venerdì 31 ottobre 2014

ONE DIRECTION, niente Italia ma 10-6 a Vienna

La “One Direction mania” prosegue e sembra un’onda che s’ingrossa sempre più. Appena archiviato il record italiano di evento più visto di sempre (120mila fan in sole 24 ore hanno assistito, sabato 11 e domenica 12 ottobre, in 288 sale italiane, a “One Direction: Where we are - Il film concerto”, ovvero 75 minuti sullo spettacolo registrato a San Siro, Milano), la boy band attualmente più amata dai giovanissimi di tutto il mondo ritorna a novembre con il nuovo album di inediti “Four”, anticipato dal singolo “Steal my girl”, e anche dal vivo, con il tour “On the road again”. Nessun concerto per ora programmato in Italia, fra le ventidue date annunciate nel 2015. Ma ce n’è una (relativamente) vicina, almeno per chi parte dal nostro Nordest. Le cinque star saranno infatti mercoledì 10 giugno a Vienna, allo Stadio Ernst Happel. E domani, primo novembre, si aprono le prevendite per la data austriaca (a Trieste, da Multimedia Radioattività, via di Campo Marzio 6, telefono 040 304444, aperta anche domani, orario 10-13 e 15-19, info www.radioattivita.com, e al Tickepoint di Corso Italia). Previsti anche servizi di pullman. Norme restrittive secondo la legge austriaca. Minori di dodici anni non ammessi, nemmeno se accompagnati da un adulto. Accesso al prato per i ragazzi fra i dodici e i sedici anni solo se accompagnati da un adulto (e ogni adulto ne potrà accompagnare solo due). Documenti di identità da presentare agli ingressi. Altre tappe del tour: 13 giugno Bruxelles, 19 Oslo, 23 Gotenburg, 27 Helsinki. Poi, dal 9 luglio, si torna negli States (San Diego, San Francisco, Seattle, Minneapolis, Baltimora, Chicago, Detroit...) e si va in Canada. Queste date vanno ad aggiungersi a quelle, fra febbraio e aprile, già annunciate in Australia, Giappone, Filippine, Tailandia, Indonesia, Sud Africa... Insomma, un fenomeno planetario, quello degli One Direction, con milioni di giovanissimi in tutto il mondo impazienti di vederli dal vivo e sentire i loro successi: da “What makes you beautiful” a “Story of my life”, da “Live while we’re young” a “Best song ever”... Gli “1D” (così li chiamano nel linguaggio dei social network...) sono la boyband più ricca della storia della musica inglese, con un patrimonio di circa 14 milioni di sterline a testa. Di origini anglo-irlandesi, Niall Horan, Zayn Malik, Liam Payne, Harry Styles e Louis Tomlinson partirono da un terzo posto all’X Factor inglese del 2010. Sono diventati star planetarie grazie a tre album (“Up all night”, “Take me home” e “Midnight memories”, usciti fra il 2011 e il 2013) e al supporto dei “social”. La loro ricetta: pop semplice ma di buona fattura, ritornelli di quelli che non faticano a entrarti nelle orecchie, cori e coretti costruiti con cura.

GILBERTO GIL a trieste, oggi alla Casa Musica, domani al Rossetti

Tutti prenotati i cento posti (scarsi) dell’Auditorium della Casa della musica, per l’incontro di oggi alle 17.30. Ancora biglietti disponibili per il concerto di domani sera al Politeama Rossetti. Insomma, il conto alla rovescia per il “doppio incontro” triestino con Gilberto Gil, uno dei grandissimi della musica popolare - brasiliana ma non solo - del Novecento, è ormai giunto agli sgoccioli. Le tappe italiane del “Solo Tour 2014” hanno portato nei giorni scorsi l’artista a Roma, Fabriano e Cesena; dopo la “due giorni” triestina - organizzata da Veneto Jazz in collaborazione con la Casa della musica di Trieste e Fvg Festival - il tour si concluderà a Padova il 6 novembre. Alla tappa nel capoluogo giuliano Gil riserverà una attenzione speciale. Oggi visiterà infatti la struttura della Casa della musica (in via Capitelli 3, accanto a piazza Cavana, a due passi dal salotto buono di piazza Unità, tel 040 307309), centro di eccellenza nella promozione musicale e nel sostegno al talento giovanile, completo di sala di registrazione, quasi più conosciuto all’estero che in patria. Nel piccolo auditorium del sodalizio, alle 17.30 (ingresso libero fino a esaurimento dei posti), nell’ambito di un incontro coordinato da Gabriele Centis, direttore artistico della “Casa”, il musicista brasiliano parlerà della sua quarantennale esperienza artistica, delle tradizioni musicali del suo paese e del continente sudamericano, ma anche della sua esperienza di ministro della cultura nel governo Lula, dal 2003 al 2008. «Era un momento - ha detto l’artista, classe 1942, nato a Salvador - di grande cambiamento politico. Lula rappresentava qualcosa di nuovo, collaborare con lui è stato stimolante: ho avuto la possibilità di proporre nuove direzioni e idee per la cultura. Che aiutassero a includere tutti quelli che erano tagliati fuori. Il contributo che potevo dare l’ho dato...». Quello di oggi pomeriggio dovrebbe essere un incontro solo “parlato”, ma non si sa mai. L’attesa degli appassionati è comunque e ovviamente focalizzata soprattutto sul concerto di domani sera al Rossetti. Concerto tutto acustico, con Gilberto Gil (di solito si presenta biancovestito) da solo sul palco in compagnia soltanto della sua chitarra. A proporre un viaggio intimista attraverso la sua lunga e ricca storia musicale. «Io e mia moglie Flora - ha spiegato il musicista - abbiamo deciso di fare un viaggio per vedere i posti storici che non avevamo mai visitato. Una vacanza da turisti, io e lei, con un’automobile per spostarci liberamente. E così ho deciso di fare anche dei concerti. Insomma, siamo soli io, lei e la mia chitarra...». Il tour che arriva a Trieste segue l’uscita dell’album “Gilbertos Sambas”, uscito a maggio 2014 (Sony Jazz & Classics), in cui il padre del Tropicalismo rende omaggio al suo maestro João Gilberto. «Ascoltare Gil che suona João – scrive nelle note di copertina l’amico e compagno di tante cose della vita, fra cui l’esilio a Londra negli anni della dittatura, Caetano Veloso - significa entrare in contatto con l’avventura stessa della nostra musica e della nostra vita». Nel disco, tributo al padre della bossa nova, anche il figlio Bem e Moreno Veloso, figlio di Caetano

