TRIESTE Scelta coraggiosa, quella di cantare la pace, con la sola forza della musica, delle parole e dei suoni, mentre i padroni del mondo adottano la guerra come strumento per (tentare di) dirimere le questioni. Scelta ancor più coraggiosa e significativa quando arriva da una cantante come Noa, che ieri sera ha tenuto un emozionante e vibrante recital alla Sala Tripcovich, nell’ambito della manifestazione «Itinerari ebraici».
La cantante israeliana (vero nome Achinoam Nini, nata a Tel Aviv, genitori di origini yemenite, cresciuta a New York e poi tornata adolescente nella sua città) vive infatti ogni giorno sulla sua pelle la situazione drammatica del Medio Oriente. Vede due popoli che vivono sulla stessa terra affidare il proprio presente, il proprio futuro alla violenza e non al dialogo, alle armi e non alla pacifica e necessaria convivenza. Protesta nell’unica maniera che conosce, e affida al proprio canto, alla splendida voce, ai suoni che denunciano influenze culturali sia occidentali che orientali, la sua grande speranza di pace.
A Trieste Noa (che in ebraico significa «sorella di pace») si è presentata in versione acustica, con il fido Gil Dor alle chitarre e Zohar Fresco alle percussioni. Biancovestita, apre puntualissima con «U.n.i.», canzone che stava nel suo secondo album, del ’93: una sigla che pronunciata in inglese suona come «you and I», ma rappresenta anche le prime tre lettere della parola «universe». Prosegue con «Mishaela» (da «Noa», il disco del ’94 che ha rivelato l’artista alla grande platea internazionale), «Wild flower», «I don’t know»...
Spettacolo musicalmente scarno, senza gli orpelli pop dell’ultimo tour, che ha fatto tappa a primavera anche a Udine. Spettacolo che proprio per la sua essenzialità permette alla voce di Noa di librarsi alta, forte e al tempo stesso dolce. Una voce che sembra in grado di diffondere gioia, speranza, persino entusiasmo. Una voce e un canto che mescolano pop-rock americano, suggestioni etniche mediorentali, venature jazz. Una voce e un canto che sanno essere - in inglese come nell’idioma ebraico - soavi e delicati, ma anche forti ed energici.
Arrivano anche i brani dell’ultimo album, intitolato «Now», fra cui una straordinaria «Look at the beauty of that» - uno dei brani in cui lei stessa si scatena alle percussioni - e le due cover del disco: una rarefatta e magica «Eye in the sky» di Alan Parsons e la beatlesiana «We can work it out» (nel disco in duetto con la cantante palestinese Mira Awad). E alla fine, fra i bis, non può mancare «Beautiful that way», tema scritto da Nicola Piovani della colonna sonora del premiatissimo film di Benigni «la vita è bella». Ma non manca neanche l’omaggio all’Italia, e a Napoli, considerata soprattutto all’estero la patria della canzone italiana, con «Partono ’e bastimente» («...pe’ terre assai luntane...»). E dopo un messaggio di pace letto in italiano c’è posto persino per un inedito: quella «Shalom shalom» che riassume con la sua invocazione di pace, la pace che parla il linguaggio universale della musica, il senso del concerto e forse dell’intera produzione artistica della cantante.
«Cantare la pace mentre il mondo si fa la guerra - spiega Noa, per cui quello di ieri sera è stato il primo concerto a Trieste, dov’era però già passata velocemente in occasione delle sue varie partecipazioni a Folkest - è per me un sfida importante. Credo nella pace, credo nella pacifica convivenza fra i popoli, e sapere che ogni giorno c’è gente che muore o rischia di morire in Medio Oriente mi dà una forza ancora maggiore per continuare sulla mia strada».
«Certo, la difesa di questi valori, a cui continuo a credere profondamente, non è facile nella realtà angosciante con cui siamo costretti quotidianamente a confrontarci. Ma l'unica possibilità per resistere, per non arrendersi al peggio, sta proprio nella comunicazione. Continuo a credere nel dialogo e mi adopero come posso per stimolarlo e per sviluppare rapporti d'amicizia. Dev’essere un impegno per andare avanti, per sopravvivere, altrimenti tutto sembrerebbe troppo deprimente. Per me continuare a cantare, a fare musica, significa anche non arrendersi a una logica di morte».
Una scelta, quella di Noa, maturata pian piano. «I miei genitori - racconta la cantante - israeliani di nascita e yemeniti di origine, si trasferirono negli Stati Uniti quando io avevo appena un anno. Ho vissuto fino ai diciassette anni a New York, nel Bronx, dove ho studiato e fatto le mie prime esperienze musicali e artistiche. Ma un giorno è arrivato, con una crisi di identità, il richiamo della mia terra, che mi ha spinto a tornare in Israele. Lì, a Tel Aviv, ho proseguito gli studi, ho prestato il servizio militare e in una scuola di jazz e musica classica ho completato la mia formazione, cominciata a New York».
Rimane la consapevolezza di essere cresciuta immersa in ambedue le culture, quella americana e quella orientale. «I miei nonni provengono dallo Yemen, i miei genitori sono israeliani, e sono cresciuta in America parlando inglese. Dunque non mi sono mai posta il problema di scoprire una cultura rispetto a un’altra, perché le ho sempre vissute come parte integrante della mia vita».
Ieri sera, alla Tripcovich, trionfo di pubblico per la cantante dai grandi occhi scuri e dai lunghi capelli ricci. Vederla in concerto al di fuori di un tour è stata un’occasione unica, resa possibile dal consolidato rapporto di amicizia fra l’artista e gli organizzatori di Folkest. Stamattina Noa parte per Roma, dove giovedì nel corso di una cerimonia verrà nominata ambasciatrice della Fao per la pace nel mondo.
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