domenica 25 novembre 2007

Si va verso Natale e sembra che la discografia guardi soltanto al passato, al già sentito: antologie, raccolte, cofanetti doppi e tripli, cd e dvd... Quest’anno più ancora che in passato, a dimostrazione di una tendenza a raschiare il fondo del barile ormai radicata e che non sembra avere fine. Pochi si sottraggono all’andazzo generale. Alcune pubblicazioni hanno l’unico pregio di raccogliere in un unica raccolta il meglio di un artista, con l’aggiunta magari di un paio di inediti. Altre vanno a cercare e propongono anche la rarità, il tassello che mancava in una storia conosciuta. Ma prima di arrenderci all’andazzo, e segnalare anche in questa pagina alcuni cofanetti degni di nota, spazio a tre artisti che invece sono appena usciti con materiale inedito...


Con «Songs in A minor» (2001) e «The diary of Alicia Keys» (2003), l’ex ragazzina cresciuta in uno dei quartieri più poveri di New York, Hell's Kitchen, ha venduto qualcosa come trenta milioni di dischi in pochi anni. «As I am» (SonyBmg) è il suo terzo album in studio (due anni fa è uscito un «Unplugged») e la conferma regina incontrastata del new soul, stante l’inaffidabilità della pur fascinosa Amy Winehouse.

Alicia Keys - vero nome Alicia Augello Cook, madre di origini italiane, 28 anni a gennaio - spazia fra soul e jazz, sforna ballad appassionate, citando atmosfere anni Settanta e lasciandosi andare a qualche puntata nell'hip hop e persino nella musica classica. «No one», primo singolo del disco, sembra un inno alla felicità e alla pace. Altri brani da segnalare «The thing about love» (anticipata al Live Earth dell’estate scorsa), «Sure looks good to me» e «Superwoman».

Da New York a Roma, restando fra grandi voci femminili, per parlare del nuovo disco di Giorgia, intitolato «Stonata» (SonyBmg). Che poi se c’è una cantante italiana che sembra dotata dell’orecchio assoluto, e dunque è tutto fuorchè stonata, questa è proprio la trentaseienne Giorgia Todrani. Dai trionfi sanremesi ormai sono passati più di dieci anni, e non sempre la ragazza ha saputo mettere a frutto le sue indubbie e grandi doti vocali.

Ce la fa forse proprio con questo disco, che arriva a quattro anni dal precedente (e incerto) «Ladra di vento». Una manciata di inediti, aperti da «Parlo con te» (che è anche il primo singolo del disco), e fra cui spiccano la partecipazione quasi rap di Beppe Grillo a «Libera la mente» e soprattutto il duetto (a distanza: ognuna nel suo studio di registrazione...) con Mina in «Poche parole». E c’è anche la chitarra del vecchio amico Pino Daniele in «Anime sole».

Finale con un maschietto, anzi, con l’ultimo orgoglioso maschietto della canzone italiana. Il professor Roberto Vecchioni lascia finalmente perdere Malindi e gli altri riempitivi che ci ha proposto quando l’ispirazione non era evidentemente al massimo, per tornare a quel che sa fare: cantare la vita e l’amore senza dimenticare le frequentazioni letterarie. «Di rabbia e di stelle» (Universal) è il suo nuovo album: tredici canzoni che nascono dal rifiuto della realtà circostante. «Non ne posso più delle mediocrità, delle vallette, di certi mass media, di dibattiti inutili», dice Vecchioni. Vecchia voce, nuove melodie, la magia di sempre. Fra i brani brillano «Non lasciarmi andare via», «Amico mio» e «Comici spaventati guerrieri».


LUCIO BATTISTI «Devo la mia fortuna all’aver creduto in un pazzo, mi disse un giorno Lucio. E quel pazzo ero io...». Parole di Mogol. E Lucio è ovviamente Battisti, la cui prematura scomparsa, il 9 settembre del ’98, ha reso immortale il suo mito. Il mito del massimo artista pop della musica italiana, che torna nel cofanetto «Battisti-Mogol. Il nostro canto libero» (SonyBmg).

Due cd e un dvd (con un’intervista a Mogol da cui la frase citata...) che vanno a pescare in un repertorio già consegnato alla storia della nostra canzone. Nei cd ci sono trenta canzoni, praticamente il meglio della sua produzione dal ’69 all’80: da «29 settembre» e «Un'avventura», fino a «Una giornata uggiosa». Con in coda due inediti. Il primo è «Perché dovrei», malinconico rhythm’n’blues scritto nel ’70 e destinato inizialmente al debutto della cantante Sara, che poi esordì invece con un altro brano della coppia, «Uomini». Si pensava che Battisti lo non avesse mai registrato, poi è sbucato questo provino abbastanza spartano, con il giro del basso in primo piano a sostenere la struttura del brano. L’altro inedito, «Il mio bambino», era stato cantato da Iva Zanicchi nell’album «Fantasia» del ’72. Entrambi i brani hanno un valore perlopiù documentale.

Il dvd è il primo di Battisti e attinge a piene mani dalla celebre puntata di «Speciale per voi» di Renzo Arbore (1970), con un Battisti polemico nei confronti del pubblico in sala, che sforna quattro capolavori come «Per una lira», «Io vivrò (senza te)», «Il tempo di morire» e «Fiori rosa fiori di pesco». Da altri programmi dell’epoca sono tratte «Pensieri e parole», «I giardini di marzo», «Anna», «Balla Linda», «Non è Francesca»...

Da segnalare, tra i contenuti extra, una «Proud Mary» dei Creedence Clearwater Revival cantata da Battisti con gli amici dell’epoca: Flora Fauna e Cemento (con Mario Lavezzi), Formula 3, Dik Dik, Adriano Pappalardo, Bruno Lauzi, un esordiente Edoardo Bennato all'armonica...