BAGLIONI 7-11 al PalaTrieste / intervista

«Poche città hanno vissuto e conoscono il tema dell’integrazione, del rapporto con l’altro come Trieste, una delle grandi porte tra Europa ed Est. Una tra le capitali europee dell’incontro tra culture. Una città che sa perfettamente - come scrive Claudio Magris - che “ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri”...». Claudio Baglioni torna a Trieste, venerdì 7 novembre al PalaTrieste, nell’ambito della ripresa autunnale del “Con voi ReTour”. Ha voglia di parlare, di raccontare, di emozionare. Come fa da (quasi) mezzo secolo. «Trieste - prosegue il cantautore romano, classe 1951 -, proprio come Magris, sa anche che la diversità diventa “retorica truffaldina” se la si invoca per eludere i conflitti che possono derivare dal contatto fra culture diverse. La penso così anch’io». Per anni he organizzato O’scià nella “sua” Lampedusa... «Negli ultimi dieci anni abbiamo chiesto che la politica faccia la propria parte, ma non in termini strumentali o di propaganda elettorale. E il problema non è solo italiano, ma europeo, e deve essere affrontato e risolto a livello europeo. Se non, addirittura, dall’intero Occidente». L’isola? La sua gente? «È uno degli angoli più belli del mondo. Io sono un appassionato di mare e di mari ne ho visti tanti e bellissimi. Ma quello di Lampedusa è uno tra i più belli in assoluto. Mi piacerebbe che fosse conosciuta e amata per questo, oltre che per l’umanità straordinaria della sua gente, che da anni dà una grande lezione di civiltà, solidarietà e umanità a tutto il pianeta. Invece se ne parla - e male - solo per il dramma delle morti in mare e il problema dell’immigrazione. Se ne parla ma si fa pochissimo». Musica. Come si fa a rimanere ad altissimi livelli? «Non so se ci sia un segreto, ci sono cose inspiegabili e il successo è una di queste. Ma è vero che mantenerlo è più difficile che raggiungerlo. Se un segreto c’è, è l’autenticità. L’onestà intellettuale di non mentire a se stessi, né agli altri. Dicendo ciò che si ha dentro - ciò che si avverte il bisogno o l’urgenza di dire - e cercando di dirlo nella maniera migliore possibile». Facile con le canzoni? «La canzone è un’arte povera e breve, che però dà molto e alla quale siamo abituati a chiedere molto. Le chiediamo di emozionarci e farci sognare, ma anche riflettere: compiti non facili. La responsabilità di chi scrive, dunque, non è piccola. Richiede di scandagliare a fondo dentro se stessi, per trovare le parole che non fanno rimpiangere il silenzio. Bisogna lavorare seriamente, con passione e professionalità, «Poche città hanno vissuto e conoscono il tema dell’integrazione, del rapporto con l’altro come Trieste, una delle grandi porte tra Europa ed Est. Una tra le capitali europee dell’incontro tra culture. Una città che sa perfettamente - come scrive Claudio Magris - che “ogni diversità arricchisce, perché si cresce uscendo da se stessi e incontrando gli altri”...». Claudio Baglioni torna a Trieste, venerdì 7 novembre al PalaTrieste, nell’ambito della ripresa autunnale del “Con voi ReTour”. Ha voglia di parlare, di raccontare, di emozionare. Come fa da (quasi) mezzo secolo. «Trieste - prosegue il cantautore romano, classe 1951 -, proprio come Magris, sa anche che la diversità diventa “retorica truffaldina” se la si invoca per eludere i conflitti che possono derivare dal contatto fra culture diverse. La penso così anch’io». Per anni he organizzato O’scià nella “sua” Lampedusa... «Negli ultimi dieci anni abbiamo chiesto che la politica faccia la propria parte, ma non in termini strumentali o di propaganda elettorale. E il problema non è solo italiano, ma europeo, e deve essere affrontato e risolto a livello europeo. Se non, addirittura, dall’intero Occidente». L’isola? La sua gente? «È uno degli angoli più belli del mondo. Io sono un appassionato di mare e di mari ne ho visti tanti e bellissimi. Ma quello di Lampedusa è uno tra i più belli in assoluto. Mi piacerebbe che fosse conosciuta e amata per questo, oltre che per l’umanità straordinaria della sua gente, che da anni dà una grande lezione di civiltà, solidarietà e umanità a tutto il pianeta. Invece se ne parla - e male - solo per il dramma delle morti in mare e il problema dell’immigrazione. Se ne parla ma si fa pochissimo». Musica. Come si fa a rimanere ad altissimi livelli? «Non so se ci sia un segreto, ci sono cose inspiegabili e il successo è una di queste. Ma è vero che mantenerlo è più difficile che raggiungerlo. Se un segreto c’è, è l’autenticità. L’onestà intellettuale di non mentire a se stessi, né agli altri. Dicendo ciò che si ha dentro - ciò che si avverte il bisogno o l’urgenza di dire - e cercando di dirlo nella maniera migliore possibile». Facile con le canzoni? «La canzone è un’arte povera e breve, che però dà molto e alla quale siamo abituati a chiedere molto. Le chiediamo di emozionarci e farci sognare, ma anche riflettere: compiti non facili. La responsabilità di chi scrive, dunque, non è piccola. Richiede di scandagliare a fondo dentro se stessi, per trovare le parole che non fanno rimpiangere il silenzio. Bisogna lavorare seriamente, con passione e professionalità, per mettere la canzone nella condizione di arrivare dove deve arrivare e depositare i suoi semi in anime, coscienze e cuori. Come far fruttare quei semi, poi, spetta a chi ascolta». Per lei è tempo di bilanci? «I bilanci si fanno tutte le sere e si rifanno tutte le mattine. Ma non è un peso: è un sano allenamento che aiuta a mantenere lucidità ed equilibrio. La lucidità per capire chi siamo e dove vogliamo andare, l'equilibrio necessario a fare le scelte giuste e percorrere la strada scelta. Ciò non significa rinunciare a guardare avanti, a darsi nuovi obiettivi. Al contrario: i bilanci servono per affrontare al meglio i nuovi obiettivi. Ci dicono di quante energie disponiamo, quante ce ne servono per superare il prossimo ostacolo e dove trovarle». La sua prossima sfida? «Tabucchi scriveva che si muore quando non si sogna abbastanza. È il futuro l’alimento principale del presente, al quale nessuno può rinunciare. Se togliessimo il futuro dalla nostra dieta, moriremmo. La parola sfida deriva da “disfidare” che significa “sfidare a duello”. Noi sfidiamo a duello la quotidianità, per arrivare là dove sentiamo il bisogno di arrivare. A questo servono le mete: a fare in modo che ci mettiamo in cammino. Solo così eviteremo di perderci tutto ciò che merita di essere incontrato lungo la strada della vita, che è una strada che non ha mai smesso di sorprendere nessuno». Le pesa cantare le stesse canzoni? «C’è stato un momento nel quale mi ha pesato. E molto. Non a caso per anni ho cercato di cambiar pelle ai miei pezzi. Ho cambiato gli arrangiamenti, stravolto l’armonia, qualche volta ho modificato persino le melodie. Avevo bisogno che le canzoni suonassero diverse e nuove. Per me ma anche per chi veniva ad ascoltarmi. È un’esigenza comune a molti musicisti». E i nuovi dischi? «Quando esce un nuovo disco, per chi lo ascolta per la prima volta è nuovo, ma per chi ha passato anni a scrivere le canzoni e mesi in studio di registrazione a perfezionarle, di nuovo rimane poco. E il rischio è che uno si trovi con la testa più avanti del punto nel quale il disco lo ritrae. Il disco è una fotografia: fissa un momento. Ma le idee - come la vita - non si possono fermare: vanno avanti, sempre. Cambiano e gli artisti cambiano con loro». Di chi sono le canzoni? «Una volta realizzate, non ci appartengono più. Sono di chi le ascolta. E chi le ascolta spesso le ama per come le ha sentite la prima volta. Ho capito che, se il pubblico le ama per quel che sono, significa che non sono poi così male. E così ho imparato a “riamarle” anch’io. Ho capito che una canzone non ha bisogno di cambiare nella forma per assumere nuovi significati, valori, energie, perché siamo noi a renderla diversa ogni volta che la riascoltiamo. Lo stesso vale per chi la interpreta». Questo tour? «Ho cercato di raccogliere alcuni passaggi rappresentativi del mio universo musicale e “riportarli a legno”, per ritrovare il senso autentico di quelle canzoni e cercare di ripercorrere, con chi ascolta, le tappe fondamentali di questa lunga strada fatta insieme». Quella sorta di cantiere sul palco? «Un messaggio semplice: ricostruire si può, ma bisogna farlo insieme, “ConVoi”, appunto. Il cantiere è il simbolo di un luogo nel quale si lavora per costruire assieme qualcosa di grande, bello e importante per tutti». Costruire cosa? «Noi stessi, innanzitutto. La prima rivoluzione è quella interiore. Se diventiamo persone migliori, la realtà migliorerà insieme a noi. E se riusciremo a “scambiarci il meglio” - dare il meglio di noi stessi agli altri e prendere il meglio che gli altri ci possono dare -, allora tutto sarà migliore. Il mondo è quel che costruiamo assieme, il futuro è una strada che si lastrica sotto i nostri piedi: se seminiamo bellezza, raccoglieremo bellezza. Il mio cantiere è qui per suggerirlo, senza retorica e senza la pretesa di dispensare verità. Diciamo: venite, rimbocchiamoci le maniche e diamoci da fare. Insieme ce la possiamo fare». Quel suo simbolico caschetto? «Serve a proteggerci dai rischi che ci sono in ogni cantiere. Costruire è un’attività che prevede sempre qualche rischio, ma questo non ci deve spaventare, né ci deve impedire di metterci a lavorare per realizzare ciò che sentiamo di dover realizzare. Il caschetto è l’assicurazione sul futuro: ci protegge e ci fa arrivare sani e salvi alla fine. Quel che conta è ciò che troveremo. Che sarà ciò che avremo costruito insieme». Il suo rapporto con i fan? «Negli anni è cresciuto. Sono cresciuti loro, sono cresciuto io. Quando si ha la fortuna di fare un così lungo tratto di strada fianco a fianco, si ha l’opportunità di conoscersi e scambiarsi sguardi, gesti, emozioni e pensieri. È uno scambio che arricchisce e rende migliori. Io non sono quel che ero quarant’anni fa, lo stesso vale per chi mi segue. Io dò tutto quel che ho, rischiando sempre l’intera posta e non nascondendo mai nulla nelle tasche del cuore». Quest’Italia? «Si vive divaricati tra la consapevolezza che questo è il Paese più bello del mondo e il dolore che dà vederlo ferito, disamorato, stanco e sfiduciato. Se guardo al passato, non è il primo periodo difficile che viviamo». Pensa ai suoi genitori? «Si sono trasferiti a Roma dalla campagna umbra subito dopo la guerra e non hanno certo trovato uno scenario migliore di quello odierno. Ma avevano una certezza: che il loro futuro sarebbe stato migliore del loro presente. Ed è stato così, anche perché hanno plasmato quel futuro con le loro mani». I ragazzi di oggi? «Questa è la prima generazione convinta che il futuro sarà peggiore del presente. Una generazione alla quale viene impedito di dar forma al proprio futuro. Occorre scardinare questa convinzione e rimettere in moto la fiducia, ma bisogna “liberare le mani” della generazione giovane. Le energie ci sono, le intelligenze e le idee anche e non mancano nemmeno le volontà: tutto quello che bisogna fare è aprire le porte e mettere in circolo questo patrimonio gigantesco. I frutti verranno. E saranno sorprendenti». Lei rifarebbe tutto? «Tutto, davvero. Ma con la speranza di farlo ancora un po’ meglio di così...».

