
Umbria, dovrebbero infatti essere scelti, dopo una prima scrematura, i
dodici o più cantanti, giovani e big assieme, che gareggeranno sul palco
dell’Ariston.
Ma che cos’è il Cet? Chi lo ha visitato riferisce che si tratta di un
confortevole complesso residenziale che Giulio Rapetti, in arte Mogol, ha
messo su una decina d’anni fa ad Avigliano Umbro, nelle campagne vicino
Terni. L’obbiettivo: farne un centro di lavoro sulla cultura e la musica
popolare, che in questi anni ha già diplomato un migliaio di allievi.
Il triestino Renzo Maggiore, in arte Joel, 31 anni, professionista nel campo
della comunicazione ma anche autore di canzoni, poesie (è in uscita la sua
prima raccolta, «Aurora spirituale») e fiabe, è da poco tornato dalla sua
seconda esperienza nello spazio di pochi mesi al Cet. «Ho scritto un
centinaio di testi - spiega Maggiore - ma mi rendevo conto che mi mancava
qualcosa. Allora sono andato alla scuola di Mogol. Lì si parte dalla musica
e dalla musica si traggono le parole, rispettando la metrica. Musica e
poesia in fondo sono sorelle gemelle: entrambe nascono dalla vibrazione
dell'anima, sono legate a un ritmo e, per essere veramente forme d'arte,
devono esplodere da un'emozione, dar voce e note a un sentimento sincero».
Ma torniamo a Mogol. «Lui dice: siamo qui per farvi diventare numeri uno. E
insegna ai suoi allievi (autori, ma anche interpreti, compositori,
arrangiatori...) a non proporre aria fritta per non creare ulteriore
confusione in un mondo che ne è già travolto. Lui punta sul racconto di
fatti veri, sulla trasmissione di emozioni autentiche, sul principio base
della comunicazione: la credibilità. Troppo spesso i giovani tendono a
imitare i big invece di proporre se stessi: pur se bravissimi tecnicamente,
non ottengono il successo perché finiscono per essere dei cloni».
«Al Cet - prosegue Maggiore - nessuno ti lusinga: la schiettezza è regola,
pane al pane e vino al vino. Lì si fa un lavoro di introspezione, oltre che
di preparazione tecnica. In particolare, gli autori lavorano sulla metrica
(il numero di sillabe e accenti che si ricavano dalla melodia) che secondo
lui è ”la rotaia su cui viaggia il treno”, al fine di automatizzarla e
trasformarla da limite tecnico a occasione di spunto creativo. Viene
richiesto molto allenamento su brani editi e inediti, l'unico modo per
interiorizzare il metro fino a eliminare vincoli mentali».
«I docenti - conclude - sono chiamati a un lavoro in fondo psicologico: il
messaggio principale è ”siate originali”. Nel corso delle lezioni sono state
frequenti le citazioni di filosofi come Schopenauer e scrittori come Rilke:
un approfondimento culturale a sostegno della convinzione che occorre
guardare in profondità dentro di sé per poter esprimere se stessi».
Ma un drappello di (aspiranti) cantanti sanremesi saranno disposti a
immergersi in questo «mondo ideale» per essere ammessi alla kermesse
festivaliera?

domenica 16 novembre 2003

...beato il paese che non ha bisogno di eroi... (bertoltbrecht)
...in un mondo che è in mano a chi non sa, o finge di non sapere, che guerra chiama guerra, morte chiama morte, violenza chiama violenza...
...se laggiù, sottoterra, invece del petrolio, ci fossero patate o barbabietole, forse bush non direbbe a Ciampi che gli americani lasceranno l'Iraq soltanto "a lavoro completato"... (enzobiagi)

mercoledì 12 novembre 2003

...hey mister bush, hey berlusca, how do you sleep tonight...?
...ragazzi mandati a morire, da chi pensa ancora - nel 2003 - di poter risolvere con le guerre i complessi problemi di un mondo sempre più complesso...

SANREMO

Sanremo, la montagna ha partorito ancora una volta il topolino. Come sempre più spesso accade. La Rai e Tony Renis (amico o non amico di mafiosi a ’sto punto poco importa: in questo contesto conta molto di più il particolare che è vecchio amico e compagno di merende di Berlusconi...) dicono di voler rilanciare il Festival ma si apprestano a fare le classiche nozze con i classicissimi fichi secchi.
Senza la Fimi, che raccoglie le case discografiche più importanti e di fatto gran parte dei cantanti più amati dal pubblico. Con la gara unica fra cosiddetti big e sedicenti giovani (come quella volta, nell’83, che finì per vincere Tiziana Rivale; seconda tale Donatella Milani...). E con il rischiosissimo voto telefonico, che si presta - organizzalo come vuoi, con tutti i paletti che vuoi - a evidenti manipolazioni da parte dei diretti interessati, con codazzo di case discografiche, agenzie, giù giù fino ad amici e parenti... Quasi a mo’ di ciliegina sulla torta, il Dopofestival trasformato nell’ennesimo «Porta a Porta» con l’onnipresente cardinal Bruno Vespa.
Mogol ha accettato di rappresentare la foglia di fico di un tal guazzabuglio, forse - dicono i maligni - per la sua storica vicinanza al centrodestra. Ma rischia di ritrovarsi con una macchia sulla sua onoratissima carriera di grande autore.
Il più astuto Bonolis, forte dei successi di ascolto del suo recente ritorno alla Rai, ha invece annusato per tempo l’aria e si è tirato indietro. Lasciando Rai e organizzatori con la gatta da pelare non da poco di trovarsi alla svelta un altro conduttore credibile.
Ora prepariamoci al solito, estenuante rito delle conferenze stampa di presentazione. Dei cantanti, del conduttore, delle vallette-che-non-si-possono-chiamare-vallette, degli ospiti... Tutto per tentare disperatamente di attirare interesse su un Festival che nasce morto, al di là dei proclami e delle altisonanti dichiarazioni d’intenti. L’inevitabile e ulteriore crollo degli ascolti, unito alla confermata incapacità di incidere sulle vendite dei dischi, ne saranno la desolante riprova.

martedì 11 novembre 2003

LIBRO GUCCINI

Parla un po’ anche di Trieste, del Carso, di Banne e ovviamente del «tram de
Opcina», il nuovo libro di Francesco Guccini. «Cittanòva Blues» (Mondadori,
pagg. 217, euro 15) conclude l’ideale trilogia, lo zibaldone autobiografico
avviato nell’89 con «Cròniche epifaniche» e proseguito nel ’93 con «Vacca
d’un cane». Sì, perchè il lungagnone di Pàvana, appennino tosco-emiliano (ma
lui è nato a Modena, nel 1940), cantautore e da qualche tempo narratore fra
i più amati dal pubblico, quarant’anni fa o giù di lì fece il militare
proprio in una caserma a Banne, sul Carso triestino, a un tiro di schioppo
da Opicina.
E quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà», cantato in una delle
sue canzoni più applaudite ai concerti, poi sostituito da «un ricco e
imbottito McGregor di velluto a coste», l’aveva comprato proprio a Trieste,
subito dopo il servizio militare, quando il suddetto capo d’abbigliamento
«non aveva ancora quel significato simbolico che avrebbe avuto in seguito».
«A Trieste - aveva raccontato una volta Guccini - facevo il fighetto. Un
signore, altro che. Novantamila lire al mese più altre cinquemila di
frontiera orientale, quindi zona disagiata. In realtà, la zona non era
disagiata per niente. La città era bella, d’inverno tirava la bora ma con la
bella stagione si andava anche al mare. Allora Trieste aveva due caserme in
città, una su in altopiano a Poggioreale del Carso e un’altra ancora a
Banne, molto lontana. Quando ci assegnarono le sedi, pregai di essere
mandato in città o quantomeno di evitare Banne e bestemmiai a lungo quando
mi dissero che, naturalmente, era lì che sarei finito».
Ancora Guccini: «In realtà, già pochi giorni dopo il mio arrivo mi resi
conto che non solo non era una sventura, anzi, mi era andata di lusso. Il
nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava
che i suoi soldati girassero per la città in divisa, così quasi ci
costringeva, per la nostra gioia, a uscire in borghese. Solo le ragazze più
belle per i miei ragazzi, diceva. Era un patito delle bisbocce e quindi
organizzava lui stesso spettacolari cene cosiddette ”di calotta”,
associazione nominale che unisce gli ufficiali cosiddetti inferiori -
sottotenenti, tenenti e capitani - di uno stesso gruppo. Erano balle a non
finire, balle nel senso di ubriacature, con il maggiore in testa a dare
l’esempio».
Se «Cròniche epifaniche» raccontava l’infanzia pavanese e «Vacca d’un cane»
l’adolescenza nella Modena degli anni Cinquanta, ora siamo nella Bologna
vivace e curiosa e un po’ alcolica dei Sessanta. Anzi, per l’esattezza,
dalla fine degli anni Cinquanta ai primissimi Settanta. I ragazzi e le
ragazze di allora, i loro luoghi, le passioni, i sogni. Ecco la prima
Cinquecento, le immancabili osterie, la mitica chitarra Carmelo Catania, i
primi complessi (che non si chiamavano ancora gruppi e tantomeno band...),
il sesso assai parlato e pochissimo praticato. Sullo sfondo, i primi vagiti
della contestazione. Dietro l’angolo, sempre, l’eterno sogno americano. E
poi la naia, a Lecce, a Roma e infine a Trieste. E poi ancora, al ritorno,
la ripresa degli studi universitari. E le canzoni.
Quasi un romanzo di formazione, insomma, in una prosa caratterizzata e in
qualche modo impreziosita da gerghi dialettali e preziosismi letterari. Il
gergo di Guccini, che sa imprimere anche alle pagine un ritmo quasi
musicale. Per cantare in prosa la sua città e l’epoca dei suoi vent’anni
(«perché a vent'anni è tutto ancora intero, perché a vent'anni è tutto chi
lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a
quell’età...»: «Eskimo», appunto). Per cantare la provincia italiana degli
anni Sessanta, diversa ma simile sotto ogni latitudine.
I primi due capitoli della trilogia erano usciti per Feltrinelli. Ora il
passaggio a Mondadori. Dopo un decennio di «pausa autobiografica», occupato
dalla collaborazione con il giallista Loriano Macchiavelli, foriera del
libro «Macaroni» (uscito nel ’97) e di altri tre titoli.
«Cittanòva Blues» (in coda c’è anche un utile glossarietto, eredità di
un’altra pubblicazione del nostro: il Dizionario del dialetto di Pàvana,
curato e pubblicato nel ’98) conclude la trilogia dei ricordi. Dopo la
quale, ha detto Guccini in un’intervista, «ho pronte cinque canzoni per un
nuovo album, ma so che non bastano. Sto anche pensando a una specie di saga
familiare sulla storia d’Italia: dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni
nostri».
«Poi vorrei parlare di mondi lontani, luoghi visitati come turista per caso.
Ho già pronti tre racconti, ambientati rispettivamente in Argentina, Brasile
e Sicilia. E ne ho in mente uno sulle isole Mauritius. Dovrò trovare una
lingua unica, uno stile in grado di omologare realtà così diverse...».
Insomma, sempre più scrittore, sempre meno cantautore.
Ma torniamo ancora per un attimo al soldato Guccini nella caserma di Banne.
«Io ero inoltre coccolato da tutti - aveva raccontato il cantautore - perchè
sapevo suonare uno strumento. E quando arriva una chitarra in caserma, tutti
fanno festa. Il maggiore Giacchini divenne il mio primo fan. Alle cene di
calotta, quando era oramai prossimo a crollare riverso sul tavolo, si
rivolgeva a me ad alta voce: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo
tavolo se ti ricordi questa canzone. Io magari non la sapevo, ma al mio
tavolo per una bottiglia di cognac l’avrebbero anche scritta lì sul momento,
la canzone...».
...se fossimo un paese normale, alle elezioni politiche il centrosinistra presenterebbe candidato premier Veltroni (alleato a sinistra con Bertinotti) e il centrodestra presenterebbe Casini (alleato a destra con Fini). Ma noi non siamo un paese normale, baby...