LED ZEPPELIN Loro «sono» il rock degli anni Settanta. Come sanno bene quelli che erano ragazzi allora. E in attesa della storica reunion, attesa per il 10 dicembre a Londra, esce questa raccolta con 24 brani degli anni fra il ’68 e l’80. Nella versione deluxe c’è anche un dvd con diciannove tracce video. I classici ci sono tutti: da «Heartbreaker» a «Stairway to heaven», fino a «Immigrant song». E risentirli rimasterizzati aiuta a comprendere la grandezza della band. Di cui è stata appena pubblicata anche la versione restaurata di «The song remains the same», ovvero tre serate al Madison Square Garden di New York nel ’73, con l’aggiunta di sei brani che non stavano nell’originale. Sì, è l’anno dei Led Zeppelin...


RINO GAETANO Complice la fiction recentemente trasmessa dalla Rai, il grande pubblico sta riscoprendo Rino Gaetano, scomparso a trentuno anni in un incidente stradale nel 1981. Questa nuova edizione del cofanetto (trenta canzoni, foto, interviste...), a pochi mesi da quella curata dalla giornalista Maria Laura Giulietti, nasce dopo il ritrovamento di quattro inediti. Il primo è «Sandro trasportando», scritto da Rino ed Eugenio Gandaleta, vecchio 45 giri oggi introvabile. Altre due canzoni sono invece interpretate dal cantautore nato a Crotone e da Anna Oxa: «Ad esempio a me piace il sud» e una personale versione de «Il leone e la gallina» di Lucio Battisti. Video inedito di «Mio fratello è figlio unico» voce e chitarra.

giovedì 22 novembre 2007

di Carlo Muscatello


TRIESTE Un paio di settimane fa abbiamo incrociato Vittorio De Scalzi all’aeroporto romano di Fiumicino. Era diretto, assieme a Nico De Palo e agli altri New Trolls, a Bari per un concerto. E non aveva dimenticato la bella serata triestina dell’agosto scorso, in piazza Unità.

«È stata veramente una grande emozione - ci ha detto in quell’occasione il musicista - riunire dopo tanti anni il gruppo in una piazza così piena di fascino. Siamo anche molto soddisfatti dei suoni e delle immagini che abbiamo registrato in quell’occasione, noi e  l’Orchestra San Marco di Pordenone diretta da Stefano Cabrera, con ospite il soprano Barbara Vignudelli».

«Come preannunciato - confermò quella volta De Scalzi - da quella serata triestina verrà fuori un cofanetto, completo di dvd, che è molto atteso dai nostri fan giapponesi. Siamo stati recentemente in Estremo Oriente, e non ci crederete, ma laggiù i New Trolls, soprattutto fra i giovanissimi, sono più popolari che in Italia...».

Ebbene, ladies and gentlemen, il momento è arrivato. Esce infatti oggi «Concerto Grosso - New Trolls - Trilogy Live», cofanetto con due cd e un dvd, comprendente la trilogia completa: il fondamentale «Concerto Grosso per New Trolls» del 1971 (quello scritto da Luis Bacalov, futuro Premio Oscar, da un’idea di Sergio Bardotti), il meno importante «Concerto Grosso n.2» pubblicato nel 1976 e il recente «Concerto Grosso - New Trolls - The Seven Seasons», uscito quest’anno per «festeggiare» la reunion fra i due tronconi, anzi, le due anime del gruppo, da sempre rappresentate dai suddetti De Scalzi e Di Palo, che per anni si sono guardati storto, prima di ricominciare esattamente dal punto in cui la loro collaborazione si era interrotta.

La pubblicazione di «Concerto Grosso», trentasei anni fa, fu molto importante nel panorama della musica italiana dell’epoca. Qualcuno dice che il pop italiano sia nato da lì. I New Trolls avevano già sperimentato la formula del «concept album» (un unico tema su cui ruota tutto il disco) con «Senza orario senza bandiera», su testi del grande Fabrizio De Andrè, genovese come loro. Ma «Concerto Grosso», con la marcata impostazione sinfonica, e con quell’idea di trasporre in rock la formula del Seicento, consistente in un piccolo gruppo di solisti su un palco assieme all’orchestra per dar vita a una sorta di botta e risposta, fu il vero elemento di rottura fra passato e futuro, il crinale del cambiamento non più rinviabile.

Risentirlo in piazza dell’Unità, l’estate scorsa, e ora in questo cofanetto, è emozionante: un magistrale connubio tra melodia classica e pop-rock sinfonico, in bilico fra passato e presente, fruibile dai ragazzi di ieri e da quelli di oggi.

Il cofanetto propone anche due «bonus track»: sia nel dvd che nel cd c’è «In St. Peter’s Day» (tratto dall’album «Searching for a land», del ’76), nel solo cd c’è anche «Dance with the rain», da «Concerto Grosso - The seven seasons», con ospite Sarah Jane Morris.

Nel concerto triestino, e dunque anche nella trilogia che esce oggi, la formazione dei New Trolls vede schierati - oltre a Vittorio De Scalzi (tastiere, chitarra, flauto e voce) e Nico De Palo (tastiere e voci: la chitarra non la suona più dopo il gravissimo incidente automobilistico che una decina d’anni fa gli fece rischiare la vita) - Alfio Vitanza alla batteria, Andrea Maddalone e Mauro Sposito alle chitarre, Francesco Bellia al basso.

domenica 11 novembre 2007

LIGA «Niente paura, niente paura, niente paura ci pensa la vita, mi han detto così...». Versi quasi ottimisti che le radio stanno pompando incessantemente ormai da un paio di settimane. Sono quelli del singolo che anticipa il nuovo album di Ligabue, intitolato «Ligabue - Primo tempo», il primo dei due «best» del rocker di Correggio, atteso per il 16 novembre. Intanto il nostro dimostra a se stesso e allo show business italiano di essere l’unica alternativa a Vasco, sul versante dei grandi numeri. Ha infatti già incassato il tutto esaurito in prevendita per tutti e quattordici i concerti che terrà tra il Palalottomatica di Roma (da sabato 17 al 26 novembre) e il DatchForum di Assago, Milano (dal 12 al 21 dicembre). Oltre 150 mila i biglietti venduti per il Liga dal vivo. L’album ripercorre la sua storia musicale, dal disco d’esordio «Ligabue» (1990) a «Buon compleanno Elvis» (1995), con brani ormai storici come «Balliamo sul mondo», «Libera nos a malo» e «Quella che non sei». «Ligabue - Secondo tempo», atteso per maggio, andrà invece da «Su e giù da un palco» (1997) all’ultimo «Nome e Cognome» (2005).