lunedì 27 ottobre 2014

FISIME, libro di DONGETTI

Quello di Stefano Dongetti è un umorismo a volte grottesco, spesso bizzarro, sempre surreale. Lo sanno bene i tanti affezionati frequentatori del Pupkin Kabarett, di cui il nostro è una delle colonne. Lo sa Paolo Rossi, che ne apprezza la verve e lo ha voluto - con Alessandro Mizzi, il “capocomico” del cabaret nato e cresciuto negli anni al Teatro Miela - in diversi suoi spettacoli, da “La coscienza di Zeno spiegata al popolo” in su, o se preferite in giù. Ma alla creatività debordante dell’umorista-filosofo Dongetti - triestino, classe ’66 - la rodata palestra del “Pupkin” evidente va stretta. Se è vero che a primavera ha debuttato con il suo spettacolo “Il titolo ce l’ha mio cugino”, un “viaggio strampalato e surreale nei problemi sociali e individuali del nostro tempo” che non ha lasciato indifferenti gli affezionati della casa. Ora arriva anche il libro “Fisime”, sottotitolo “E altri pezzi celebri almeno per me” (edizioni Calembour, pagg. 150, euro 12), che era già uscito prima dell’estate “in pochissime copie stampate dall’autore” con il titolo (che forse si attagliava maggiormente alla personalità del nostro) “Cannibalismo responsabile”, e che - almeno a sentire l’autore - era diventato “un cult tra i degenti dei migliori reparti italiani di diagnosi e cura”. «Vi sono, nel nostro Paese, delle sacche di socialismo reale - scrive “Donge” - che andrebbero eliminate quanto prima. Ad esempio il lavoro retribuito, eredità di passate stagioni della politica e di fantasiose ideologie che portavano a credere che un lavoratore dovesse venire pagato per le sue prestazioni. Nel libero mercato non vi è nulla di più dannoso di questa illogica e assurda credenza. È evidente a tutti che un’azienda in concorrenza con altri paesi dove queste antiche superstizioni non hanno più alcun peso non può addossarsi anche l’onere di pagare i suoi lavoratori. È ormai tempo che la nostra società passi ad una fase adulta e responsabile del capitalismo e che tali ingenue e arcaiche tradizioni vengano al più presto messe da parte. Ne va della nostra competitività». Il libro è una raccolta di monologhi e racconti brevi, alcuni illustrati dall’autore stesso, che tentano di rispondere a domande del tipo: come si fa essere felici in coppia? Come possiamo convivere serenamente nel consorzio sociale? Quali sono le migliori soluzioni per mandare al manicomio in tempi brevi i vicini di casa? Di perla in perla. «Ormai ci sono lavori che noi non riusciamo più a fare e li devono fare gli stranieri. Il violoncellista, ad esempio». Un’altra: «Mi piacerebbe praticare l’alpinismo estremo solo per arrivare su una altissima cima innevata e piantare un cartello: affittasi garage». Infine, la risposta triestina ai cioccolatini di Forrest Gump: «La vita è come una brioche alla marmellata. Te la stai mangiando e ti chiedi: ma dov’è questa marmellata? E poi, improvvisamente, ti smerdi tutto». Applausi. E sipario.

sabato 25 ottobre 2014

60 anni ritorno Trieste all'Italia : che musica si ascoltava?