domenica 9 novembre 2003

...si possono ingannare tante persone per poco tempo, oppure poche persone per tanto tempo, ma è impossibile ingannare tante persone per tanto tempo: chissà se berlusconi lo sa...

venerdì 7 novembre 2003

DISCO TIZIANO FERRO

Il nuovo Ramazzotti ha ventitré anni, è nato a Latina, da bambino era un
grassone. La nuova grande realtà del pop italiano da esportazione, dopo
Eros, la Pausini e Nek, è insomma Tiziano Ferro. Di lui si sa che è amato da
giovani e giovanissimi. E che a sedici anni, dopo studi di chitarra
classica, batteria e pianoforte, entra nel coro gospel della sua città. A
diciotto (dopo aver mancato l’obiettivo l’anno precedente) è fra i finalisti
dell’Accademia della Canzone di Sanremo. Lì viene notato dai produttori
Alberto Salerno e Mara Majonchi, che cominciano a lavorare su di lui. Nel
luglio 2001 esce il primo singolo, «Xdono», ed è il botto: prima in Italia,
poi in Europa, poi in mezzo mondo. Tanto che nella classifica dei singoli
più venduti in Europa nel 2002 (senza i numeri dell’Italia e
dell’Inghilterra, dove il cd singolo - rispettivamente - è uscito l’anno
precedente e non è stato pubblicato) ottiene un clamoroso terzo posto,
dietro Eminem e Shakira. Nell'ottobre 2001 esce l'album d'esordio, «Rosso
relativo», che in Italia resta fra i dieci più venduti per oltre sette mesi
e viene pubblicato in quarantadue paesi. Scalando le classifiche in
Svizzera, Spagna, Germania, Francia, Olanda, Belgio, Turchia... Intanto, i
singoli «Imbranato» e «Rosso relativo» contribuiscono alla consacrazione del
cantante, popolarissimo in Italia (premio al Festivalbar) e all’estero: i
singoli vengono registrati in spagnolo, francese e portoghese («Xdono» anche
in inglese), l'album in spagnolo esce negli Stati Uniti e in Sudamerica,
«Imbranato» è numero uno in Brasile e numero tre in Argentina, «Xdono» è
terzo in Messico, dove l’album è fra i dieci più venduti. Dopo i tour in
Centro e Sud America, arriva anche il maggior riconoscimento: Tiziano è in
lizza - unico italiano - per i Latin Grammy 2003 di Miami come «miglior
esordiente». Ora, fra due giorni, anticipato dal singolo «Xverso», esce il
secondo album. S’intitola «111 Centoundici». Un mix di vocalità italiana e
ritmi neri. Atteso in Italia, Europa e America.

RENATO ZERO

Sabato lo rivedremo da Giorgio Panariello, su Raiuno. A presentare il nuovo
disco «Cattura» ma anche a perpetuare il gioco, che piace tanto alle folle
mediatiche, dell’imitato che s’incontra con l’imitatore. Gioco che funziona
alla meraviglia quando Teo Teocoli diventa Cesare Maldini, quando Maurizio
Crozza si trasforma in Josè Altafini (o in Marzullo, o in Cannavò...),
quando Sabrina e Corrado Guzzanti dardeggiano i loro tanti bersagli. E
quando Panariello, appunto, fa Renato Zero quasi meglio dell’originale.
Anche questo, in fondo, è un segnale della «normalizzazione» di Renato
Fiacchini in arte Zero. Partito come un David Bowie «de noantri», arrivato
nell’immaginario collettivo alla stregua di un Claudio Villa rivisto e
corretto da qualche decennio di cultura pop. Classe 1950, «romano de Roma»,
comincia a cantare da bambino. Nel ’66 al Piper, in pieno beat italiano,
viene notato dal coreografo Don Lurio che lo porta in tv (assieme a Loredana
Bertè), nel gruppo di ballo di Rita Pavone «Collettoni e Collettine».
Seguono i programmi di Arbore e Boncompagni, le comparsate nei Caroselli
televisivi, i primi dischi («Non basta mai» è del ’69), la particina nel
«Satyricon» di Fellini (’70), l'edizione italiana del musical «Hair», la
rock-opera di Tito Schipa jr. «Orfeo 9». Il primo album come cantautore, «No
mamma no», è del ’73. E la «maschera Renato Zero» diventa protagonista della
canzone italiana. Cipria, cerone, mascara, travestimenti e imbellettamenti
vari servono all’artista per comunicare già con l’immagine, prim’ancora che
con parole e musica. Per parlare a schiere di «sorcini» di disagio, di
emarginazione, di omosessualità, di droga, di tabù vecchi e nuovi.
Una volta, tanti anni fa, della sua maschera disse: «Non è assolutamente un
fatto scenico. Ora sono completamente senza trucco, ma nulla vieta che tra
un po' vada a casa e mi trucchi per poi andare a prendere un gelato. Mi si
può dire che è puro infantilismo, io rispondo che è una dimensione di vita
tutt'altro che lontana dalla realtà. Fuga? Mai. Schizofrenia? Neanche.
Ridicolizzare le frustrazioni e le paranoie: questo sì».
Chissà se lo pensa ancora, il normalizzato signore cinquantatreenne Renato
Fiacchini in arte Zero. Di cui ultimamente si è parlato, più che per la
musica, per tre fatti. Aver adottato legalmente un giovanottone trentenne di
nome Roberto Anselmi. Esser stato coinvolto (con ogni probabilità senza
colpa) in una denuncia per maltrattamenti da un suo ex domestico cingalese.
E ovviamente per l’azzeccatissima imitazione che ne regala Panariello.