Oltre a «Niente paura», questo primo disco - completo di dvd con tutti i videoclip - comprende anche un altro inedito, «Buonanotte all’Italia», che si inserisce nel solco delle grandi ballate che hanno fatto grande Ligabue. Le canzoni del passato sono state riportate a nuova vita grazie alla sapiente masterizzazione di Ted Jensen (tra i migliori tecnici al mondo di mastering) allo Sterling Studios di New York.

«Non nego che ho fatto il ”best of” perchè previsto dal contratto con la Warner - ha detto l’artista - ma mi piace averlo realizzato solo dopo tanti anni di storia personale. E poi è utile fare i conti con quello che la gente ha sentito più vicino a sé e vedere se regge l'urto del tempo, verificando anche le ingenuità che si erano commesse. Ed è bello sentire, ora con le nuove tecnologie, i suoni ancora forti e chiari anche perchè io non riascolto mai i miei dischi. Comunque non è stato cambiato nulla...».

Per quanto riguarda invece i concerti che avranno il via sabato a Roma, si tratta del suo ritorno dal vivo dopo il «Nome e Cognome Tour 2006», cominciato nei club, proseguito nei palasport e negli stadi, terminato nei teatri, che ha fatto tappa anche a Trieste.




DE ANDRE' & PFM Da una grande raccolta di oggi alla ripubblicazione di uno storico «live» doppio di tanti anni fa. Era il gennaio 1979, prima a Firenze e poi a Bologna s’incontrarono Fabrizio De Andrè e la Pfm. Ovvero il grande poeta genovese, lo chansonnier più libero della nostra epoca, e la band italiana di punta del rock italiano degli anni Settanta. «Fabrizio De Andrè & Pfm in concerto» (SonyBmgRicordi) ritorna dunque a ventotto anni dalla pubblicazione - allora naturalmente in vinile - del primo disco (il secondo uscì nell’80, e in mezzo, nell’agosto ’79, ci fu il drammatico rapimento di De Andrè e Dori Ghezzi in Sardegna) e continua a fare la sua gran bella figura. Erano tempi in cui il cantautore era quello chitarra e voce (rare le eccezioni) e l’armamentario rock era lasciato ai gruppi. Quell’incontro aprì la strada alle collaborazioni e alle contaminazioni tra il pop/rock e la canzone d'autore. Diciotto brani («Bocca di rosa», «La guerra di Piero», «La canzone di Marinella», «Amico fragile», «Sally», «Rimini», «Via del Campo»...), che grazie ai nuovi missaggi e alle nuove tecniche digitali, brillano oggi più di allora.


EROS Pensate: Eros Ramazzotti ha realizzato anche due duetti inediti, con Annie Lennox e con Shakira. Ma non li ha inseriti in questo disco. Chissà, forse nel prossimo... Una curiosità che ci permette di comprendere a che livello stiamo, con questo «e2» (SonyBmg), raccolta doppia di successi con aggiunta di inediti e riletture assieme a gente del calibro di Carlos Santana («Fuoco nel fuoco»), Steve Vai, Chieftains...

Il primo disco comprende quattro inediti e quattordici successi in versione originale rimasterizzata (le canzoni più vecchie sono state recuperate dai nastri originali); il secondo comprende diciassette successi rivisitati da Ramazzotti insieme a grandi artisti del panorama musicale italiano e internazionale

«Musica è» sembra quasi epica grazie a Gian Piero Reverberi e alla London Session Orchestra, «Dolce Barbara» diventa struggente nella versione piano-voce del jazzista Dado Moroni, «Il buio ha i tuoi occhi» sfoggia un'atmosfera cubana con i Rhythm Del Mundo.

E ancora «Un attimo di pace» rinasce col coro gospel a cappella dei Take 6, «Un'emozione per sempre» si tinge di folk con gli irlandesi Chieftains, «Dove c'è musica» vira in rock con la chitarra di Steve Vai, «Taxi story» si arricchisce delle sonorità newyorkesi di Jon Spencer...

Fra gli inediti, brilla il duetto con Ricky Martin in «Non siamo soli», brano di apertura, scelto anche come singolo di lancio. Ma anche l'autobiografico «Ci parliamo da grandi», dove Eros immagina cosa proverà quando la figlia Aurora sarà grande e lui dovrà «lasciarla libera di volare con le sue ali».  E ancora «Il tempo tra noi», che parla del sentimento che resiste anche quando la storia è finita.

Fra gli altri titoli: «Terra promessa», «Una storia importante», «Adesso tu», «Se bastasse una canzone», «Cose della vita» (duetto con Tina Turner), «Un’altra te», «Più bella cosa»...


GABER Secondo appuntamento con la monografia dedicata all’artista milanese di origini triestine, scomparso il primo gennaio 2003, dopo il cofanetto dello scorso anno dedicato agli anni '60. Libro e dvd documentano gli anni del passaggio al teatro. Nel ’70 matura infatti la scelta di abbandonare la televisione e il successo commerciale a favore del teatro, accogliendo l’invito di Paolo Grassi del Piccolo Teatro di Milano. Nasce il «Signor »G e con lui il Teatro Canzone, con spettacoli come «Il signor G», «Far finta di essere sani» e «Anche per oggi non si vola». Fa parte dell'antologia anche il duetto del 1972 con Mina, in televisione, a «Teatro 10».