A Sanremo quell’anno vinsero Giorgio Consolini e Gino Latilla, quintessenza della tradizione con “Tutte le mamme”. Domenico Modugno scaldava i motori con “La donna riccia” e “Lu pisce spada”. Secondo Casadei scriveva “Romagna mia”. Renato Carosone incideva “Mambo italiano”. Fuori da confini italiani Elvis già sculettava al ritmo di “You’re a heartbreaker”, i Platters registravano per la prima volta “Only you”, il messicano Tomas Mendez gorgheggiava “Cuccurucucù Paloma”, Bart Howard scriveva “Fly me to the moon”, poi incisa da tantissimi ma soprattutto da Frank Sinatra. In Francia Boris Vian cantava “Il disertore”. Ma a Trieste, nella città che si ricongiungeva all’Italia, che musica, che canzoni, che artisti si ascoltavano nelle febbrili ore del ritorno? Detto che “Vola colomba”, con cui Nilla Pizzi aveva trionfato due anni prima a Sanremo, era ancora il popolarissimo inno dell’italianità di Trieste, la città era ancora sotto l’influenza dell’amministrazione angloamericana, anche per quanto riguarda le sette note. Boogie-woogie e jazz, be bop e folk, insomma. Anche il critico Tullio Kezich (1928-2009) una volta raccontò che con gli alleati i triestini ebbero la possibilità di ascoltare concerti, dischi e trasmissioni radiofoniche di jazz. Persino Louis Armstrong suonò in città al seguito dei militari americani. C’erano l’American Corner, l’Allied Forces Reading Room che organizzava concerti nella sede di via Trento. «Erano molto ascoltate - ricorda Sergio Portaleoni, musicologo e gran collezionista di dischi e registrazioni varie - le emittenti delle forze armate. Gli americani trasmettevano da via Piccardi, con la Armed Force Radio Station. Anche gli inglesi avevano un’emittente in città, la British Forces Station». Ancora l’esperto: «I primi mandavano in onda concerti e programmi musicali americani, puntando soprattutto sulle grandi orchestre: Count Basie, Duke Ellington, Benny Goodman, Tommy Dorsey. Le proposte degli inglesi erano più “moderne”, più in linea con i tempi. Fu in quei programmi che scoprimmo artisti come Dizzie Gillespie, Charlie Parker, Ronnie Scott. Per molti di noi fu una vera e propria rivelazione...». «In città - aggiunge Portaleoni - giravano anche i dischi che gli americani usavano per i loro programmi. I 33 giri di quaranta centimetri di diametro, molto ricercati fra gli appassionati». «Radio Trieste - spiega Giorgio Berni, architetto con la passione del jazz, che anni fa ha dedicato un libro a quegli anni - era sotto l’amministrazione degli alleati. Ma era molto seguita anche Voice of America, con lo speaker Willis Conover, che veniva ripresa in città attraverso l’antenna di Radio Tangeri». «Ma ovviamente - aggiunge - non c’era soltanto la musica jazz. La gente ascoltava molte canzoni patriottiche, molti brani della tradizione sentimentale. “Vola colomba” era sicuramente l’inno riconosciuto, con i suoi riferimenti a San Giusto e ai cantieri, con il doppio senso fra il ritorno della persona amata dietro il quale era facile individuare la volontà del ricongiungimento di Trieste all’Italia. Ma erano molto popolari anche cantanti come Luciano Tajoli e Claudio Villa». Conclude Berni: «I dischi si trovavano soprattutto in un negozio di via Mazzini, un’ex mensa degli ufficiali americani che anni dopo sarebbe diventata la “Casa del disco” (locali attualmente occupati da un parrucchiere unisex, accanto alla libreria Feltrinelli - ndr). Ma oltre ai dischi erano molto diffusi anche gli spartiti dei vari successi...». In quel 1954 Lelio Luttazzi, dopo gli anni a Milano con Teddy Reno alla Cgd, e quelli a Torino come direttore dell’orchestra Rai, si trasferisce a Roma per dirigere una delle orchestre Rai di musica leggera con le quali parteciperà a diversi programmi di varietà: il primo di una lunga serie fu “Il motivo in maschera”, presentato da Mike Bongiorno. E anche l’altro triestino illustre, il citato Teddy Reno, in quell’anno veleggia verso il successo fra canzone e cinema, fra radio e la neonata televisione. Con Trieste nel cuore.

venerdì 24 ottobre 2014

Marco ANZOVINO, libro-cd Turno di notte, domenica a trieste

“Turno di notte”, un libro e un cd del pordenonese - musicista e “educatore di trincea sul fronte della tossicodipendenza” - Marco Anzovino. Che presenta l’opera oggi a Verona, domani alle 18 alla “Feltrinelli” di Udine, domenica alle 18 al Caffè San Marco di Trieste. E poi l’8 novembre a Maniago, il 13 a Padova, il 14 a Mestre, il 15 a Gorizia (15.30, da Ubik), il 16 a Pordenone (10.30, a Cinema Zero). «Chiunque ha la fortuna - dice Anzovino, “fratello d’arte” del jazzista Remo - di svolgere una professione a contatto con altri esseri umani che vivono situazioni di disagio, ha la possibilità di migliorarsi, di rimanere in contatto con le cose vere della vita». Cos’ha imparato? «Ad ascoltare e osservare, a stare accanto a chi vive la disperazione più buia e non ha più niente, neanche la sua dignità. Con i ragazzi ho imparato a conoscermi e a essere vero e onesto. Loro ti affidano la loro vita, si fidano di te. La relazioni che instauri con loro deve essere pulita, diversa da tutto ciò che hanno conosciuto prima di entrare in comunità. Ho imparato che è necessario saper lavorare con gli altri». Perché un libro? «Dopo dieci anni di lavoro ho voluto raccontare chi sono questi ragazzi del nostro nordest, giovanissimi ma già alle prese con il recupero della loro vita. Sono tanti, sempre di più. Sono quelli che non vuole più nessuno, lontani dalla scuola e dalle loro famiglie. Sono fragili, in grado di autodistruggersi. Ma ho voluto raccontare anche chi sono le persone che ogni giorno, con pazienza, caparbietà, professionalità, affetto, equilibrio e passione li aiutano a risollevarsi». Anche con la musica... «La musica è un motore, uno strumento talvolta salvifico. Da adolescente ero timido, introverso e vulnerabile. Ho avuto la fortuna di incontrarla, canalizzandovi dentro il linguaggio del mio disagio. Con i ragazzi in comunità ho realizzato in dieci anni 14 album di canzoni scritte e interpretate dai ragazzi e una quarantina di concerti. Nel disco canto tre brani scritti da Silvia, Rosario e Filippo, i protagonisti del libro. Per scrivere gli altri 8 brani sono partito dai loro. Avevo bisogno sia del racconto narrativo che delle canzoni per tenere assieme il tutto». Il suo rapporto con Remo? «Speciale, anche fuori dal palco. Condividiamo e confrontiamo pensieri ed esperienze. Un anno fa l’ho invitato a tenere un incontro musicale con i nostri ragazzi. Credo si sia emozionato nel conoscerli e nel vedermi lavorare con loro. Mi ha detto che avrei dovuto raccontare il mondo delle comunità terapeutiche, di questo mio lavoro con la musica nel campo della tossicodipendenza». Dopo questo lavoro? «Questo tour di presentazioni del libro-cd (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, pagg. 173, euro 14) e del disco in tutto il nordest. Non vedo l’ora di condividere con più persone possibili riflessioni ed emozioni. Continueranno i concerti con Remo, gli spettacoli con il comico Gianpiero Perone ed inesorabilmente i miei turni di notte nella Comunità Villa Renata al Lido di Venezia».

