martedì 28 ottobre 2003

INTERVISTA PAOLO ROSSI

Dice che dopo Shakespeare e Molière voleva affrontare un altro
classico. La scelta è caduta stavolta su un classico contemporaneo, la
Costituzione. Un testo importante, che come succede con i classici, tutti
sanno cos'è ma pochi conoscono davvero. E allora il suo scopo è farla
conoscere, questa Costituzione che gli attuali governanti vorrebbero invece
cambiare.
Paolo Rossi è da qualche giorno a Trieste, nella città da cui mancava da
sette anni (l’ultima volta fu quando portò «Rabelais» al Rossetti: finì in
polemica con lo Stabile, che non a caso non l’ha più chiamato...). Nella
città a un tiro di schioppo dalla Monfalcone dove è nato nel ’53, sta
provando la ripresa autunnale, dopo un centinaio di repliche l’anno scorso,
del suo spettacolo «Il signor Rossi e la Costituzione». Sottotitolo:
«Adunata popolare di delirio organizzato».
Di che delirio organizzato si tratti, chi conosce - e ama - Paolo Rossi lo
sa. Ma l'adunata popolare? «L’articolo 17 della Costituzione - spiega
l’attore, che lunedì, martedì e mercoledì propone lo spettacolo al Teatro
Miela - decreta e tutela il diritto di riunirsi pacificamente e senz'armi.
Siccome le armi della poesia di pasoliniana memoria non sono ancora
contemplate fra le armi improprie, si è deciso di avvalersi di questa legge
per chiamare i cittadini a trovarsi in un luogo pubblico per parlare della
Costituzione. Per conoscerla prima di vederla modificata. Per discuterla.
Magari per riscriverla. Certamente per capirla, scandagliarla, renderla
fruibile».
Con Berlusconi il suo lavoro è diventato più facile o più difficile?
«Beh, in effetti a far ridere ci pensa già lui. Diciamo che lui aiuta la mia
parte di attore comico, mentre la sinistra, oltre a farmi soffrire, mi offre
numerosi spunti per il mio lavoro di attore tragico».
I politici le portano via il lavoro?
«Viviamo in una società dello spettacolo. La nostra è diventata la
democrazia della rappresentazione, non della rappresentanza. Sì, votiamo. Ma
come si vota a Sanremo, o all’Isola dei Famosi. Da noi non è il popolo a
esser sovrano, ma il pubblico. La politica dovrebbe essere un’altra cosa:
interessarsi concretamente dei problemi della comunità. E invece...».
Politica-spettacolo anche negli Stati Uniti: prima Reagan, ora
Schwarzenegger...
«Ognuno manda al potere i propri simboli. In America c’è Hollywood, il
cinema. Ed ecco Schwarzenegger. Da noi c’è il varietà, la canzone, la
commedia dell’arte... Ed ecco Berlusconi, che cantava sulle navi da
crociera».
Temi dunque universali.
«La satira è universale. Due anni fa ho portato ”Il medico per forza” di
Moliere a Cracovia, in Polonia. Tolsi i riferimenti diretti a Berlusconi. I
giornali scrissero che era chiaro: stavamo parlando di Walesa...».
E la nostra Costituzione?
«È il libro delle regole, che io affronto da un punto di vista non
ideologico, ma del buon senso. Non cerco di fare controinformazione,
analisi, critica... Mi pongo dalla parte del comune buon senso, quello che
anima le favole: quelle di Fedro, di Andersen, quelle inventate».
La gente come reagisce?
«Il mio è un happening recitato col pubblico, non per il pubblico. Ogni sera
chiedo alla gente gli argomenti di cui si vuol parlare. Improvvisazione
pura, su un canovaccio molto semplice».
Ogni sera uno spettacolo diverso...
«Sì, anche perchè la gente è disorientata, vuole capire che cosa sta
succedendo. Dunque lo spettacolo è sempre più storia, aneddoto, favola,
lazzo... Tutti strumenti che aiutano a capire che cosa sta succedendo».
I politici danno spettacolo, i teatranti fanno politica...
«Le favole, le storie aiutano a capire. Dagli albori dell’umanità il teatro
ha sempre avuto anche questa funzione. Già uscire di casa per andare a
teatro, trovarsi in mezzo alla gente, parlare, discutere, è un fatto
positivo. Sempre meglio che guardare la televisione...».
Televisione dove i comici la fanno ormai da padrone. Anche con alcuni suoi
vecchi compagni di strada...
«Sì, c’è stata anche una polemica con alcuni di loro, che prima vorrei
chiarire con i diretti interessati. Dico solo che quando il contenitore è
più forte del contenuto, la satira evapora. In televisione. A teatro no...».
A Trieste l’avevamo lasciata fra i velluti del Rossetti, la ritroviamo in
uno spazio importante ma piccolo come il Teatro Miela...
«A parte che io alterno tranquillamente centri sociali e grandi teatri,
anche in questo caso non mi interessa riaprire polemiche stupide. Torno al
Miela perchè qui sono fra amici, fra persone che stimo. E anche per dare una
testimonianza di solidarietà al prezioso lavoro che hanno fatto in questi
anni, in una città multietnica e multiculturale come Trieste, e che ora
potrebbe essere a rischio».
Qual è la «sua» Trieste?
«La città in cui a tre o quattro anni i miei genitori mi portarono per la
prima volta in piazza Unità. Mi fece impressione questa grande piazza che si
apre sul mare. Ricordo che c’erano tante navi, tante luci... La mia famiglia
è di Monfalcone, dove sono nato e ho vissuto fino ai cinque anni, la nonna
paterna era di Fiume. Poi ci trasferimmo a Ferrara, al seguito di mio padre
che lavorava alla Solvay, e quando avevo sedici anni a Milano. Ma da ragazzo
tornavamo qui, oltre che tutte le estati, altre tre o quattro volte
all’anno. Andavo al mare a Sistiana, a Castelreggio. E giocavo a pallone,
regolarmente tesserato, in due squadre: una a Ferrara, una a Monfalcone. Ma
non c’era conflitto d’interessi...».
A settembre lei era a Cancun, in Messico...
«Sì, ho voluto partecipare alla manifestazione del forum sociale per
contestare il Wto. È stata un’esperienza forte, che mi ha colpito. Io sul
palcoscenico dò l’impressione di essere uno tosto. Ma davanti all’esercito
messicano, tipo film di Sergio Leone, ho avuto anche momenti di paura...».
E oltre alla paura?
«Davanti agli accampamenti dei campesinos, vedendo da vicino problemi reali
come quelli legati all’acqua, alla terra, alla fame vera, beh, è chiaro che
i nostri problemi di italiani e di occidentali si ridimensionano fortemente.
La delegazione italiana ai lavori parlava del prosciutto: poi è chiaro che
gli altri, davanti a noi, spesso si mettono a ridere...».

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