PATTY Si parte nell'unico modo possibile: con «Ragazzo triste», cover di «But you are mine» di Sonny Bono, testo italiano di Gianni Boncompagni. La canzone che lanciò Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo, nella versione televisiva della popolare trasmissione «Scala Reale», del 1966. Si prosegue con «Se perdo te», «La bambola», «Il paradiso», «Pazza idea», «Pensiero stupendo», per arrivare alle cose più recenti. Sono passati quarant’anni, l’ex ragazza del Piper è una signora, ma per tanti rimane sempre l’icona della rivoluzione beat. Trasgressiva, anticipatrice, camaleontica, inafferrabile, ingestibile, sempre e comunque diva. Un percorso artistico straordinario, il suo, che torna in questo cofanetto.

sabato 10 novembre 2007

TRIESTE Beh, quel che salva Ornella Vanoni, oltre alla gran voce, è decisamente l’autoironia. Prendete ieri sera, in un Politeama Rossetti impietosamente mezzo vuoto - o mezzo pieno, a seconda dei punti di vista - per il debutto del suo tour teatrale intitolato «Una bellissima ragazza» proprio come il nuovo album, il primo di canzoni inedite dopo una decina d’anni.
Presentando l’ultimo bis la grande signora della canzone italiana (classe 1934) farfuglia: «Mi vorrei accomiatare con... no, sa di antico... Allora mi vorrei ritirare con...». E prosegue: «Neanche, mi ricorda la mia ginecologa, ops, la mia foniatra che mi visita e mi dice: signora, per una gola come la sua non c’è casistica. Alla sua età o sono morti o si sono ritirati...». Sorrisi sul palco e in platea, e lei infila con noncuranza l’ennesima bella canzone della serata, «L’azzurro immenso», scritta con Sergio Cammariere.

Poca gente, si diceva, ed è un peccato, perchè lo spettacolo è di qualità. Scenografia teatrale, elegante ed essenziale. Sulla destra una sorta di gabbia bianca «contiene» i musicisti (l'argentino Natalio Luis Mangalavite al pianoforte, Luca Scarpa al pianoforte e alle tastiere, Michele Ascolese alle chitarre, Dino D'Autorio al basso, Roberto Testa alla batteria, Carlo di Francesco alle percussioni), sulla sinistra alcuni specchi e quattro gradoni su cui sono ammonticchiati degli enormi sacchi bianchi, dai quali la cantante estrae coloratissimi foulard. A rappresentare altrettanti amori, passioni, sentimenti.

Ornella canta l’amore, nello spettacolo come nel nuovo disco, né potrebbe essere altrimenti. La forza del recital sta nel fatto che le canzoni nuove, quelle che il pubblico conosce poco, non sfigurano al fianco dei classici di una vita e di una carriera ormai lunghe. «Una bellissima ragazza», «Dolce meccanica», «La vita che mi merito» (parole di Renato Zero) tengono insomma botta anche se vengono alternate con cavalli di battaglia datati come «Uomini», «Ho capito che ti amo» (splendida, per pianoforte e voce, con accoglienza timidina che la fa sbottare così: «Lo so che voi triestini siete un po’ freddi, anche quando applaudite, sù, coraggio...»), «Questa notte c’è», «La voglia la pazzia» (che stava nell’album del ’76 con Vinicius de Moraes e Toquinho)...

Secondo tempo. Cambio d’abito. Si riparte con un capolavoro assoluto della canzone italiana come «Insieme a te non ci sto più», scritto da Paolo Conte per Caterina Caselli nel ’68. Si prosegue con altri brani del nuovo disco («Cosa m’importa», «Gli amanti», «E del mio cuore», «Buona vita», «Pagine»...), la classicissima «Rabbia libertà fantasia», e ancora una canzone del 1968: quella «Canzone per te» con cui l’istriano Sergio Endrigo e il brasiliano Roberto Carlos vinsero Sanremo. Di nuovo versione pianoforte e voce, essenziale, dolente, quasi da antologia.

Si scivola verso il finale. Ornella molla i tacchi su cui si è costretta per tutta la serata e respira finalmente a piedi nudi. Sembra anche più rilassata. Non è una grande raccontatrice di aneddoti, ma più si va avanti e meno si impappina. Parlando, of course, perchè quando canta non ce n’è per nessuno...

Ecco allora un’antica «Senza paura», di Vinicius, quello che diceva sempre: «Ci hanno messo su questa terra, ma hanno dimenticato di darci il libretto per le istruzioni...». Ecco le immortali «Che cosa c’è» e «Una ragione di più», rispettivamente del ’63 e del ’69, ma emozionanti come allora.

Poi i bis, fra cui «Domani è un altro giorno», con la gag di cui si diceva all’inizio. Ornella saluta e ringrazia, ma ha ancora un sacco di voglia di parlare, ora che si è sciolta. Racconta allora di quanto le piace Trieste, del mare che lei ha trovato sempre calmo, di Strehler che la portava in quella tale pasticceria a mangiare lo strudel... Successo caloroso, peccato per le tante file vuote.

martedì 6 novembre 2007

di Carlo Muscatello


Enzo Biagi era il prototipo del giornalista, anzi, del cronista che non esiste (quasi) più. Quello che va, vede, ascolta, chiede, tenta di comprendere, e solo allora riferisce e spiega ai lettori o ai telespettatori. Quello che non urla, non insulta, non cerca il clamore. Quello che rifugge i toni scandalistici, che evita il cattivo gusto come fosse la peste. Quello delle vecchie regole del giornalismo anglosassone, le mitiche «cinque w» (who, what, why, when, where, ovvero chi, che cosa, perchè, quando, dove), che si continuano a insegnare agli aspiranti giornalisti ma si stentano a reperire in tante cronache dei nostri scassati giornali.

Biagi ha raccontato per quasi settant’anni l’Italia, gli italiani, la vita della gente, le cose e le persone che lo circondavano. L’ha fatto con sincerità, onestà professionale, ma soprattutto rispetto per le persone. Credendo in questo mestiere bello e dannato. Per questo piaceva alla gente ma non al potere politico, che in epoche diverse l’ha ostacolato.

«Nella Bibbia - ricordava spesso - si trova quella che a mio parere è la miglior domanda che sia mai stata posta. Dio, che sa perfettamente quel che è successo, chiede a Caino, reduce dall’omicidio di Abele, “dov’è tuo fratello?”. Ecco, io credo di essere un discreto intervistatore perché mi limito a fare le domande che lettori o telespettatori farebbero se si trovassero al mio posto».

Ancora: «Non ho mai approvato le cosiddette domande provocatorie. Colui che chiede a una madre che ha appena saputo dell’assassinio del figlio cosa prova non è un giornalista, è un deficiente. D’altronde nello sforzo di apparire super-intelligenti si può ottenere il risultato di sembrare stupidi...».