GILBERTO GIL oggi a Roma, 1-11 a trieste, rossetti

Vacanze italiane con annessa tournèe per Gilberto Gil. Primo concerto stasera a Roma, nell’ambito di un breve tour che sabato primo novembre farà tappa al Politeama Rossetti di Trieste, per poi concludersi il 6 novembre a Padova. «Io e mia moglie Flora - ha spiegato il musicista, classe 1942, nato a Salvador - abbiamo deciso di fare un viaggio per vedere i posti storici che non avevamo mai visitato. Una vacanza da turisti, io e lei, con un’automobile per spostarci liberamente. E così ho deciso di fare anche dei concerti. Insomma, siamo soli io, lei e la mia chitarra...». Da solo sul palco, allora, senza gruppo... «Mi piace stare da solo sul palco, lo trovo molto interessante. Ma sono combattuto proprio fra questi due sentimenti: sono a mio agio perchè posso decidere sul momento che cosa fare, quali canzoni proporre. Al tempo stesso c’è un lato negativo, perchè mi manca la compagnia degli altri musicisti con sui suono abitualmente». «Cantare e suonare la chitarra sono le cose che mi vengono più naturali. È il mio modo di fare musica, è come compongo le mie canzoni e come mi diverto con la musica. Quindi stare da solo sul palco con la mia chitarra è il modo più naturale e semplice per arrivare al pubblico, riesco a trasmettere a chi mi ascolta un senso di intimità». Questo “Solo Tour” segue l’uscita dell’album “Gilberto’s sambas”, uscito nel maggio scorso, nel quale l’artista rende omaggio al maestro João Gilberto, assieme al figlio Bem e a Moreno Veloso, figlio di Caetano. «Non sono ancora riuscito a parlare con João al telefono e non sono ancora nemmeno stato a casa sua dopo che gliel’ho mandato. Spero che abbia avuto modo di ascoltarlo e che gli sia piaciuto; tra di noi c'è grande stima reciproca, io sono un fan del suo lavoro e so che anche lui segue il mio». «Ho scelto di lavorare con Bem e con Moreno innanzitutto perchè sono persone a cui voglio bene. Mio figlio è una delle persone che amo di più della mia vita e anche Mreno: l’ho visto nascere e crescere, è uno di famiglia. Il loro legame con la musica e la vita è forte. Sono ancora interessati alla musica, producono e hanno molti amici musicisti, hanno buon gusto e rispetto per quello che io e Caetano abbiamo fatto nella nostra generazione. Sono preparati per fare cose con noi, specialmente in termini di lavoro di studio». Sono passati cinquant’anni, da quando un giovanissimo Gilberto Gil partecipò nel ’64 allo show di bossa nova e di canzoni brasiliane tradizionali “Nós Por Exemplo”, dove incontra Maria Bethânia, Gal Costa, Veloso. Con cui poi crea il movimento del Tropicalismo. «La bossanova è in realtà ben ancorata anche alla modernità, è qualcosa di molto bello e orecchiabile, di grande appeal. Ha dato il modo a molti musicisti di tutto il mondo di scoprire approcci diversi alla pop music. Sì, arriva dal passato, ma ha rappresentato una grande novità in un momento specifico, poi è diventata qualcosa di regolare e allo stesso tempo leggendario. Possiamo dire che ora la bossanova ha tutto: arriva dal passato, è stata adottata da tutti e allo stesso tempo mantiene sempre un’aura di leggenda, di qualcosa di spirituale». Ma in Brasile Gil - che ai tempi della dittatura fu costretto all’esilio - è stato anche ministro della cultura, dal 2003 al 2008. «Era un momento di grande cambiamento politico. Lula rappresentava qualcosa di nuovo, collaborare con lui è stato stimolante: ho avuto la possibilità di proporre nuove direzioni e idee per la cultura. Che aiutassero a includere tutti quelli che erano tagliati fuori. Il contributo che potevo dare l’ho dato...». L’era di Lula è finita, domenica il Brasile va al ballottaggio. «Purtroppo non potrò votare perché sono in Italia. Io “tifavo” per Marina Silva, che è uscita sconfitta al primo round. Dilma Rousseff è stata eletta quattro anni fa per continuare i programmi di Lula, ma poi si è trovata a fronteggiare la difficile situazione economica internazionale. Il Brasile è stato uno dei paesi colpiti più duramente dalla crisi e Dilma ha fatto un buon lavoro: è riuscita a non permettere alla crisi di allargarsi sempre di più ed è anche riuscita a portare avanti alcuni dei programmi di sviluppo creati da Lula». Conclude il musicista: «Aspetto i risultati, faccio un grosso in bocca al lupo a entrambi - che sono molto preparati - e auguro loro il massimo della fortuna».

RUDY LINKA lun a trieste, teatro Miela

Rudy Linka torna lunedì a Trieste, per un concerto in trio al Teatro Miela. Originario di Praga, vive da anni fra New York e la Repubblica Ceca, dove organizza ogni anno il Bohemia Jazz Fest. È considerato uno dei migliori chitarristi jazz, ha collaborato con alcuni dei maggiori jazzisti. «Ho studiato chitarra classica e composizione - dice Linka - e prima ancora violino. Penso che sia stata un’ottima cosa. Un percorso accademico sviluppa sensibilità e musicalità, utili per qualsiasi cosa poi si faccia». La “sua” Praga? «È sempre stata una città molto musicale e io sono stato fortunato a vivere in una famiglia che è sempre stata molto legata alla musica. Era un mondo che ruotava soprattutto attorno alla musica classica. Le cose stanno cambiando, ma molto lentamente». Jim Hall, John Abercrombie, John Scofield: cosa ha imparato da loro? «Sono stato fortunato per aver avuto la possibilità di studiare con questi artisti formidabili e di essere diventato loro amico. Ci sono moltissime cose che ho imparato da loro ma non saprei citarne una in particolare. Sono musicisti che danno un significato a ogni nota che suonano. Perchè bisogna raccontare una storia con la propria musica, non limitarsi a suonare delle note». Il Bohemia Jazz Fest? «C'è così tanta musica di qualità a New York, ma in passato quasi niente succedeva a Praga. Ho organizzato il festival per portare il jazz di alto livello a tutti ed è stupefacente quanto il festival abbia avuto successo. Quest’anno siamo stati in nove città, con la partecipazione di oltre novantamila spettatori». La collaborazione con TriesteLovesJazz? «Amo Trieste e sono passati diciotto anni da quando sono venuto a suonare per la prima volta. Il grande batterista Gabriele Centis è stata la mia prima scelta per rappresentare l’Italia nella prima edizione del Bohemia Jazz Festival nel 2006. Lui apprezzò moltissimo il festival e partì con TriesteLovesJazz l’anno successivo. Abbiamo una stretta collaborazione e molti artisti che suonano qui suonano anche da noi». Cosa propone lunedì? «Questo tour si intitola “Acoustic & electric”, come il mio ultimo album. È una sorta di “libro musicale”, con due cd e un booklet di cento pagine. È una retrospettiva del mio lavoro degli ultimi vent’anni con la partecipazione di artisti come Scofield, Paul Motian, Abercrombie, George Mraz...».

martedì 21 ottobre 2014

SPANDAU BALLET, oggi e domani al cinema, a marzo in tour

Ieri sera anteprima al Festival internazionale del film di Roma, oggi e domani uscita italiana della pellicola (anche a Trieste, a “The Space” delle Torri e al Nazionale), il 27 marzo concerto a Padova, al PalaFabris, unica data triveneta del tour. Stiamo parlando degli Spandau Ballet, gruppo simbolo degli anni Ottanta, e del loro film “Soulboys of the western world”. Nel Regno Unito è fra i campioni di incassi della stagione cinematografica, acclamatissimo da pubblico e critica già all’anteprima di venti giorni fa alla Royal Albert Hall. La formazione originaria era composta dai fratelli Gary e Martin Kemp, dal sassofonista e percussionista Steve Norman, dal cantante Tony Hadley e dal batterista John Keeble, con l’aggiunta quasi fissa del tastierista Toby Chapman. Gruppo “new romantic”, caratterizzato da uno stile pop elegante e raffinato, gli “Spands” (così li chiamavano i fan in patria, quelli italiani preferivano semplicemente “Spandau”) hanno contribuito a scrivere la colonna sonora degli anni Ottanta. Vendendo fra l’altro 25 milioni di dischi. Dopo lo scioglimento alla fine degli Ottanta, con tentativi assortiti di carriere soliste, sono tornati assieme nel 2009 con l’album “Once more” e il conseguente tour. La settimana scorsa è uscita la raccolta “The story: The very best of Spandau Ballet” (i più grandi successi e tre nuove canzoni), ora arriva il film. Firmato da George Hencken, racconta la storia di un gruppo di ragazzi della classe operaia di Londra, capaci di creare un impero musicale globale. Filmati, materiale privato, spezzoni di concerti, scene dai backstage: tutto contribuisce a creare l’affresco (emozionante soprattutto per chi c’era) di un'epoca, non solo musicale.