giovedì 30 ottobre 2003

INTERVISTA AMII STEWART

«Billie Holiday era la cantante preferita di mia madre, prim’ancora che la mia. La sua vita è stata un concentrato di sangue, sudore e lacrime. E realizzare un musical su di lei, sulla sua vita, sulla sua musica, è per me un vecchio sogno che si avvera...».
Così Amii Stewart presenta «Lady Day», il musical che stasera inaugura al Politeama Rossetti il cartellone «Musical & Grandi Eventi» (repliche fino a domenica). Un musical che la stessa cantante americana firma assieme al regista Massimo Romeo Piparo. «L’incontro con lui - spiega l’artista - è stato determinante perchè il mio vecchio sogno diventasse realtà. È lui che mi ha proposto la parte di Maria Maddalena in ”Jesus Christ Superstar”. In quell’occasione la nostra collaborazione è stata ottima. E ha aperto le porte a questo nuovo progetto a cui tenevo molto».
Il musical, dice Amii, «mi è sempre sembrato la forma più completa della fantasia applicata al mondo dello spettacolo. Ciò sin da quando frequentavo l’Accademia delle belle arti a Washington, e ogni estate, finiti i corsi di lezione, giravamo le strade con i nostri piccoli spettacoli. Ci portavamo in giro tutto, dal palcoscenico alle luci, dagli strumenti ai costumi. Lì ho cominciato la mia carriera. Prima come ballerina, poi dedicandomi al canto e alla recitazione».
E in quegli anni si consolida l’amore per Billie Holiday. «Nella mia famiglia - ricorda la cantante - c'era una sorta di culto per le sue canzoni, che mia madre mi cantava quand’ero ancora in culla. Tanti anni dopo, leggendo le autobiografie dei grandi musicisti della ”black renaissance” (Billie, ma anche Louis Armstrong, Ella Fitzgerald...), ho scoperto che quel periodo, che credevo romantico, era stato in realtà durissimo per gli artisti neri. Così ho conosciuto anche la storia di Billie Holiday, le sue sofferenze, la lotta contro le ingiustizie, il razzismo».
Tempi difficili, che hanno segnato più di una generazione. «Ai loro tempi gli artisti neri hanno avuto il coraggio di lottare contro il razzismo, contro i pregiudizi. Billie, essendo una donna, ha dovuto lottare ancor più duramente. Gli artisti neri dei nostri tempi - e io fra loro - hanno un enorme debito con lei. È anche grazie al suo coraggio che oggi possiamo avere una carriera, il successo, una vita libera. Certo, negli Stati Uniti esistono ancora enormi problemi sociali, ma la povertà colpisce sia fra i bianchi che fra i neri».
«Billie è stata un'artista straordinaria - dice Amii Stewart - e ha avuto una vita così travagliata, piena di un dolore che lei è stata capace di trasmettere nel suo canto. Le è mancato quasi tutto: l’affetto, la famiglia, i soldi, l’amore. Si può dire che aveva soltanto la musica, la sua grande musica. Nessuno, come lei, ha saputo trasmettere queste emozioni con le note. Prima che un destino difficile la portasse dal trionfo alla rovina».
Amii Stewart vive in Italia da quasi vent’anni. «Sì, anche se continuo ovviamente a essere e sentirmi profondamente afroamericana. Oltre che nel colore della pelle, anche nel modo di pensare, di cantare, nei libri che leggo, nei dischi che ascolto. E ho notato che qui da voi tutti conoscono le canzoni di Billie Holiday (alcune le ritroviamo negli spot pubblicitari e come basi per i pezzi dance), ma quasi nessuno è a conoscenza della sua storia».
Ed ecco il musical. «Con Massimo Romeo Piparo abbiamo allora deciso di scrivere un musical ispirato alla vita di quella che possiamo considerare una delle cantanti più importanti del Novecento. Lui è stato capace di dare un respiro americano a questo lavoro. Non abbiamo fatto una rivista con una carrellata della sue canzoni più belle e importanti. Abbiamo fatto di più: abbiamo voluto raccontare innanzitutto la sua storia. Ed è nato ”Lady Day”...».
«Forse storie come quella di Billie Holiday - dice ancora la cantante - esistono ancora in Africa, non credo negli Stati Uniti. Anche per questo interpretarla è per me una grande responsabilità. La sua sofferenza, la sua sensibilità, la fatica di far emergere il suo talento, tutto questo provoca in me una profonda ammirazione e una grande commozione».
«Lady Day» sarà in tournèe fino al gennaio 2004. «Poi mi aspetta un lavoro con Ennio Morricone - conclude Amii Stewart - un grande lavoro orchestrale, che mi porterà in un ambito più classico. Avrò bisogno di almeno due mesi di studio e lavoro solo per reimpostare la voce...».

LUCIO, DI LUCIO DALLA

«Che cosa vuoi sapere, è meglio non sapere... L’amore che mi chiedi non può finire bene... Il cielo non lo vuole, ha le nuvole in catene, non fa più uscire il sole, senza vento e senza vele...».
Con tutto il rispetto e la stima per Iskra Menarini, la brava cantante che interpreta «Amore disperato» nella «Tosca» rivisitata da Lucio Dalla che ha appena debuttato a Roma, quando il disco parte e la voce di Mina fa vivere di vita propria questi versi, beh, allora hai la riprova di un fatto che forse qualcuno col tempo ha dimenticato: ci sono le cantanti, le brave cantanti, e poi ci sono le autentiche fuoriclasse, quelle che «potrebbero cantare anche l’elenco del telefono». Mina, appunto...
Il nuovo disco di Lucio Dalla, intitolato semplicemente «Lucio», esce domani e porta in dote questo prezioso dono: risentire la voce di colei che un tempo veniva chiamata la «Tigre di Cremona» impegnata in un grande brano, «Amore disperato», che apre e chiude il disco - rispettivamente nella versione in duetto e in quella del solo Dalla -, alla stessa maniera in cui apre e chiude lo spettacolo ancora in scena al Gran Teatro di Roma, e che presto andrà in tournèe in tutta Italia. Mina aggiunge emozioni, brividi e l’innata classe di cui è capace a una canzone di grande respiro melodico, dal tema travolgente, già destinata a entrare fra i classici della produzione dalliana.
«Mina - dice Lucio - aveva già cantato la sua parte che era in un file, io avevo fatto la mia. Poi però, per il cambio di tonalità, abbiamo cantato insieme e la registrazione di quella parte è stata fatta dal vivo in studio. A proposito di Mina posso dire solo che è un'artista straordinaria, ma non esiste un altro aggettivo per definirla ed è stupefacente come la sua voce sia ancora intatta, conservi perfino delle tracce di gioventù».
Ma il disco non vive solo di questo brano. Anzi, propone altre dieci canzoni che contribuiscono a formare un affresco pulsante e vitalissimo. Canzoni che profumano di semplicità, quella semplicità - giusto per parafrasare temi e citazioni più importanti - che nella musica è sempre più «difficile a farsi».
Dopo un capolavoro annunciato come «Amore disperato», e dopo il duetto con Mina, il compito di proseguire tocca a «Le stelle nel sacco». «No, questo amore non morirà mai... Arriverà alle porte del cielo e anche più in là. Arriverà ai confini del cielo e anche più in là. E se non ci sarà posto in cielo, va bene anche l’inferno, perché quando l’amore è vero, l’amore è eterno...». Una melodia limpida per una semplice - e bella - canzone d’amore.
È il turno di «Prima dammi un bacio», il singolo che ha anticipato l’uscita del cd, dalla colonna sonora del film omonimo e opera prima del regista Ambrogio Lo Giudice: «Dio, quante volte ti ho cercata. Dio, quante volte ti ho perduta. Mi sono perso anch’io. Quanta vita che è passata...».
Dopo «Ho trovato una rosa» (versione italiana di un successo del cantautore dominicano Juan Luis Guerra) e «Per sempre, presente», che ci restituiscono il Dalla melodico e appassionato di sempre, è il turno di «Per te», ovvero del secondo brano che fa parte di «Tosca, amore disperato»: in scena è un divertente tip tap ballato e cantato in chiusura di primo tempo, qui, nel disco, è una bella canzone che brilla di luce propria, e pone anch’essa la sua candidatura a entrare fra i classici del piccolo grande genietto bolognese.
«Ambarabà Ciccicocò» è la godibilissima, immaginaria sceneggiatura di un mini-film di amore e tradimento ambientato in una Napoli visionaria, nella quale ritorna il Dalla più provocatorio e divertente.
La lieve «Putipù» e l’amarissima «Yesterday o Lady Jane?» sono le ultime due canzoni del disco. Prima di una lunga e rarefatta versione jazz, quasi impressionista, di «Over the Rainbow», l’immortale composizione di Harold Arlen (già tema del celebre film «Il mago di Oz»), con il clarino di Lucio nel ruolo che fu di Judy Garland. E prima della riproposizione di «Amore disperato», stavolta interpretata dal solo Dalla.
Un ottimo disco, registrato nello studio casalingo che Dalla ha alle Isole Tremiti, che conferma l’assoluto stato di grazia e forse anche la ritrovata ispirazione dell’artista nell’anno nel sessantesimo compleanno (4 marzo ’43, do you remember...?). Un disco in bilico fra lirica, jazz e canzone, che si propone come uno dei migliori italiani dell’anno agli sgoccioli.