Il vecchio maestro, con quell’arietta dimessa che celava un carattere tostissimo, la figura dello stupido non l’ha fatta mai. Tantomeno quando il 18 aprile 2002 Berlusconi, all’epoca presidente del consiglio, a conclusione di una visita di stato in Bulgaria, a Sofia, se ne venne fuori con quello che sarebbe passato alla storia recente del nostro povero Paese come «l’editto bulgaro».

«Ho già avuto modo di dire - sibilò quella volta il premier, dinanzi a duecento giornalisti internazionali perlopiù allibiti - che Santoro, Biagi e Luttazzi hanno fatto un uso criminoso della televisione pubblica, pagata con i soldi di tutti: credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza Rai di non permettere più che questo avvenga».

Povero Enzo. Lui, liberale vecchio stampo, di moderate idee di sinistra (diceva: «sono un socialista senza partito»), accomunato dalla foga berlusconiana al tribuno di «Sciuscià» (la trasmissione condotta all’epoca da Santoro) e al dissacratore di Satyricon (il programma nel quale Luttazzi aveva ospitato Marco Travaglio per parlare di un libro di cui non si doveva parlare).

La sua vera colpa, agli occhi del Cavaliere - che oggi si unisce al coro unanime del cordoglio e della stima post mortem -, era stata quella di aver dato ampio spazio, in una delle 814 puntate de «Il fatto», prima delle elezioni politiche del 2001, al diavoletto Benigni che ovviamente non ci era andato leggero, sugli argomenti di attualità politica ed elettorale del momento. Zac... L’uomo di Arcore - che nell’86 aveva tentato senza successo di ingaggiarlo per le sue reti tv - se l’era legata al dito. E alla prima occasione aveva presentato il conto.

Conto salato, soprattutto per lui. Sì, perchè quando escludi dal video una persona di ottantadue anni, con tutta evidenza l’effetto è molto diverso da quello ottenuto con chi ha aspettative di vita più ampie.

Che vita, comunque, quella dell’uomo nato nel 1920 (coetaneo dunque di Papa Woityla e di Carlo Azeglio Ciampi) a Pianaccio, paesino sull'Appennino bolognese, frazione di Lizzano in Belvedere. Dove vive fino ai nove anni, quando la famiglia si trasferisce a Bologna, al seguito del padre Dario che lavorava come magazziniere in uno zuccherificio.

Pare che l’idea di diventare giornalista, al ragazzo, fosse nata dopo aver letto «Martin Eden» di Jack London. Tanti anni dopo avrebbe ammesso: «Ho sempre sognato di fare il giornalista, lo scrissi anche in un tema alle medie: lo immaginavo come un ”vendicatore” capace di riparare torti e ingiustizie. Ero convinto che quel mestiere mi avrebbe portato a scoprire il mondo».

Intanto il ragazzo studia all'istituto tecnico, con i compagni di scuola dà vita a un giornalino studentesco, «Il Picchio», che si occupa soprattutto di vita scolastica ma viene comunque soppresso dal regime fascista. La mamma, che aveva la terza elementare, gli aveva detto: «Non devi mai dire bugie». Lui la prende alla lettera. Di più: ne fa il manifesto programmatico della sua vita professionale.

Che comincia presto. A diciassette anni, nel ’37, pubblica il primo articolo sull’Avvenire, quotidiano al quale collabora per un paio d’anni, prima di venir assunto giovanissimo, nel ’40, al «Carlino Sera», versione serale del Resto del Carlino. Primo incarico: estensore di notizie, ovvero colui che nei giornali di allora si occupava di scrivere gli articoli sulla base delle notizie portate in redazione dai cronisti.

Nel ’42 lo chiamano alle armi ma non parte a causa di problemi cardiaci con cui dovrà confrontarsi per tutta la vita. Nel ’43 sposa Lucia Ghetti, maestra elementare, modenese, che gli darà le tre figlie Carla, Bice e Anna. Una storia durata sessant’anni, fino alla scomparsa di lei nel 2002 (e nel 2003 morirà anche la figlia Anna).

Nel ’44 aderisce alla Resistenza combattendo nelle brigate Giustizia e Libertà, legate al Partito d'Azione. Si rifugia in montagna. Finita la guerra entra con le truppe alleate a Bologna e annuncia alla radio locale l'avvenuta liberazione. Poco dopo viene assunto come inviato speciale e critico cinematografico al Resto del Carlino.

Dal quotidiano bolognese viene allontanato nel ’51, quando aderisce al manifesto di Stoccolma contro la bomba atomica: l’editore lo accusa di «essere un comunista sovversivo». Ma da quel momento comincia per lui una carriera che lo porta a diventare uno dei più importanti giornalisti italiani della seconda metà del Novecento.

Arnoldo Mondadori lo chiama a Milano, a fare il caporedattore del settimanale Epoca dal ’52 al ’60, quando ne diventa direttore. E trasforma quella che era considerata una rivista di costume e pettegolezzi in un giornale impegnato. Ma un’inchiesta sugli scontri di Genova e Reggio Emilia contro il governo Tambroni scatena un putiferio e lo costringe a dimettersi.

Riparte subito come inviato speciale della Stampa, a Torino. Dove rimane poco: il primo ottobre ’61 viene nominato direttore del Telegiornale, che allora era unico. Sono gli anni del nascente centrosinistra, e quella nomina viene letta come un’apertura verso il Partito Socialista, che stava per affiancare la Democrazia Cristiana al governo.

Nel ’63 cura la nascita del tg del secondo canale e realizza il primo «RT - Rotocalco Televisivo» (marchio che poi avrebbe resuscitato nel 2007 per il suo breve ritorno in video dopo gli anni dell’ostracismo). Ma le mani della politica si fanno sempre più pesanti sul servizio pubblico, e il nostro è costretto nuovamente a lasciare. Torna da dove era venuto, alla Stampa, di nuovo a fare l’inviato. Ma comincia a scrivere anche sul Corriere della Sera e per il settimanale L'Europeo.