sabato 18 ottobre 2014

GARY BRACKETT, dal LIVING THEATRE a Trieste

Quando nell’aprile ’65 il Living Theatre arrivò per la prima volta a Trieste, e Julian Beck e Judith Malina finirono la serata in questura, Gary Brackett aveva appena cinque anni. Mezzo secolo dopo i fatti (“Mysteries and smaller pieces”, andato in scena all’Auditorium, sala da anni chiusa e adiacente proprio alla questura, prevedeva alcune scene di nudo che “infastidirono” alcuni spettatori oltre a un commissario presente in sala...), l’artista del North Carolina vive e lavora proprio a Trieste. Ha cominciato a collaborare con il Living a metà degli anni Ottanta, non ha fatto in tempo a lavorare con Julian Beck, scomparso nell’85, ma ha affiancato per anni Judith Malina nelle attività del leggendario teatro d’avanguardia, nato a New York nel ’47. Oggi è il responsabile di Living Theatre Europa. Gary, aveva sentito parlare della serataccia triestina? «Sì, Judith e altri attori me ne avevano parlato. Fu un’esperienza per loro molto dura. Anche se poi, quando andarono a lavorare nel Brasile ancora sotto la dittatura, conobbero ben di peggio: due mesi di carcere con l’accusa di possesso di droga...». Come nasce la sua storia? «Conosco tanti che da piccoli sognavano di scrivere, suonare, dipingere. Ho sempre pensato che l’arte, in fondo, non sia una scelta ma una necessità. In Italia e, in generale nelle economie occidentali, oggi si parla in continuazione di crisi, stagnazione economica... Il potenziale creativo degli artisti tuttavia non è in crisi né in calo. Sono convinto sia, in fondo, la forza che ha generato il mondo. Penso dovremmo entrare nell’ottica che è fra le poche risorse per far esplodere un rinascimento anche economico». Prima del Living? «Ho studiato Scienze politiche alla Chapel Hill University, dove ho cominciato a interessarmi di arte e politica. Sia durante gli anni di studio che più tardi, a Boston, sono stato ideatore di diversi spazi simili a PerForm, comunità di artisti e istruttori di diverse discipline che condividevano una visione e uno spazio di lavoro collettivo». Com'erano gli anni newyorkesi? «Vi arrivai alla fine degli anni Ottanta durante l’aspra lotta degli artisti dell’East Village contro la “gentrification” (insieme dei cambiamenti urbanistici e socio-culturali di un’area urbana tradizionalmente popolare, risultanti dall’acquisto di immobili da parte di popolazione benestante - ndr). La comunità culturale, in senso lato, all’epoca stava a fianco degli attivisti anarchici, sentivamo di essere parte di un grande comunità. In questo contesto ho incontrato anche Shannon Gannon e David Life, i miei maestri di yoga. Avevano appena aperto una scalcagnata scuola in Union Square, la Jivamukti». E lei...? «Come tutti gli artisti non avevo un soldo, andavo ad aiutarli a pulire la scuola e a sbrigare le faccende amministrative in cambio di lezioni di yoga. Oggi la scuola Jivamukti è una delle più importanti al mondo, Shannon e David sono delle “superstar”. Ma lo spirito è rimasto invariato, anche loro sono creature del rivoluzionario, poetico, visionario East Village di quegli anni, che sono rimasti coerenti al sogno di mettere in azione le loro idee per cercare di cambiare il mondo. Loro sicuramente hanno cambiato quello dello yoga». Come è approdato al Living? «Ah... è facile diventare una Living Creature. Li ho incontrati per caso, grazie a un meraviglioso artista, Rain House, scomparso purtroppo qualche anno fa. Lui si era fatto il primo tour di “The Brig” in Europa nei primi anni Sessanta. Lo incontrai a Boston, per caso, e per caso fui introdotto a Judith. Ma forse niente è per caso...». Che ricordi ha di Julian Beck e Judith Malina? «Julian era appena scomparso quando incontrai il Living. Lei stava faticosamente ma testardamente cercando di rimettere assieme i pezzi della compagnia dopo il trauma della perdita di Julian. Judith è stata la mia grande maestra di vita. Il suo spirito di collaborazione, la fiducia, il rispetto e la curiosità che ha sempre avuto e continua ad avere nei confronti dei giovani mi ha colpito. Ho sentito la necessità di raffinare la mia arte, il mio pensiero e di trovare il modo più efficace di comunicare. E poi, che dire... ho lavorato come un mulo per Judith e per il Living per oltre vent’anni. Ma lei lavorava con noi, 24 ore su 24, sette giorni su sette per creare un’alta forma artistica capace e degna di veicolare i suoi ideali. Era e rimane per me più alto esempio di artista, attivista e rivoluzionaria. Che cos'è il Living Theatre Europa? «Direi una propaggine proteiforme del Living Theatre. L’abbiamo fondata quasi quindici anni fa con Judith Malina e Hanon Reznokov, secondo marito di Judith prematuramente scomparso nel 2008. Nacque come la casa europea delle iniziative della Compagnia e quando Judith decise di tornare stabilmente a New York iniziai a occuparmene io. Dopo anni di vagabondaggio si è fermata a Trieste, ha preso la forma di questa splendida nuova avventura: PerForm, il nostro spazio di arti performative e discipline del corpo». Trieste come entra nella sua storia? «”Colpa” di mia moglie, che è nata in questa regione... In realtà la mia prima volta a Trieste fu quando venni invitato quasi vent’anni fa da Aldo Vivoda, artista che stimo molto. Con mia moglie abbiamo deciso di trasferirci qui nel 2009. In questi anni ho collaborato con diversi gruppi, fra tutti il Gruppo Anarchico Germinal. A Trieste stiamo bene: era venuto il momento di decidere di fare qualcosa qui, dopo anni di vagabondaggio era il tempo di fermarsi. Che cos’è “PerForm”? «”PerForm” è un sogno che si realizza. Nella mia carriera ho condotto centinaia di laboratori, con migliaia di studenti in tutto il mondo. Ho deciso di fermarmi a Trieste per riuscire a dare una casa a questa lunga e preziosa storia errante. Mia moglie e io abbiamo costruito PerForm attorno al desiderio di dare forma e casa al meraviglioso network di artisti e istruttori di altissimo livello che in tutti questi anni hanno incrociato le nostre vite, personali e professionali. Abbiamo inaugurato i corsi il 22 settembre e domani, dalle 18, apriremo le porte del centro per un brindisi inaugurale con amici, studenti, sostenitori e “curiosi” per iniziare al meglio questa avventura». L’obiettivo? «Offrire, attraverso la pratica delle discipline del corpo e dell’indagine performativa, un percorso che avvicini all’equilibrio. Sarà un ricerca intensa, personale, divertente, gratificante. Promuoviamo un approccio libero, aperto a diverse influenze ma non necessariamente legato a dottrine o filosofie specifiche...».