martedì 28 ottobre 2003

INTERVISTA PAOLO ROSSI

Dice che dopo Shakespeare e Molière voleva affrontare un altro
classico. La scelta è caduta stavolta su un classico contemporaneo, la
Costituzione. Un testo importante, che come succede con i classici, tutti
sanno cos'è ma pochi conoscono davvero. E allora il suo scopo è farla
conoscere, questa Costituzione che gli attuali governanti vorrebbero invece
cambiare.
Paolo Rossi è da qualche giorno a Trieste, nella città da cui mancava da
sette anni (l’ultima volta fu quando portò «Rabelais» al Rossetti: finì in
polemica con lo Stabile, che non a caso non l’ha più chiamato...). Nella
città a un tiro di schioppo dalla Monfalcone dove è nato nel ’53, sta
provando la ripresa autunnale, dopo un centinaio di repliche l’anno scorso,
del suo spettacolo «Il signor Rossi e la Costituzione». Sottotitolo:
«Adunata popolare di delirio organizzato».
Di che delirio organizzato si tratti, chi conosce - e ama - Paolo Rossi lo
sa. Ma l'adunata popolare? «L’articolo 17 della Costituzione - spiega
l’attore, che lunedì, martedì e mercoledì propone lo spettacolo al Teatro
Miela - decreta e tutela il diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Siccome le armi della poesia di pasoliniana memoria non sono ancora
contemplate fra le armi improprie, si è deciso di avvalersi di questa legge
per chiamare i cittadini a trovarsi in un luogo pubblico per parlare della
Costituzione. Per conoscerla prima di vederla modificata. Per discuterla.
Magari per riscriverla. Certamente per capirla, scandagliarla, renderla
fruibile».
Con Berlusconi il suo lavoro è diventato più facile o più difficile?
«Beh, in effetti a far ridere ci pensa già lui. Diciamo che lui aiuta la mia
parte di attore comico, mentre la sinistra, oltre a farmi soffrire, mi offre
numerosi spunti per il mio lavoro di attore tragico».
I politici le portano via il lavoro?
«Viviamo in una società dello spettacolo. La nostra è diventata la
democrazia della rappresentazione, non della rappresentanza. Sì, votiamo. Ma
come si vota a Sanremo, o all’Isola dei Famosi. Da noi non è il popolo a
esser sovrano, ma il pubblico. La politica dovrebbe essere un’altra cosa:
interessarsi concretamente dei problemi della comunità. E invece...».
Politica-spettacolo anche negli Stati Uniti: prima Reagan, ora
Schwarzenegger...
«Ognuno manda al potere i propri simboli. In America c’è Hollywood, il
cinema. Ed ecco Schwarzenegger. Da noi c’è il varietà, la canzone, la
commedia dell’arte... Ed ecco Berlusconi, che cantava sulle navi da
crociera».
Temi dunque universali.
«La satira è universale. Due anni fa ho portato ”Il medico per forza” di
Moliere a Cracovia, in Polonia. Tolsi i riferimenti diretti a Berlusconi. I
giornali scrissero che era chiaro: stavamo parlando di Walesa...».
E la nostra Costituzione?
«È il libro delle regole, che io affronto da un punto di vista non
ideologico, ma del buon senso. Non cerco di fare controinformazione,
analisi, critica... Mi pongo dalla parte del comune buon senso, quello che
anima le favole: quelle di Fedro, di Andersen, quelle inventate».
La gente come reagisce?
«Il mio è un happening recitato col pubblico, non per il pubblico. Ogni sera
chiedo alla gente gli argomenti di cui si vuol parlare. Improvvisazione
pura, su un canovaccio molto semplice».
Ogni sera uno spettacolo diverso...
«Sì, anche perchè la gente è disorientata, vuole capire che cosa sta
succedendo. Dunque lo spettacolo è sempre più storia, aneddoto, favola,
lazzo... Tutti strumenti che aiutano a capire che cosa sta succedendo».
I politici danno spettacolo, i teatranti fanno politica...
«Le favole, le storie aiutano a capire. Dagli albori dell’umanità il teatro
ha sempre avuto anche questa funzione. Già uscire di casa per andare a
teatro, trovarsi in mezzo alla gente, parlare, discutere, è un fatto
positivo. Sempre meglio che guardare la televisione...».
Televisione dove i comici la fanno ormai da padrone. Anche con alcuni suoi
vecchi compagni di strada...
«Sì, c’è stata anche una polemica con alcuni di loro, che prima vorrei
chiarire con i diretti interessati. Dico solo che quando il contenitore è
più forte del contenuto, la satira evapora. In televisione. A teatro no...».
A Trieste l’avevamo lasciata fra i velluti del Rossetti, la ritroviamo in
uno spazio importante ma piccolo come il Teatro Miela...
«A parte che io alterno tranquillamente centri sociali e grandi teatri,
anche in questo caso non mi interessa riaprire polemiche stupide. Torno al
Miela perchè qui sono fra amici, fra persone che stimo. E anche per dare una
testimonianza di solidarietà al prezioso lavoro che hanno fatto in questi
anni, in una città multietnica e multiculturale come Trieste, e che ora
potrebbe essere a rischio».
Qual è la «sua» Trieste?
«La città in cui a tre o quattro anni i miei genitori mi portarono per la
prima volta in piazza Unità. Mi fece impressione questa grande piazza che si
apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... La mia famiglia
è di Monfalcone, dove sono nato e ho vissuto fino ai cinque anni, la nonna
paterna era di Fiume. Poi ci trasferimmo a Ferrara, al seguito di mio padre
che lavorava alla Solvay, e quando avevo sedici anni a Milano. Ma da ragazzo
tornavamo qui, oltre che tutte le estati, altre tre o quattro volte
all’anno. Andavo al mare a Sistiana, a Castelreggio. E giocavo a pallone,
regolarmente tesserato, in due squadre: una a Ferrara, una a Monfalcone. Ma
non c’era conflitto d’interessi...».
A settembre lei era a Cancun, in Messico...
«Sì, ho voluto partecipare alla manifestazione del forum sociale per
contestare il Wto. È stata un’esperienza forte, che mi ha colpito. Io sul
palcoscenico dò l’impressione di essere uno tosto. Ma davanti all’esercito
messicano, tipo film di Sergio Leone, ho avuto anche momenti di paura...».
E oltre alla paura?
«Davanti agli accampamenti dei campesinos, vedendo da vicino problemi reali
come quelli legati all’acqua, alla terra, alla fame vera, beh, è chiaro che
i nostri problemi di italiani e di occidentali si ridimensionano fortemente.
La delegazione italiana ai lavori parlava del prosciutto: poi è chiaro che
gli altri, davanti a noi, spesso si mettono a ridere...».

giovedì 23 ottobre 2003

TOSCA DI LUCIO DALLA

Non è un’opera, non è un musical, non è un melodramma, non è un balletto, non è un varietà televisivo. Ma pesca in tutti questi settori, con un furore multimediale che ben si addice a questi tempi spettacolarmente - e non solo spettacolarmente - confusi.
La nuova «Tosca» scritta, musicata e allestita da quel genietto curioso e irriverente di Lucio Dalla debutta stasera al Gran Teatro di Roma (megatendone da 3200 posti che David Zard, produttore dello spettacolo assieme a Ferdinando Pinto, ha tirato su in viale di Tor di Quinto quando doveva mettere in scena «Notre Dame de Paris»). Debutta centotre anni dopo la prima rappresentazione - per gli storici: sempre a Roma, a Teatro Costanzi - dell’opera di Giacomo Puccini che a sua volta era tratta dal dramma omonimo di Victorian Sardou. Debutta con il titolo «Tosca, amore disperato».
Dalla ha mantenuto solo la storia della bella Tosca (la ventiquattrenne siciliana Rosalia Misseri, già Esmeralda nel secondo cast di «Notre Dame») che nella Roma papalina della restaurazione post napoleonica ama il pittore liberale Cavaradossi (Graziano Galatone, un passato a Sanremo Giovani del ’93), che si caccia nei guai nascondendo il rivoluzionario Angelotti (Attilio Fontana, già con i Ragazzi Italiani). Della ragazza si innamora il capo della polizia, il perfido barone Scarpia (Vittorio Matteucci, il Frollo di «Notre Dame»), che cattura e condanna a morte il pittore, ma promette di liberarlo se lei gli dirà di sì. Tosca lo uccide, scappa a Castel Sant’Angelo, dove il suo uomo dovrebbe essere fucilato a salve. Ma le pallottole sono vere, Cavaradossi muore, ma muore anche Tosca.
Per quest’eterna storia di amore e di morte il sessantenne artista bolognese ha riscritto ex novo testi e musiche. Con un cast di trenta elementi (senza Sabrina Ferilli, Franco Califano e Max Gazzè, le star annunciate originariamente), con le coreografie di Daniel Ezralow e i costumi di Giorgio Armani, Dalla non si è fatto mancare assolutamente nulla. Effetti speciali fantasmagorici, diavolerie tecnologiche, tentazioni cinematografiche, trovate quasi circensi, immagini multimediali. «Matrix» ambientato al luna park, fra sipari argentati in stile Las Vegas, sullo sfondo di San Pietro. Per un costo di quattro milioni di euro che ora bisogna ammortizzare.
«Siamo in un territorio - spiegava Dalla l’altra sera, prima che cominciasse l’anteprima - dove il melodramma non è mai stato. Ho puntato ancora una volta sulla commistione di linguaggi, che è la cosa che più mi intriga, scegliendo soluzioni inedite per il melodramma ma anche per il musical. È un’opera strana, ma è comunque un’opera. Ha il turbinio dei sentimenti, fra personaggi doppi e tripli. È una Tosca fatta correndo, ma non per questo cialtrona. È una Tosca facilissima, ma prende strade che io stesso non ho ancora capito. Per me comunque è già conclusa, e a me non piacciono le cose finite, perchè poi te ne distacchi...».
Il musicista tiene a precisare che si tratta ancora di un work in progress. In effetti il primo tempo mostra ancora alcune farraginosità e alcuni passaggi meriterebbero una generosa messa a punto. La seconda parte scorre meglio, anche grazie a numerose e importanti aperture melodiche. Il collante che tiene assieme la baracca sono infatti alcune grandi canzoni. E non poteva essere altrimenti, visto che abbiamo a che fare con Dalla. Soprattutto «Amore disperato» (cantata a teatro da Iskra Menarini, la veggente Sidonia, all’inizio e alla fine) e «Per te» (un gustosissimo tip tap in chiusura di primo tempo) sono destinate a entrare fra i classici dalliani. E saranno comprese nel nuovo disco del cantautore, in uscita nei prossimi giorni, fra l’altro con un attesissimo duetto nientemeno che con Mina.
«Puccini si sarebbe vergognato di una Tosca così - ammette Dalla - ma forse si sarebbe divertito. La mia è un'opera moderna, multimediale, diversa dall'originale pucciniano. Non temo il confronto con lui, non mi sembra proprio il caso. La sua è l'opera più bella mai scritta nel melodramma. Mi sono messo a disposizione di Puccini per spiegare la sua opera oggi, a un pubblico diverso e con mezzi espressivi diversi».
Il pubblico, sulla scia del trionfo riservato a «Notre Dame de Paris», sicuramente gradirà. Come ha gradito nell’anteprima dell’altra sera. Fra torture rap, guardie pontificie in tutine a strisce, patrioti della Roma papalina che volano appesi a delle funi, preti e suore in desabillé... E tutto ciò che la fantasia visionaria di Lucio Dalla ha immaginato per questa sua «Tosca» così vicina alla sensibilità e al gusto contemporaneo.
Un’opera pop, un musical cinematografico di grande impatto visivo, con cadenze e tempi quasi televisivi. Un magma incandescente di suoni, colori, sentimenti.