Alla Rai lo richiama nel ’68 Ettore Bernabei, potentissimo direttore generale. Nascono alcuni programmi di approfondimento giornalistico di successo, fra cui «Dicono di lei» (interviste a personaggi famosi fra pubblico e privato) e nel ’71 «Terza B, facciamo l'appello» (con personaggi famosi che incontravano ex compagni di classe, amici dell'adolescenza, primi amori...).

E proprio nel ’71 ritorna da direttore nel giornale della sua città, quel Resto del Carlino da cui era stato cacciato vent’anni prima. Dura poco. Nel ’72 torna al Corriere della Sera, che non avrebbe più lasciato, tranne una breve parentesi come editorialista a Repubblica, negli anni seguiti allo scandalo della P2 che rischiò di travolgere la corazzata di via Solferino.

Negli ultimi trent’anni la vita professionale di Enzo Biagi si è divisa fra il Corriere, la Rai e i libri: romanzi, interviste, inchieste, libri storici, alcuni persino a fumetti. Giornalista multimediale senza bisogno di aspettare internet. Per il servizio pubblico cura dal ’77 all’80 su Raidue «Proibito», nell’82 su Raiuno «Film Dossier», nell’83 su Raitre «La guerra e dintorni» (un programma dedicato a episodi della seconda guerra mondiale) e poi su Raiuno il seguitissimo «Linea Diretta», che avrà più edizioni.

Gli anni Novanta sono quelli delle grandi trasmissioni tematiche («Che succede all'Est?», «I dieci comandamenti all'italiana», «Una storia», «Processo al processo su Tangentopoli»...), fino al «Fatto» di cui si è detto. Cominciò nel ’95, cinque minuti di approfondimento sui principali fatti del giorno subito dopo il Tg1 delle venti. Media di sei milioni di telespettatori a sera, nominato da una giuria di giornalisti il miglior programma giornalistico realizzato nei cinquant'anni della Rai. Fino a quell’intervista a Benigni nel 2001 e ai cinque anni di esilio dal video che ne seguirono.

Negli ultimi mesi, nell’ultimo giro di giostra, quasi alla fine di quelli che lui chiamava «i miei tempi supplementari», Biagi scriveva su Espresso, Oggi e Corriere della Sera. E si dedicava al premio «È giornalismo», da lui fondato anni fa con Montanelli e il suo coetaneo Bocca (più giovane di lui di nove giorni), già considerato il Pulitzer italiano. L’anno scorso è uscito «Quello che non si doveva dire», un saggio sull’«editto bulgaro».

Una volta aveva detto: «Le persone che ho intervistato erano tutte interessanti per la storia che avevano dietro. Ho parlato con grandi uomini, grandi donne, ma anche grandi imbecilli. E purtroppo viviamo in un mondo sguaiato, dove anche chi non ha veramente niente da dire si sente in dovere di rendere il mondo partecipe del proprio pensiero. Di sicuro è molto più piacevole intervistare una persona intelligente. Parlare con Roberto Benigni, per esempio, è sempre una festa perché è geniale...».

Biagi ha comunque fatto in tempo a tornare in televisione. Prima come ospite nel programma di Fabio Fazio «Che tempo che fa» (intervista di 20 minuti, standing ovation del pubblico, record di ascolti) e a «Primo Piano», a testimoniare il suo affetto per la Rai, «la mia casa per quarant'anni».

Poi nell’aprile scorso, esattamente a cinque anni dall’«editto», con il suo vecchio e nuovo «RT - Rotocalco Televisivo», aprendo la trasmissione vista da due milioni e mezzo di spettatori così: «Buonasera, sono contento di rivedervi, scusate se sono un po' commosso e magari si vede. C'è stato qualche inconveniente tecnico e l'intervallo è durato cinque anni. Mi aveva avvolto la nebbia della politica...».

Quella volta parlò anche di Resistenza. Che non è solo un argomento del passato. Perchè c’è sempre qualcosa o qualcuno - ricordò Enzo Biagi - a cui bisogna resistere.

giovedì 1 novembre 2007

TRIESTE «Sono contenta di tornare a Trieste, città che amo molto, per cantare al Politeama Rossetti. Peccato per quel palcoscenico in discesa. Bisogna stare attenti a non scivolare. Ma mi hanno detto che la via del teatro è stata intitolata a Giorgio Strehler...».

Ornella Vanoni aprirà il suo tour teatrale - dopo due anteprime a Cattolica, oggi e domani - mercoledì 7 novembre al Rossetti. E il pensiero torna subito al grande Strehler. Corsi e ricordi della storia: correva l’anno 1955, e una giovanissima Ornella Vanoni, fresca di diploma alla Scuola d'arte drammatica del Piccolo di Milano, debuttava come attrice in «Questa sera si recita a soggetto»
, diretta proprio da quel triestino di Barcola, cittadino del mondo...

«La prima volta che sono venuta a Trieste - ricorda la cantante - è stato proprio con Giorgio. Lui amava molto la sua città. E posso dire che io l’ho scoperta attraverso lui. Che si emozionava sempre davanti a piazza dell’Unità, alle Rive, al mare, a quella vostra pasticceria in stile austriaco. Stava da tanti anni a Milano, ma bastava che tornasse a Trieste, o che incontrasse un suo concittadino, e riprendeva a parlare tranquillamente in dialetto. Me lo ricordo perfettamente che parlava in triestino con sua madre...».

Lei poi è tornata a Trieste tante volte...

«E l’ho sempre trovata un po’ abbandonata. Il porto, per esempio, credo avrebbe delle potenzialità immense. Non so se la situazione è cambiata negli ultimi anni, ma io me lo ricordo abbastanza sottoutilizzato. Eppure adesso la città ritorna a essere centro d’Europa...».

Cosa le piace della città?

«Per me, oltre a essere la città di Strehler, è la città di Svevo, di Saba. È quella la Trieste che amo. Ha quella leggera tristezza che la permea e la rende unica. La gente è molto gentile. Me lo ricordo quando siamo venuti con il primo tour Vanoni Paoli, verso la metà degli anni Ottanta, proprio al Rossetti: l’accoglienza fu splendida...».