X FACTOR, SPRITZ FOR FIVE avanti, LES BABETTES ripescabili

Avanti a tutto “Spritz”. L’annata dei triestini a “X Factor” prosegue e comincia a dare i suoi verdetti, anche se la gara vera e propria comincia soltanto la prossima settimana. Nelle audizioni viennesi, andate in onda l’altra sera su SkyUno, Morgan ha scelto fra i tre componenti della sua squadra gli Spritz For Five e ha scartato Les Babettes, indicandole però per il possibile ripescaggio. L’altro triestino, il rapper Ricky Yane, era già stato eliminato la settimana precedente. Il meccanismo del “talent” prevede ora che i quattro “ripescabili” indicati da ogni caposquadra - Victoria Cabello per le “under 24 donne”, Mika per gli “over 25”, Fedez per gli “under 24 uomini”, Morgan per i gruppi - siano votati dal pubblico sul sito del programma. Giovedì prossimo, prima puntata dal vivo, dopo quelle registrate andate in onda finora, verranno annunciati i due nomi più votati. Che poi si giocheranno l’ingresso in squadra nella puntata del 30 ottobre. Gli Spritz For Five stanno andando alla grande. Morgan stravede per loro e dice che li porta in finale. Anzi, l’altra sera, nel comunicar loro la scelta “con uno sguardo che vale più di tante parole”, si è spinto a dire “vinciamo di nuovo” (riferimento alle precedenti otto edizioni, sei delle quali vinte dai suoi protetti...). Ma anche Fiorello ha “adottato” i cinque triestini, indicandoli su Twitter fra i possibili finalisti. Loro - Marco Obersnel, Piero Gherbaz, Rocco Pascale, Nicola Pisano e Giulio Bottecchia, età fra i diciotto e i ventisei anni - sono già “reclusi” nel loft milanese che fa da base dei concorrenti, e secondo le rigide regole della casa non possono avere contatti con l’esterno, nemmeno con i propri familiari. Si sa però che il gruppo è nato nel febbraio 2013, e che il nome è venuto fuori il 25 marzo di quell’anno, tornando da un’audizione alla quale avevano partecipato “in una giornata di gelo e neve”. Escono dalla rete di musica corale a cappella triestina: cantavano nello stesso coro. Suonano violino, pianoforte, flauto traverso, metallofono, ma considerano anche la voce uno strumento. Fra i gruppi a cappella si ispirano al Real Group e ai King Sisters, mentre nel loro “iPod comune” ci sono Elisa, Bjork, Beyoncè, i Queen e i Coldplay. Secondo loro «ognuno ha la sua idea di “x factor”, per noi è quella cosa che fa di un bravo cantante qualcosa di più, cioè un vero artista. Noi comunque abbiamo già lo “spritz factor”...». L’altra sera hanno convinto Morgan - ed Eugenio Finardi, che lo affiancava - con l’esecuzione a cappella del brano “Radioactive”, degli americani Imagine Dragons. Les Babettes hanno invece proposto “Heartbeats”, del gruppo elettropop svedese The Knife, ricevendo molti complimenti da Finardi e da Morgan, che però ha poi motivato la non scelta con una presunta difficoltà di posizionamento delle ragazze nell’attuale mercato discografico italiano. «Anche se - sottolinea Chiara Gelmini, che con Eleonora Lana e Anna De Giovanni forma il trio -, indicandoci subito dopo per il ripescaggio, evidentemente non ne è del tutto convinto. Questa partecipazione ci sta facendo lasciare, almeno temporaneamente, la musica swing dalla quale siamo partite e nella quale ci muoviamo con sicurezza, per esplorare altri territori musicali, diciamo più pop». «Lo facciamo però - prosegue - senza snaturarci. Puntiamo sempre sulla qualità, l’eleganza, l’ironia e quel senso della disciplina che ci è stato riconosciuto da Mika in una delle prime audizioni. Insomma, non vogliamo trasformarci in una sorta di One Direction al femminile...». Ancora Chiara: «Finora per noi è stata comunque una grande avventura, partire da Trieste per metterci in gioco in un contesto nazionale e in un programma così seguito. Bella anche l’esperienza dei tre giorni a Vienna, quest’estate, a cantare accompagnate dal New Quartet, in quella storica sala da concerti che è il Kursalon: Morgan l’ha scelto proprio per creaee un rapporto con la storia della musica, in bilico fra passato e presente...». «Ora comunque - conclude - per continuare questa avventura, è importante che il pubblico ci voti. Triestini, e non solo triestini, andate sul sito del programma e non fateci mancare il vostro appoggio...».

venerdì 17 ottobre 2014

MARCO CAPPELLI, lunedì a trieste, teatro miela

Metti un chitarrista napoletano a New York. Che vive e lavora da dieci anni negli Stati Uniti. Ma non dimentica le sue radici e torna spesso a suonare nel suo Paese. Lui si chiama Marco Cappelli, e con il suo Acoustic Trio lunedì alle 21 sarà in concerto al Teatro Miela. «Il mio background - spiega il musicista - è quello di un chitarrista classico: dopo il diploma al conservatorio a Napoli ho studiato con Oscar Ghiglia alla Musik Akademie di Basilea e ho suonato molta musica contemporanea, approdando poi a New York dove ho sviluppato in particolare i miei interessi legati al jazz e alla musica improvvisata». Perchè New York? «Ormai sono passati dieci anni. Accadde tutto un po’ per caso. New York è la mecca di tutti i musicisti, e io mi interessavo a certe musiche d'avanguardia che lì hanno casa da sempre. Studiando repertori contemporanei un po’ “estremi” mi imbattei nel “Book of heads” di John Zorn, e conobbi Marc Ribot, che di quelle musiche è stato il primo interprete. Marc mi invitò a passare un mese a New York nel 2002, ma mi trovai talmente a mio agio che decisi di rimanervi». Che legami ha con l’Italia? «Torno spesso. Insegno per metà dell'anno al Conservatorio di Palermo, facendo salti mortali per conciliare insegnamento e concertismo. E suono stabilmente con due formazioni italiane: l’Ensemble Dissonanzen di Napoli e Italian Surf Academy, un quartetto con il batterista Francesco Cusa, il bassista Luca Lo Bianco e VJ Lapsus (Andrea Pennisi). Siamo appena tornati da un tour fantastico in Asia e California». Cosa suona a Trieste? «Farò tappa a Trieste il giorno dopo aver suonato al Novara Jazz Festival, sulla strada verso il Belgrade Jazz Festival e altri concerti tra Slovenia, Croazia e Serbia. Sono in tour con un nuovo progetto del mio Acoustic Trio, formazione dal sound squisitamente newyorkese con il bassista Ken Filiano e il percussionista Satoshi Takeishi». «Nell’occasione - prosegue - debuttiamo con un progetto nuovo, che include un ospite prestigioso: il clarinettista Oscar Noriega. Con l’Acoustic Trio abbiamo due dischi all’attivo, entrambi dedicati a scrittori di “noir”. Il primo s’intitola "Les Nuages en France" ed è dedicato a Fred Vargas, mentre il secondo - pubblicato nel 2013 per l'etichetta Tzadik di John Zorn - s’intitola “Le stagioni del commissario Ricciardi”, dedicato allo scrittore Maurizio De Giovanni». «La prossima settimana - conclude Cappelli - saremo al Teatro Garibaldi di Palermo per un lavoro teatrale con l’attore Andrea Renzi su un testo inedito proprio di Maurizio De Giovanni. Lo spettacolo s’intitola “Sonata per il commissario Ricciardi”».

mercoledì 15 ottobre 2014

PRINCE, due album in una botta sola

PRINCE Art official age - PlectrumElectrum (Warner) Due album in una botta sola per Prince, l’ex genietto di Minneapolis, classe 1958, vero nome Roger Nelson, che ha segnato con la sua musica soprattutto gli anni Ottanta. “Art official age” è scritto, suonato e prodotto da lui assieme a Joshua Welton: album molto rilassato, elegante, elettronico. “PlectrumElectrum” è il disco della sua band al femminile, le 3rdEyeGirl (Donna Grantis chitarre, Hannah Ford Welton batteria, Ida Nielsen basso) con le quali ha trionfato nell’ultimo tour inglese. Il primo disco è un omaggio alla techno e al funky di cui il nostro è maestro, in bilico fra elettronica e ballad. Ma è il secondo album quello forse più stimolante. Esalta infatti l’aspetto più rock dell’artista, con riff di chitarra anni Settanta, tentazioni zappiane, ardite discese pop e ovviamente funky. Come nel conclusivo “Funkroll”, che profuma di musica nera, grazie anche alle ragazze che lo accompagnano.