mercoledì 22 ottobre 2003

giovedì 16 ottobre 2003

martedì 14 ottobre 2003

NOA ALLA SALA TRIPCOVICH

TRIESTE Scelta coraggiosa, quella di cantare la pace, con la sola forza della musica, delle parole e dei suoni, mentre i padroni del mondo adottano la guerra come strumento per (tentare di) dirimere le questioni. Scelta ancor più coraggiosa e significativa quando arriva da una cantante come Noa, che ieri sera ha tenuto un emozionante e vibrante recital alla Sala Tripcovich, nell’ambito della manifestazione «Itinerari ebraici».
La cantante israeliana (vero nome Achinoam Nini, nata a Tel Aviv, genitori di origini yemenite, cresciuta a New York e poi tornata adolescente nella sua città) vive infatti ogni giorno sulla sua pelle la situazione drammatica del Medio Oriente. Vede due popoli che vivono sulla stessa terra affidare il proprio presente, il proprio futuro alla violenza e non al dialogo, alle armi e non alla pacifica e necessaria convivenza. Protesta nell’unica maniera che conosce, e affida al proprio canto, alla splendida voce, ai suoni che denunciano influenze culturali sia occidentali che orientali, la sua grande speranza di pace.
A Trieste Noa (che in ebraico significa «sorella di pace») si è presentata in versione acustica, con il fido Gil Dor alle chitarre e Zohar Fresco alle percussioni. Biancovestita, apre puntualissima con «U.n.i.», canzone che stava nel suo secondo album, del ’93: una sigla che pronunciata in inglese suona come «you and I», ma rappresenta anche le prime tre lettere della parola «universe». Prosegue con «Mishaela» (da «Noa», il disco del ’94 che ha rivelato l’artista alla grande platea internazionale), «Wild flower», «I don’t know»...
Spettacolo musicalmente scarno, senza gli orpelli pop dell’ultimo tour, che ha fatto tappa a primavera anche a Udine. Spettacolo che proprio per la sua essenzialità permette alla voce di Noa di librarsi alta, forte e al tempo stesso dolce. Una voce che sembra in grado di diffondere gioia, speranza, persino entusiasmo. Una voce e un canto che mescolano pop-rock americano, suggestioni etniche mediorentali, venature jazz. Una voce e un canto che sanno essere - in inglese come nell’idioma ebraico - soavi e delicati, ma anche forti ed energici.
Arrivano anche i brani dell’ultimo album, intitolato «Now», fra cui una straordinaria «Look at the beauty of that» - uno dei brani in cui lei stessa si scatena alle percussioni - e le due cover del disco: una rarefatta e magica «Eye in the sky» di Alan Parsons e la beatlesiana «We can work it out» (nel disco in duetto con la cantante palestinese Mira Awad). E alla fine, fra i bis, non può mancare «Beautiful that way», tema scritto da Nicola Piovani della colonna sonora del premiatissimo film di Benigni «la vita è bella». Ma non manca neanche l’omaggio all’Italia, e a Napoli, considerata soprattutto all’estero la patria della canzone italiana, con «Partono ’e bastimente» («...pe’ terre assai luntane...»). E dopo un messaggio di pace letto in italiano c’è posto persino per un inedito: quella «Shalom shalom» che riassume con la sua invocazione di pace, la pace che parla il linguaggio universale della musica, il senso del concerto e forse dell’intera produzione artistica della cantante.
«Cantare la pace mentre il mondo si fa la guerra - spiega Noa, per cui quello di ieri sera è stato il primo concerto a Trieste, dov’era però già passata velocemente in occasione delle sue varie partecipazioni a Folkest - è per me un sfida importante. Credo nella pace, credo nella pacifica convivenza fra i popoli, e sapere che ogni giorno c’è gente che muore o rischia di morire in Medio Oriente mi dà una forza ancora maggiore per continuare sulla mia strada».
«Certo, la difesa di questi valori, a cui continuo a credere profondamente, non è facile nella realtà angosciante con cui siamo costretti quotidianamente a confrontarci. Ma l'unica possibilità per resistere, per non arrendersi al peggio, sta proprio nella comunicazione. Continuo a credere nel dialogo e mi adopero come posso per stimolarlo e per sviluppare rapporti d'amicizia. Dev’essere un impegno per andare avanti, per sopravvivere, altrimenti tutto sembrerebbe troppo deprimente. Per me continuare a cantare, a fare musica, significa anche non arrendersi a una logica di morte».
Una scelta, quella di Noa, maturata pian piano. «I miei genitori - racconta la cantante - israeliani di nascita e yemeniti di origine, si trasferirono negli Stati Uniti quando io avevo appena un anno. Ho vissuto fino ai diciassette anni a New York, nel Bronx, dove ho studiato e fatto le mie prime esperienze musicali e artistiche. Ma un giorno è arrivato, con una crisi di identità, il richiamo della mia terra, che mi ha spinto a tornare in Israele. Lì, a Tel Aviv, ho proseguito gli studi, ho prestato il servizio militare e in una scuola di jazz e musica classica ho completato la mia formazione, cominciata a New York».
Rimane la consapevolezza di essere cresciuta immersa in ambedue le culture, quella americana e quella orientale. «I miei nonni provengono dallo Yemen, i miei genitori sono israeliani, e sono cresciuta in America parlando inglese. Dunque non mi sono mai posta il problema di scoprire una cultura rispetto a un’altra, perché le ho sempre vissute come parte integrante della mia vita».
Ieri sera, alla Tripcovich, trionfo di pubblico per la cantante dai grandi occhi scuri e dai lunghi capelli ricci. Vederla in concerto al di fuori di un tour è stata un’occasione unica, resa possibile dal consolidato rapporto di amicizia fra l’artista e gli organizzatori di Folkest. Stamattina Noa parte per Roma, dove giovedì nel corso di una cerimonia verrà nominata ambasciatrice della Fao per la pace nel mondo.

domenica 12 ottobre 2003

BARCOLANA FESTIVAL

TRIESTE Festa di mare, di vele, di vento (quando c’è...), di colori, di sapori, di gente. Un’impressionante marea di gente. Ma da qualche anno la Coppa d’Autunno è anche grande e straordinaria festa di musica, con il Barcolana Festival che ieri sera (ma anche la sera prima, e la sera prima ancora...) ha riempito il superbo palcoscenico naturale di piazza dell’Unità.
Guardando il mare là in fondo, dietro quella marea umana di teste e di braccia alzate, ieri sera per il gran finale si sono alternati sul palco i Meganoidi, Neffa e i Planet Funk. Apertura con la musica ska della band genovese partita dai centri sociali, uscita dall’ambito locale grazie all’invio di un video autoprodotto a Mtv («Supereroi vs Municipale», loro primo, insuperato hit), rampa di lancio per le 45 mila copie vendute del disco d’esordio «Into the darkness, into the moda».
Avrebbero potuto continuare a battere su quello stesso tasto, cercando di azzeccare un nuovo (analogo) successo. Nel nuovo disco «Outside the loop, stupendo sensation», presentato ieri sera a Trieste, hanno invece preferito proseguire una personale ricerca musicale, che li sta portando a privilegiare suoni e atmosfere più marcatamente rock. «È stata una maturazione naturale - spiegano i Meganoidi - il primo disco è uscito nel 2001 (l’anno in cui avevano già partecipato al Barcolana Festival - ndr), ma quei brani erano più vecchi. Oggi siamo cresciuti. E non solo per la carta d’identità...».
Anche Neffa, che è salito sul palco dopo il gruppo genovese, era in piazza Unità due anni fa. Allora il suo hit dell’estate, che l’aveva fatto scoprire dal grande pubblico, s’intitolava «La mia signorina». Quest’anno analogo successo è toccato a «Prima di andare via», premiata un mese fa al Festivalbar come canzone più trasmessa dalle radio. Ieri sera Giovanni Pellino (questo il suo vero nome) ha aperto col vecchio successo e ha chiuso con quello nuovo. In mezzo non ha trascurato le cose nuove comprese nell’album appena uscito «I molteplici mondi di Giovanni, il cantante Neffa» («Lady») e quelle del disco «Arrivi e partenze» («Sano e salvo»).
«I singoli di successo - ammette Neffa, classe ’67, nato a Napoli e vissuto finora in varie città, prima di approdare a Roma - sono croce e delizia. La gente ti dice: ho sentito il tuo disco, ma si riferisce sempre al singolo, anzi, spesso ti identifica col singolo. Che rappresenta un collante, una sorta di chiave di accesso che a volte funziona, altre no. Solo alcuni, infatti, non si fermano al brano di successo e vanno più in profondità, ad ascoltare il resto della tua produzione».
«I molteplici mondi a cui si riferisce il titolo del cd - prosegue Neffa, che nel disco ha collaborato con tre musicisti triestini: Al Castellana (ospite ieri sera in un brano), Fabio Valdemarin e Paolo Muscovi - sono ovviamente mondi musicali. Il mio passato rap, coi Messaggeri del Dopa, è un capitolo chiuso. Ora mi sento libero di spaziare fra soul, funky, reggae, canzone, suoni brasiliani, il tutto amalgamato dalla matrice blues che sento maggiormente. Musicalmente mi sento anarchico, faccio quello che mi viene. E se mi viene un brano che fa anche ballare, sono più contento...».
E dopo Neffa e i fuochi d’artificio, saltato l’annunciato set del dj-performer Claudio Coccoluto, ieri sera il compito di concludere il festival è toccato ai Planet Funk. Due napoletani attivi da dieci anni come produttori di dance (con la sigla «Souled Out») incontrano nel ’99 a Londra due fiorentini (i Kamasutra). Nasce un progetto musicale nel quale vengono coinvolti vari vocalist, fra cui gli inglesi Dan Black e Sally Doherty. Segue il grande successo - anche europeo - dell’album «Non zero sumness» e di singoli come «Chase the sun», «The switch», «Inside all the people»...
«Non siamo una band - spiegano - siamo un collettivo musicale eclettico, convinti che l’elettronica sia all’origine delle innovazioni più importanti. A noi piace la dance, ma anche il jazz, il soul, il funk, l’house... Ci interessa sperimentare, contaminare i suoni, creare un crocevia musicale». Un crocevia vitalissimo, un tappeto sonoro di classe che ieri sera ha infiammato la marea umana di piazza dell’Unità.