Strehler, Paoli: fasi diverse della sua vita e della sua carriera...

«Giorgio era teatro puro. Fu lui che mi inventò come ”cantante della mala”. Era la Milano a cavallo fra la fine degli anni Cinquanta e i primi anni Sessanta, il Piccolo Teatro, la Galleria del Corso, il Festival di Spoleto nel ’59: un periodo irripetibile, di grande creatività. Ci sentivamo al centro di qualcosa di importante...».

Paoli, invece?

«A un certo punto mi ero stufata di cantare per un pubblico di nicchia. E lui, che è un poeta fantastico, aveva scritto per me un capolavoro assoluto come ”Senza fine”. Il grande pubblico mi scoprì allora, poi arrivarono ”Io ti darò di più”, la televisione come conduttrice, il cinema...».

E l’amore per il Brasile.

«Era il ’67, c’era questa canzone di Niltinho che si intitolava ”Tristeza”, che nella versione italiana diventò ”Tristezza”. Ma l’album fondamentale arrivò qualche anno dopo: ”La voglia, la pazzia, l’incoscienza e l’allegria”, nato dalla collaborazione con Sergio Bardotti, Vinicius De Moraes e Toquinho. Credo che il pubblico italiano abbia scoperto la bellezza della musica brasiliana anche attraverso quei miei dischi...».

Un amore, quello con la musica brasiliana, che continua.

«Sì, certo. Nel nuovo disco, fra tante canzoni nuove, c’è anche “O que me importa”, un vecchio successo brasiliano del 1971, una perla preziosa recuperata in tempi recenti anche da Marisa Monte».

Lei ha cantato anche con le star del jazz.

«Erano gli anni Ottanta. E al mio album ”Ornella &...” parteciparono musicisti come Gil Evans, George Benson, Herbie Hancock, Lee Konitz, Michael Brecker... Non era come adesso, che si può fare un disco a distanza, scambiandosi dei ”file” musicale. Allora erano tutti assieme, lì, in sala di registrazione...».

Il piacere di farsi accompagnare dai jazzisti le è rimasto.

«I buoni musicisti sono sempre anche dei jazzisti. Nel nuovo disco suona Paolo Fresu, con cui collaboro da anni. E Mario Lavezzi, il mio produttore, si è inventato anche questa presenza di Mario Biondi, una voce davvero eccezionale».

Il nuovo disco è «Una bellissima ragazza». Dicono che è molto autobiografico.

«Sì, è un lavoro decisamente autobiografico. Sono canzoni che raccontano l’amore in ogni sua modulazione: da quello irregolare de ”Gli amanti” fino a quello della serenità, dell’affetto profondo di ”Qualcosa di te”, scritta da Lavezzi».

Una canzone è di Renato Zero.

«Sì, ha scritto per me un bellissimo pezzo, interpretando perfettamente il mio stato d’animo. Un artista ha sempre un lato femminile. Ed è quello che permette a tanti autori di scrivere splendide canzoni ”al femminile”...».

In copertina c’è lei ragazza.

«Quella foto me l’ha scattata mio padre, a Paraggi. Avevo quindici anni, stavo sbocciando. È un’immagine a cui ovviamente sono molto legata».

C’è anche una dedica a Gesù che ha fatto discutere.

«Da qualche anno frequento la chiesa evangelica di Milano, canto nei cori, partecipo alle funzioni. Ho anche condotto le ultime edizioni del festival dei canti religiosi al Palalido di Milano. Gesù ha cambiato la mia vita in meglio da quando l'ho accettato e mi sono affidata a lui».

Lei era cattolica.

«Sì, in Italia siamo tutti cattolici. Da noi c’è tanta religione ma manca la fede. Io anni fa ho conosciuto un pastore evangelico che mi ha parlato di Gesù. E ha cambiato la mia vita. Ricordavo il catechismo come qualcosa di noioso, andare a messa era puro formalismo. Oggi frequento il culto che comprende ringraziamento, adorazione e molta musica...».

Lo spettacolo che debutta a Trieste?

«Le canzoni del nuovo disco, ovviamente. Ma anche un percorso a ritroso nella mia storia artistica. Diciamo che mi racconterò attraverso le mie canzoni. Con una scenografia molto bella e la regia di Giancarlo Cauteruccio, uno dei nomi più importanti e innovativi dell’avanguardia teatrale».

Con Ornella Vanoni, sul palco del Rossetti, ci saranno l’argentino Natalio Luis Mangalavite al pianoforte, Luca Scarpa (pianoforte, tastiere e programmazione), Michele Ascolese alle chitarre, Dino D’Autorio al basso, Roberto Testa alla batteria, Carlo di Francesco alle percussioni. Dopo il debutto triestino, il tour sarà l’11 novembre a Torino, il 13 a Bergamo, il 15 a Ravenna, il 22, 23 e 24 a Milano al Teatro Smeraldo, il 26 e 27 al Sistina a Roma. E poi a dicembre a Bari, Firenze, Venezia, Modena e altre città in via di definizione.



ROBERT WYATT C’è un signore che sta da trentaquattro anni su una sedia a rotelle. Ma rimane una delle menti più geniali e visionarie della musica pop. I ragazzi non lo conoscono. Si chiama Robert Wyatt. Fra la fine degli anni Sessanta e l’alba dei Settanta suonava la batteria nei Soft Machine (gruppo storico del jazz-rock inglese, che una volta suonò anche a Trieste, al Rossetti...), poi trasportò il suo genio iconoclasta nei Matching Mole (la cui pronuncia corrispondeva alla traduzione in francese del nome Soft Machine...), poi un giorno, a un party, a Londra, strafatto d’alcol e di chissà che altro, precipitò giù dal terzo piano forse nella convinzione errata di poter volare. Poteva morire, perse invece l’uso delle gambe. E da quel giorno del ’73, come detto, sta una sedia a rotelle. Oggi, a sessantadue anni, quattro anni dopo l’album «Cuckooland», esce con un nuovo disco intitolato «Comicopera» (Domino Records), registrato in parte in Italia, in cui suonano fra gli altri i suoi vecchi amici Brian Eno, Phil Manzanera, Paul Weller, Annie Whitehead, David Sinclair... Si tratta di una suite, come quelle che andavano di moda negli anni Settanta di cui Wyatt è stato protagonista. Con brani cantati in inglese, in spagnolo («Hasta siempre comandante») e anche in italiano («Del mondo» dei Csi).