ELIO E... AL BARCOLANA FESTIVAL

TRIESTE Una risata vi seppellirà, pronosticava la miglior contestazione di tanti anni fa. Elio e le Storie Tese - acclamati protagonisti ieri sera in piazza Unità della seconda serata del Barcolana Festival - sembrano figli di quella ottimistica previsione, peraltro rimasta a tutt’oggi una mera speranza. Hanno portato l’ironia e l’autoironia nel mondo della musica, serioso e spesso autoreferenziale per definizione, popolato di personaggi che si prendono troppo sul serio. Come tanti, non solo nel mondo della musica.
Gli Elii no. E ieri sera ne hanno dato l’ennesima conferma, infiammando un pubblico che conosce a memorie i loro successi vecchi e nuovi. Spettacolo pirotecnico, incentrato soprattutto sui brani del nuovo album «Cicciput» (il primo in studio dopo quattro anni, anche se nel frattempo era uscito il loro doppio live «fatto in Giappone»...), da «L’abate cruento» a «Cani e padroni di cani», ai già classici «Shpalman» e «Fossi figo».
Spettacolo che però non poteva trascurare i classici di sempre («Il vitello dai piedi di balsa», «Cara ti amo», fra i bis «Born to be Abramo»...), rifacendo i quali Elio e compagni si divertono, oltre che sparando i loro dissacranti nonsense e le loro citazioni più o meno colte, anche alternando generi musicali diversissimi con la maestria tecnica che da tempo viene loro riconosciuta. E allora sotto con marcette in stile ventennio e digressioni in salsa francese, suggestioni progressive e tentazioni metal, la lezione di Buscaglione incrociata con quella della canzone d’autore.
«Noi siamo sempre seri - tiene a precisare Elio, che ieri sera ha vestito la giubba dei lavoratori della Ferriera in segno di solidarietà alla loro lotta - diciamo cose serie e intelligenti, anche se quando vediamo un presidente del Consiglio che fa il buffone, per la verità ci viene un po’ voglia di far ridere anche noi la gente». E fin qui tutto regolare. Poi però il diavoletto dalle folte sopracciglia non sa resistere. E continua così: «Noi cantiamo per i giovani di Forza Italia perchè è giusto, in fondo sono ragazzi come tutti gli altri, sono l’anima trasgressiva del loro partito. E nessuno canta per loro. Quelli della Lega hanno Van De Sfroos, quelli di sinistra hanno tutti gli altri, e loro cosa sono?»
Già, cosa sono? Chiosa rassicurante: «La nostra è una scelta di marketing. Trattiamo temi a loro affini come le grosse automobili e le belle donne. Cose di cui la stampa non parla perchè è notoriamente in mano ai comunisti...». Discorso in effetti già sentito.
«Domenica comunque non parteciperemo alla regata - conclude Elio - perchè abbiamo degli impegni e non ci siamo preparati. Quattro anni fa eravamo in barca con Giovanni Soldini, ma ci siamo annoiati a morte perchè non c’era vento. Tu puoi stare in barca con il miglior skipper, puoi anche prepararti come avevamo fatto noi il giorno prima, ma se non c’è vento... Io mi sono persino addormentato. Comunque torneremo, statene certi, perchè abbiamo ancora in bocca il gusto del prosciutto e del vino che abbiamo gustato a bordo...».
La serata di ieri è stata aperta dagli italo-scozzesi Hormonauts, che hanno scaldato la piazza con il loro rockabilly in perfetto stile anni Cinquanta, attento però anche a influenze musicali successive. Poi belle vibrazioni reggae «made in Piemonte» con gli Africa Unite (anche per loro si è trattato di un ritorno al Barcolana Festival, dove avevano già suonato nell’edizione del ’99): Bunna e compagni hanno presentato i brani del nuovo album «Mentre fuori piove» (decimo lavoro in oltre vent’anni di carriera) e qualche classico d’impronta marleyana. Poi, il grande palco è stato tutto per Elio e i suoi compari.
Stasera è già gran finale. Alle 21 aprono le danze i Meganoidi, alle 21.45 è la volta di Neffa, fra le 22.30 e le 23 è previsto il set con il dj Claudio Coccoluto, alle 23 salgono sul palco i Planet Funk. A mezzanotte - per contratto - bisogna chiudere. Domani mattina va in scena la più affollata regata del mondo, bisogna svegliarsi presto...

LE VIBRAZIONI AL BARCOLANA FESTIVAL

TRIESTE Una volta si diceva «good vibrations», per gli amici «good vibes», in italiano «buone vibrazioni». Roba vecchia, che non è più di moda, roba di quando la musica aveva un’anima, sgorgava spontaneamente, veicolava idee, abitava i luoghi e le persone. Non era di plastica, insomma, non era costruita a tavolino pensando soltanto ai numeri.
Roba vecchia che a volte per fortuna ritorna, verrebbe da dire ascoltando suonare Le Vibrazioni, il gruppo milanese rivelazione dell’anno al «Festivalbar», esploso prima con il singolo «Dedicato a te», poi con l’album d’esordio e con il secondo singolo «In una notte d’estate» (il terzo singolo, «Vieni da me», è da oggi nelle radio).
Ieri sera, in piazza Unità, erano loro il pezzo forte della prima serata del «Barcolana Festival». Ma sul palco, poco prima delle 22 è salita anche la protesta dei lavoratori della Feriera, che hanno esposto uno striscione e hanno chiesto la solidarietà del pubblico alla loro lotta. Tornnado alla musica, le «Vibrazioni», non hanno deluso le aspettative, presentando quasi interamente il loro - finora unico - album. Da «Sani pensieri» a «In una notte d’estate», da «Il cantico delle pene» a «Electrip music», fino a (ovviamente) «Dedicato a te» ma anche a un brano scoppiettante come «Su un altro pianeta», con tanto di jam session, presentazione del gruppo, baci abbracci e arrivederci alla prossima.
Un buon pop-rock, ben suonato e ben cantato, quello proposto dal gruppo milanese (il più vecchio, Stefano Verdieri, chitarra e tastiere, è del ’74; il più giovane, il bassista Marco «Garrincha» Castellani, con origini triestine - anzi, di Prosecco - per parte di madre, è del ’78), che non fa mistero di pescare nella lezione dei gruppi italiani e inglesi a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta.
«Io sono figlio unico - spiega il cantante e autore dei brani Francesco Sarcina, ventisette anni fra pochi giorni, dunque classe ’76 come il batterista Alessandro Deidda - a casa mia si ascoltavano Beatles, Santana, Presley, Pink Floyd, ma anche Mina e Battisti. Musica che ascoltava pure mia madre quando era incinta di me, e io credo alla teoria secondo la quale il feto è influenzato dalla musica che ascolta in attesa di nascere... Ma a parte questo, per me la svolta musicale è avvenuta grazie a mio padre: quando ho cominciato a sentire i Duran Duran, gli Europe e vari gruppi pop e rock degli anni Ottanta, è stato lui a spiegarmi che tutti quegli artisti prendevano dal passato dal decennio precedente».
«Le Vibrazioni - prosegue Sarcina - sono nate a Milano nella primavera del ’99. Come tutti abbiamo cominciato con le cover, poi siamo passati a una produzione originale, ma quando andavamo a suonare nei locali ci chiedevano solo le prime. Noi zitti zitti, un po’ alla volta, abbiamo cominciato a inserire i nostri brani. E il pubblico ascoltava e gradiva lo stesso. Nove mesi fa comunque eravamo ancora in cantina, nella cantina che fra l’altro usiamo ancora per le prove. A febbraio è uscito il primo singolo, dopo due settimane era già nella top ten, a marzo era primo in classifica, dove è rimasto per tre mesi...».
«In effetti tutto è successo in così poco tempo - riflette il cantante - che non ci sembra vero. Sembra una frase fatta ma è così. Eppure sono vicinissimi i tempi in cui facevamo il giro delle case discografiche senza trovare nessuno che ci desse retta. Solo una persona ci ha ascoltato e capito, Demetrio Sartorio, che infatti adesso lavora con noi. Il fatto è che molti discografici non ne capiscono di musica, loro sono soltanto dei venditori di dischi. E spesso non riescono nemmeno a farlo».
«Il video di Elio e le Storie Tese? Beh, quando Elio ci ha chiesto se ci poteva fare il verso nel loro clip - conclude Sarcina - ci siamo fatti innanzitutto una bella risata. Poi ne siamo stati felicissimi, convinti come siamo della forza dell’autoironia e della necessità di non prendersi mai troppo sul serio. Se dureremo come gruppo? Lo spero. Di certo io non sarò il Cesare Cremonini delle Vibrazioni. Non mollo la baracca per fare il solista. Credo nella forza del collettivo. E poi in quattro ci si diverte molto ma molto di più...».
Ieri la prima serata del Barcolana Festival è stata aperta dal cantautore pordenonese Marco Anzovino (già finalista al Premio Recanati 2002, apprezzato e «raccomandato» da Gino Paoli, primo album in arrivo a dicembre), dagli sloveni Elevators (frizzante quintetto guidato dalla superba flautista Tina Blazinsek) e dagli austriaci Hardbladers (da almeno dieci anni molto popolari anche in Germania). Un tris all’insegna dell’area geografica e musicale di Alpe Adria.
Stasera seconda tranche del festival. Aprono gli Hormonauts, proseguono gli Africa Unite, concludono Elio e le Storie Tese. Buon divertimento.

venerdì 10 ottobre 2003

...intanto, saddam hussein e bin laden e gli altri "nemici dell'occidente" godono di ottima salute...
...morti ogni giorno: ci voleva un genio lungimirante come bush giovane per infilarsi, quarant'anni dopo, in un altro vietnam...

giovedì 9 ottobre 2003

...non ci posso credere... (titolo del manifesto dopo proposta fini di dare il voto agli immigrati)
...cos'è la destra? cos'è la sinistra...? (giorgiogaber)

sabato 4 ottobre 2003

...lui: letame davanti a casa di berlusconi...
...lei: può approfittarne per cominciare a fare il rimpasto...
(ellekappa - repubblica)
...i culi cambiano, le lingue restano. e sono sempre quelle...

martedì 23 settembre 2003

...l'isoladeifamosi: sembra di stare in un condominio di sfigati... (normarangeri, ilmanifesto)

domenica 21 settembre 2003

...perchè gli assassini di aldomoro sono tutti più o meno liberi (di più: scrivono libri da cui vengono tratti film sulla vicenda), mentre adriano sofri, che potrà anche essere antipatico a qualcuno, ma non ha mai ucciso nessuno, se ne sta da anni in galera...?

venerdì 19 settembre 2003

SANREMO

Il giocattolo Sanremo rischia di andare definitivamente in frantumi, proprio come quello del calcio. Ma che ne direste se i cervelloni che governano il pallone, per uscire dal caos da loro stessi originato, se ne venissero fuori con una proposta così congegnata: quest’anno niente scudetto in serie A, si lotta per davvero solo in B, ma per nobilitare il tutto chiamiamo a far delle comparsate un po’ di campioni internazionali... Direste che sono tutti matti, che vogliono lanciare il basket o la pallavolo, piuttosto che tutelare gli interessi dei loro campionati. Per Sanremo è lo stesso.
Comunque la si rigiri, questa storia dell’edizione 2004, fa acqua da tutte le parti. E puzza. Puzza parecchio. Tony Renis (per il quale si può parafrasare un vecchio detto: essere amici di Berlusconi non dà la felicità, ma aiuta...) richiamato dai successi americani del suo passato prossimo, per riportarlo da direttore artistico nei luoghi dei suoi esordi sanremesi di quarant’anni fa. Il direttore di Raiuno Fabrizio Del Noce che parte da un dato di fatto incontestabile (i veri big non vanno da anni a Sanremo), per elaborare una gaffe offensiva per tutti quelli che al Festival ci vanno (la gara fra big non c’è più già da tanti anni, perchè non ci sono i big). La Fimi che a nome delle grandi case discografiche da mesi annuncia di voler disertare l’edizione di quest’anno, salvo poi far capire di essere pronta a fare retromarcia «dietro pagamento delle spese arretrate dell’anno scorso».
Si potrebbe continuare a lungo, anche perchè per Sanremo vale la vecchia regola «purchè se ne parli». Parliamone e scriviamone, allora, da qui fino a marzo, quando in una maniera o nell’altra, con Renis e con Bonolis o con chi faranno uscire dal cilindro, la kermesse avrà inizio. Le due novità positive finora annunciate (contenimento degli orari rispetto alle maratone baudiane e soppressione del terrificante Dopofestival) non bastano a cancellare un’impressione: qualcuno, dopo oltre mezzo secolo, vuole rompere definitivamente il giocattolo. Magari per farcene comprare uno nuovo...

martedì 16 settembre 2003

...forse perchè milanista (scherzo...), non riesco ad avercela con berlusconi: lui fa perfettamente il suo lavoro, ovvero perseguire gli interessi suoi e della sua cricca. ce l'ho invece - questo sì - con chi l'ha votato, pensando di ricavare qualche tornaconto dalle sue mirabolanti promesse elettorali...
...volevamo far diventare ricchi i poveri, e non poveri i ricchi... (rossanarossanda)

mercoledì 3 settembre 2003

...chi va al centro D'Alema anche te, digli di smettere... (matteomoder - barbieredellasera)

...la storia si ripete sempre due volte: la prima in forma di tragedia, la seconda in farsa... (carlomarx)

martedì 2 settembre 2003

TRIESTE RICORDA LUCIO BATTISTI

Cinque anni fa moriva Lucio Battisti. E fra le città che ricordano con affetto l’artista - che nel marzo scorso avrebbe compiuto sessant’anni - c’è ancora una volta Trieste, che sta allestendo la quinta edizione di «Dedicato a Lucio Battisti».
Per la seconda volta in piazza Unità (dopo le prime tre edizioni svoltesi a Muggia, in piazza Marconi), la manifestazione proporrà lunedì 8 settembre la serata «Trieste canta Battisti» (con All-Jazz-Era, Elisa Colummi, Forever, Maria Vittoria Pradal, Naima, Quark, Special Plate...) e martedì 9 - giorno dell’anniversario del lutto - il concerto dei Dik Dik. Inizio alle 21, ingresso libero. Appendice: una sezione «battistiana» del Mercatino del disco che si terrà domenica 14 settembre alla Stazione Marittima.
Ma sono tante le iniziative per ricordare il geniale cantante e autore scomparso. Il 6 e 7 settembre, a Molteno, il paese in Brianza dove viveva Battisti, si terrà la terza edizione del concorso «Un’avventura - Premio per la canzone d’autore». Ed è in uscita il disco «Sinceramente non tuo - Le canzoni di Lucio Battisti e Pasquale Panella», dedicato al meglio della seconda produzione dell’artista, quella senza Mogol, per intenderci. Dal disco verrà tratto anche uno spettacolo teatrale.
È anche appena arrivato in libreria «Battisti. Così è nato un sogno», in cui Roby Matano (leader dei Campioni, primissimo gruppo di Battisti) racconta i primi passi del grande Lucio nel mondo della musica italiana del ’63 e dintorni. Mentre i fan vecchi e nuovi vivono nella speranza che prima o poi sbuchi fuori il fantomatico album di inediti, o che Vasco Rossi realizzi finalmente il suo vecchio progetto di cover battistiane, o che sia almeno vera la voce secondo cui il figlio di Battisti, Luca, avrebbe consegnato alla Bmg un provino con sue canzoni in inglese nelle quali non è difficile rintracciare l’imprinting paterno.
Ma sono soltanto voci. Di vero, per ora, c’è che - perdurando il silenzio con i media della vedova e del figlio - ha deciso di parlare e dire la sua Alfiero Battisti, novant’anni, padre di Lucio. Intervistato da «TV Sorrisi e Canzoni» nel numero oggi in edicola, l’anziano genitore ha detto: «Certo, mi fa piacere che Lucio venga ricordato, però gli anniversari mi rinnovano il dolore. Tre mesi fa è morta anche l'altra mia figlia, Albarita, e ho il cuore spezzato».
«Mio nipote Luca - spiega Alfiero Battisti, che vive ancora a Poggio Bustone, in provincia di Rieti, dove Lucio era nato nel ’43 - dopo la morte di suo padre non l'ho sentito più. So che studiava a Londra, poi non ho saputo più niente. Se non vuole sentirmi, avrà qualche motivo. Se voglio dirgli qualcosa? È inutile: non mi risponderebbe, lui e sua madre non si sono mai fatti sentire...».
Dall’intervista si apprende un particolare inedito sugli ultimi anni di Battisti: aveva ripreso a studiare e si stava laureando. «Stava per discutere la tesi in Matematica - ricorda il padre - ma purtroppo non ha fatto in tempo...». Ancora il genitore: «Lucio mi manca? Tutti i figli mancano, non solo il mio perchè era Lucio Battisti. Della malattia di Albarita, Lucio a me non ha mai detto niente. Certo nessuno pensava che andasse a finire così, ma forse è una questione genetica. Mio fratello è morto a 54 anni della stessa malattia, una rara forma di tumore, e anche Albarita e mia moglie».
Un altro particolare inedito: «Non è vero - rivela il padre - che Lucio aveva chiuso definitivamente con gli spettacoli. Ne faceva uno che non ha mai saputo nessuno: una volta al mese, cantava per i bambini down di un istituto di Milano».
...racconto la storia di una generazione per cui avere vent'anni volle dire svegliarsi una mattina con la certezza di possedere il futuro... (b bertolucci)

sabato 30 agosto 2003

...un bel partito unico dell'ulivo è un'ottima idea, così uno non va a votare senza neanche provare quel piccolo ma fastidioso senso di colpa... (jena-manifesto)
...nulla si crea, tutto si ricicla...

venerdì 29 agosto 2003

...ditele che l'ho perduta quando l'ho capita, ditele che la perdono per averla tradita... (fdegregori)
...rubatele pure i soldi, rubatele pure i ricordi, ma lasciatele per sempre la sua dolce curiosità... (fdegregori)
...e così pensava l'uomo di passaggio mentre volava alto nel cielo di napoli... (fdegregori)
...io la conobbi un giorno e imparai il suo nome, ma mi portò lontano il vizio dell'amore... (fdegregori)