L’opera è divisa in tre atti abbastanza eterogenei, indipendenti l’uno dall’altro: «Lost in noise» (il più intimista, con canzoni pop tutto sommato tradizionali, tipo «Just as you are», scritte assieme alla moglie Alfreda Benge), «The here and the now» e «Away with the fairies». Wyatt mescola jazz, musica etnica, pop di non immediata lettura, elettronica, inni politici, in quella che a tratti somiglia a una raccolta di appunti, ma non per questo perde il suo fascino e la capacità di incuriosire e intrigare l’ascoltatore.

Parte da «Stay tuned» di Anja Garbarek, cita Garcia Lorca («Cancion de Julieta»), oltre ai Csi di cui si è detto. «Registrare un disco non è solo un piacere astratto - ha spiegato Wyatt - e in questo disco si sente fortemente la presenza di esseri umani distinti e in comunione, intenti nell'atto di creare musica...».

Ma nel disco, soprattutto nel secondo atto, c’è anche una riflessione amara sul potere e sulla guerra. «Siamo tutti uniti in questa arrogante missione per civilizzare il mondo - sostiene il musicista - non sarebbe un male, se lo scopo fosse davvero nobile. Ma non lo è, considerato chi andiamo a bombardare...».

Ed è per questo che nel terzo atto l’artista evita la lingua inglese, considerata l’idioma dei paesi potenti, quelli che pretendono di esportare la democrazia con le guerre, e mette in scena una sorta di anarchica protesta poliglotta.

Lavoro di grande libertà, avanguardistico, quasi folle, non etichettabile, che ci riporta ai furori creativi della stagione di cui Robert Wyatt è stato grande - e per tanti versi sfortunato - protagonista. Una lezione di intelligenza e di eleganza, di ragione e sentimento, mai autoreferenziale, lontana anni luce dalle produzioni musicali attuali. Sorta di messaggio nella bottiglia per chi lo voglia ascoltare e intendere...








NOMADI «Nomadi & Omnia Symphony Orchestra» (Atlantic Warner) è invece il doppio cd (ma c’è anche la versione con dvd) che raccoglie trentadue pezzi storici del repertorio della band fondata negli anni Sessanta dal compianto Augusto Daolio e da Beppe Carletti. Che dice: «Dopo 35 anni siamo riusciti a suonare con gli archi: nel '72 li avevo fatti con il mellotron, la tastiera che allora si usava per riprodurre i suoni dell'orchestra. Per me suonare con l'orchestra sinfonica è il massimo...». Il progetto si deve alla collaborazione con Bruno Santori, incontrato al Sanremo 2006, quello da loro vinto nella categoria gruppi con «Dove si va», presente nel disco. Ed è stato registrato nell’aprile scorso al palasport di Brescia. Nella scaletta non mancano «Dio è morto» e «Auscwitz», scritte da Francesco Guccini più di quarant’anni fa, diventate veri e propri inni dei Nomadi. Ma anche i tanti altri successi di ieri e di oggi. E due inediti: «Ci vuole un senso» e «La mia terra». Già in classifica.


 

SANTANA Carlos Santana ha descritto questa raccolta «una lettera d’amore dedicata ai miei fan». I classici di una carriera irripetibile (novanta milioni di dischi venduti in quarant’anni) ci sono tutti: da «Samba Pa Ti» a «Black Magic Woman», da «Corazon Espinado» a «Oye como va»... Nuovi arrangiamenti e collaborazioni celebri (Tina Turner, Jennifer Lopez, Manà, Steven Tyler...) fanno di questo disco qualcosa di più della solita antologia di grandi successi. Anticipata dal singolo inedito «Into the night», interpretato dal leggendario chiarrista messicano assieme al leader dei Nickelblack, Chad Kroeger. Da mettere da parte per le grandi occasioni.

 

MATIA BAZAR Ci sono quarant’anni di musica nel nuovo cd dei Matia Bazar, che ripercorre la storia dei più rappresentativi gruppi italiani con quindici cover. Quasi un omaggio alle band che hanno influenzato in passato il quartetto guidato da Piero Cassano e Giancarlo Golzi, o che da questi sono state amate: da «Una ragazza in due» (Giganti, ’65) fino a «Svegliarsi la mattina» (Zero Assoluto, 2006). Passando per Equipe 84, Corvi, Dik Dik, Pooh, Nomadi, Pfm, Banco, Delirium, Negramaro... «Canzoni che avrei voluto scrivere», come spiega Cassano. Roberta Faccani dal 2005 è la nuova voce femminile del gruppo. Il disco è uscito anche in vinile.


MORANDI Gianni Morandi, un mito: quarantacinque anni di carriera (il primo 45 giri è del ’62) e quasi cinquanta milioni di dischi venduti. Numeri da festeggiare con «Grazie a tutti» (EpicSonyBmg), triplo cd antologico con cinquanta canzoni rimasterizzate a Londra. Nell’antologia ci sono i classici degli anni Sessanta («In ginocchio da te», «Non son degno di te», «C’era un ragazzo», «La fisarmonica»...) e i successi della seconda giovinezza, cominciata quando Mogol nel 1980 scrisse per lui «Canzoni stonate». Gli inediti sono quattro: «Stringimi le mani» di Pacifico, «Un mondo d’amore» in duetto con Baglioni, una versione «live», mai pubblicata prima, di «Se non avessi più te» eseguita con l'orchestra diretta da Ennio Morricone nel ’65, e un medley («Questa vita cambierà/Come è grande l'universo/Principessa»), inciso dal vivo per questo album con l'orchestra di soli archi Roma Sinfonietta, diretta da Celso Valli. Un monumento discografico a un monumento vivente della canzone italiana. Uno che ha attraversato cinque decenni di storia musicale - e di costume - del nostro paese. Ed è ancora qui.