BRITTI AL TEATRO ROMANO

TRIESTE Il successo somiglia al potere: spesso rovina le persone, le trasforma, rendendole peggiori di com’erano «prima». Alex Britti - il cui tour ha fatto tappa l’altra sera a Trieste, al Teatro Romano - per ora ha evitato questo destino. Sarà che il successo, nel suo caso, non si è ancora presentato in dosi letali: un paio di affermazioni a Sanremo (primo fra i giovani nel ’99, secondo quest’anno fra i big), qualche disco in classifica, tre o quattro canzoni di quelle che la gente ricorda.
O sarà forse che il cantautore e bluesman romano è giunto al sospirato appuntamento dopo aver passato i trent’anni (ne ha compiuti trentacinque la settimana scorsa), dunque sufficientemente rodato da anni di gavetta. Trascorsi suonando la chitarra - da par suo - all’ombra di mostri sacri come Buddy Miles e Billy Preston, Ray Charles e Joe Cocker... Fatto sta che a vederlo e sentirlo, anche quando si perde un po’ presentando i brani, odora ancora di genuinità e onestà, doti sempre più rare fra i suoi colleghi. E la scelta di girare quest’estate in tour da solo, «Voce kitarra e piede», come recita il titolo dei concerti, accentua quest’impressione.
L’altra sera, nella «bomboniera» del Teatro Romano, Britti ha attaccato puntualissimo, viste le nuvole che non promettevano nulla di buono. E l’ha fatto con «Gelido», che nel ’98 apriva «It.Pop», l’album del debutto. La pedaliera schierata dinanzi allo sgabello dimostra subito di essere protagonista dello show, assieme alla voce e alla chitarra del nostro: gli permette infatti di tirar fuori dalle corde della fidata acustica urli elettrici degni della miglior Fender. Un po’ più tardi (dopo «Come chiedi scusa» ancora dal primo disco, «La vita sognata» e «Sei la fine del mondo», dal recente «3»), il nostro darà anche una piccola dimostrazione delle meraviglie che si possono ottenere, anche dal vivo, con quel campionatore che sta al centro della pedaliera: per esempio registrare un breve tema ritmico con le corde basse della chitarra, poi lasciarlo proseguire, e su quel tappeto sonoro continuare a suonare...
Eccola, la differenza fra presente e passato, per un uomo solo sul palco. Ai tempi di Edoardo Bennato (idolo di Britti quand’era bambino), «one man band» significava una chitarra, un tamburello azionato col piede e un’armonica. Oggi, anche senza ricorrere a basi preregistrate, un abile strumentista - quale il riccioluto romano senz’altro è - può trasformare una chitarra in un’orchestra. Proprio come sognava «Da piccolo», altro brano della serata triestina.
Serata, come si diceva, fatta di afa («non sapevo facesse così caldo, qui al Sud...») ma anche di nuvole. E infatti dopo qualche ballata («Lo zingaro felice», «Una su 1.000.000», «Mi piaci»...) e la strumentale «3 kitarre», arriva nel momento meno opportuno lo scroscio di pioggia atteso tutta l’estate. Smette-non smette? Riprende-non riprende? Il tiraemolla e l’attesa durano mezz’oretta, poi il nostro si fa coraggio, torna in campo e - cambiata la maglietta «fracica» - cala gli ultimi, immancabili assi: «Oggi sono io» e «7000 caffè», «La vasca» e «Solo una volta». Poi ringrazia e saluta. Lasciandosi alle spalle quell’impressione positiva di cui si diceva all’inizio.

giovedì 28 agosto 2003

...lui adesso vive nel terzo raggio, dove ha imparato a non fare più domande del tipo: conoscete per caso una ragazza di roma, la cui faccia ricorda il crollo di una diga... (fdegregori)
...quando le dice tu sei quella con cui vivere, gli si forma una ruga sulla guancia sinistra... (fdegregori)
...lui adesso vive in california da sette anni, sotto una veranda ad aspettare le nuvole, è diventato un grosso suonatore di chitarra, e stravede per una donna chiamata lisa... (fdegregori)
...nasconde sotto il letto un barattolo di birra disperata, e a volte ritiene di essere un eroe... (fdegregori)

martedì 26 agosto 2003

...lui adesso vive ad atlantide, con un cappello pieno di ricordi, ha la faccia di uno che ha capito, e anche un principio di tristezza in fondo all'anima... (fdegregori)

INTERVISTA ALEX BRITTI

Prendi un bluesman cresciuto a pane e chitarra, fallo passare per
quel mattatoio che è il Festival di Sanremo, e poi consegnalo (innocente)
alle attenzioni della miglior stampa scandalistica di casa nostra. Attirata
come il miele dal fatto che lui, per l’anagrafe Alex Britti, trentacinque
anni, romano, da un po’ di tempo «si frequenta» con quel fiorellino di Luisa
Corna, presentatrice televisiva ma anche cantante lei stessa.
«Io non amo la mondanità - si sfoga Britti, il cui tour fa tappa giovedì 28
agosto a Trieste, al Teatro Romano - evito anche i locali alla moda, però mi
trovo questa gente sotto casa, si appostano a tutte le ore. È una cosa
impossibile. Non ce l’ho con i paparazzi, mi rendo conto che lo fanno per
guadagnare, perchè è il loro lavoro. Mi dà più fastidio chi legge questi
”servizi”, chi si fa sempre gli affari degli altri...».
È il prezzo della popolarità...
«Forse. Mi rendo conto che tutto è relativo, e che a Baghdad stanno
decisamente peggio. Certo, anche questo fa parte del gioco. Ma è una
situazione triste, che mi fa pena, frutto a mio avviso di sottocultura».
Parliamo di musica?
«Meglio. Questo tour sta andando benissimo. E contrariamente a quel che si
può pensare è meno faticoso di uno ”normale”, con la band e tutto il resto.
Il fatto di esibirmi da solo, ”Kitarra, voce e piede”, come da titolo dello
spettacolo, mi aiuta molto. È più facile anche tecnicamente...».
Già in fuga dal carrozzone pop?
«Beh sì, anche il palco, quando sei da solo, è più facile da gestire.
Eventuali modifiche alle scalette dei brani possono essere fatte con più
facilità. E il rapporto col pubblico che hai davanti è più diretto...».
Retaggi dei trascorsi blues?
«Forse. Il blues è una grande scuola musicale, che si fa da ragazzini, poi
si deve crescere...».
...con le canzoni?
«Io le canzoni le ho sempre scritte. Anche quando suonavo in giro per
l’Italia e per l’Europa con piccoli gruppi e accompagnando i grandi del
blues. Il fatto è che con il blues riuscivo a pagare le bollette, con le mie
canzoni no. Quello del blues è un grande mercato commerciale, fatto di
locali, rassegne, festival, dove è possibile suonare. In giro è pieno di
cover band».
Poi, a un certo punto, le bollette non sono state più un problema. Ma grazie
alle canzoni...
«La svolta è stato trovare un discografico che mi ha dato fiducia, e
scoprire che al pubblico queste mie canzoni piacevano. E per fortuna: a
diciotto anni va bene suonare la musica altrui, a trenta molto meno...».
Blues e canzoni: come convivono queste due anime?
«Il blues rimane la mia grande passione. e poi non è vero che sono due
anime. È un’anima sola: il mio cuore, il mio gusto. Quando da ragazzo
ascoltavo i grandi del blues e quelli della canzone d’autore non facevo
differenza. Anzi, facevo differenza solo fra quel che mi piaceva e quel che
non mi piaceva».
La chitarra è stato il collante fra queste due passioni...
«Sì, avevo otto anni quando ho cominciato a suonicchiarla. Io non sono mai
andato a scuola di musica, non ho mai preso lezioni in senso tradizionale, e
infatti tuttora non scrivo e non leggo la musica».
Il classico autodidatta...
«Già. Grazie a un disco: ”Burattino senza fili”, di Edoardo Bennato. Era il
’77, io ero un bambino, la storia del gatto e la volpe, tutto il resto...
Insomma, ne rimasi affascinato. E cominciai a strimpellare quelle
canzoni...».
Anche Bennato un tempo suonava in versione «one man band»...
«Sì, questo mio tour da solo può essere letto come un piccolo omaggio al
mito dei miei nove anni. Gliel’ho detto, quando l’ho conosciuto. È una bella
persona, in privato anche migliore di come appare in pubblico».
Torniamo alle origini.
«Abitavo nel quartiere di Monteverde vecchio, a Roma. I miei mi avevano
regalato una piccola chitarra Eko, quelle per bambini. I primi accordi me li
insegnò un prete. Poi mi arrangiai da solo. I pomeriggi li passavo sulle
gradinate della chiesa, con altri ragazzini, a suonare Bennato, ma anche De
Gregori, Guccini, Ivan Graziani... La chitarra è uno strumento
socializzante, ma ti accompagna anche nella solitudine. Anche adesso, certe
volte mi piace andare di sera, vicino al mare, a suonare da solo...».
Domanda d’obbligo: il chitarrista preferito?
«Paco De Lucia, perchè l’ho visto suonare dal vivo e trasmette un’ondata di
emozioni. Ma forse solo perchè non ho fatto in tempo a vedere dal vivo Jimi
Hendrix...».
Sanremo?
«Soltanto televisione. Quando esce un disco devi fare promozione, dunque
devi andare in tivù, cosa che io non amo particolarmente. Ma fa parte del
lavoro. Certo, mia madre è contenta quando mi vede lì, ma Sanremo non fa
parte della mia cultura: io mi sono cresciuto piuttosto con Montreaux, o con
il Pistoia Blues Festival...».
Insomma, torniamo sempre al blues...
«L’ho detto: è la mia passione. Il blues non è solo tre accordi, ma è
trasmettere qualcosa di allegro e trascinante. Anche parlando di cose
serie».