CAT STEVENS, nuovo disco dopo 5 anni

All’ultimo Sanremo la sua esibizione ha coinciso con uno dei (pochi) momenti “alti” dell’intero festivalone. Ora Cat Stevens - che da quando ha abbracciato la fede musulmana ha aggiunto al suo nome quello di Yusuf Islam - ritorna con un album e un tour. Il disco, “Tell ’em I’m gone” (Legacy - Sony), arriva dopo cinque anni di silenzio. La tournèe mondiale, “Peace train... Late again tour”, comincia il 4 novembre da Londra e per la prima volta dalla fine degli anni Settanta toccherà anche il Nord America. Una sola data in Italia: l’11 novembre da Milano, al Forum di Assago. Ma per chi parte dalle nostre zone c’è anche la tappa del 13 novembre a Vienna, allo Stadthalle. Vero nome Steven Demetre Georgiou, nato a Londra nel 1948, l’artista è figlio di padre greco-cipriota e madre svedese. Cresciuto nel quartiere londinese di Soho, sopra il ristorante di famiglia dove veniva spesso suonata musica popolare greca, dalla quale è stato molto influenzato, Cat Stevens ha debuttato giovanissimo nel ’67 con gli album “Matthew and son” e “New masters”, ma ha cominciato ad aver successo con dischi come “Mona Bone Jackon” e “Tea for the tillerman” (1970), per poi esplodere fra il ’71 e il ’72 con “Teaser and the firecat” (con brani diventati classici come “Morning has broken”, “Peace train”, “Moonshadow”...) e “Catch bull a four”. Altri dischi, altro successo, poi la conversione all’islam che lo allontana per diversi anni dalle scene, e ora questo ritorno. Registrato fra Los Angeles e Dubai, Bruxelles e Londra, l’album propone dieci nuove registrazioni in studio: cinque brani originali e cinque cover. “Dying to live” è il singolo che ha fatto da apripista alla raccolta. Fra gli altri titoli: “Doors”, “I was raised in Babylon”, “Big boss man”, “You are my sunshine”, la “Tell ‘em I’m gone” del titolo. Brani che scandagliano i territori della musica che ha ispirato il musicista sin dall’adolescenza, ovvero il blues e il rhythm’n’blues, mischiati a quel pop di cui divenne uno dei maggiori protagonisti a cavallo fra gli anni Sessanta e Settanta. I temi sono ancora e sempre quelli della ricerca della pace e della libertà per tutti gli uomini e tutti i popoli. L’album - prodotto da Rick Rubin e dallo stesso Cat Stevens - vede la collaborazione di musicisti quali Richard Thompson, Charlie Musselwhite, Bonnie “Prince” Billy, Tinariwen e il chitarrista Matt Sweeney. Il disco è il primo dell’artista che esce per l’etichetta Legacy Recordings, nell’ambito di una collaborazione che comprenderà sia nuovi progetti che la riedizione di titoli di catalogo già esistenti, attingendo anche ai materiali inediti audio e video registrati dal vivo e rimasti finora negli archivi personali di Cat Stevens.

Massimo FERRANTE, canti del sud domenica a teatro Miela, trieste

Un omaggio alla musica popolare del Sud d’Italia, e della Calabria in particolare. È quello che proporrà, domenica alle 18 al Teatro Miela, Massimo Ferrante (chitarra e voce), accompagnato da Francesco Di Cristofaro (fiati e fisarmonica), Francesco Manna (tamburi) e altri ospiti. «Canto da sempre, vengo da una famiglia “canterina”, mio padre era “il cantante del paese” - racconta Ferrante, calabrese di Joggi, un paese in provincia di Cosenza -. La prima chitarra a tredici anni, le serate nei locali della costa calabrese. Poi, trasferitomi a Napoli per l’università, comincio a suonare con il chitarrista e cantante Francesco Sansalone: musica popolare, blues, cantautorato italiano e straniero». Anni di collaborazioni. «Tante. Nel ’91 formiamo il gruppo vocale Quattro Quatti. Poi incontro Daniele Sepe, con il quale siamo già venuti a Trieste, proprio al Miela. Con lui abbiamo lavorato con Mario Martone (i “Dieci comandamenti” di Raffaele Viviani, anche al Rossetti di Trieste), con Alessandro Baricco nello spettacolo “Totem”, con José Seves degli Inti Illimani, tanti altri». La Calabria? «Una regione nella quale è molto viva l’attenzione alla musica popolare e tanti sono i gruppi che se ne occupano. Sud non vuol dire soltanto pizziche, tammurriate e tarantelle. Spesso si trascurano altre forme degne di attenzione: serenate, leggende canti di lavoro, canzoni di impegno civile...». Lei suona anche all’estero. «Dove l’accoglienza è sempre molto affettuosa e calda. Sarà che c’è molta attenzione per la canzone italiana in genere, ma è sempre emozionante vedere gente che non comprende quello che dici ma percepisci nettamente le emozioni che riesci a trasmettere. Ricordo l’ultimo concerto fatto in Svezia in duo con Lutte Berg, davanti a un pubblico di soli svedesi, assolutamente coinvolti». Al Miela cosa propone? «Un repertorio di canti di tradizione ma anche qualche mia rivisitazione. Sicuramente “L’occhiu di lu suli”, con versi presi dal canzoniere italiano di Pasolini, “La leggenda di Colapisci”, che risale al periodo della dominazione normanna in Sicilia. E poi “Klama”, una canzone in griko salentino di Franco Corlianò, “La gallinella” che ho ripreso da un Lomax degli anni Cinquanta, ma anche qualche tarantella calabrese e pizzica salentina». «Ci tengo a ricordare - conclude il musicista - che fra gli ospiti che avremo sul palco al Miela ci saranno il gruppo Rosamarina, Max Jurcev dei Max Maber, Andrea Medeot degli Shukar 4et e Andrea Pandolfo del trio Caterina. Venite, vi faremo divertire...».

domenica 12 ottobre 2014

ONE DIRECTION, where we are, sab e dom anche a trieste

Arriva oggi e domani nei cinema di mezzo mondo “Where we are”, il film concerto degli One Direction registrato allo stadio di San Siro, Milano, nel corso dell’ultimo tour mondiale della boyband attualmente più amata dai giovanissimi. Il film - proposto a Trieste allo “Space” delle Torri e al Nazionale, ma anche a Monfalcone, Gorizia e Udine - propone settantacinque minuti di show, la cui scaletta include tutti i successi del gruppo, da “What makes you beautiful” a “Story of my life”, da “Live while we’re young” a “Best song ever”, preceduti da un’intervista inedita ai cinque ragazzi montata con materiali registrati nei backstage dell’ultimo tour. «La cosa più bella dello scrivere canzoni è l’idea che poi un giorno le eseguirai dal vivo di fronte a una folla di gente - dicono le giovani star nel film -. E quando ti esibisci è bellissimo perché vedi milioni di persone cantare i testi delle tue canzoni e capire perfettamente ciò che tu vorresti dire...». Fra oggi e domani il film verrà proposto in contemporanea in cinquanta paesi, per un totale di oltre diecimila proiezioni. Probabilmente un record. Che andrà a rafforzare un primato già consolidato: gli “1D” (così si chiamano nel linguaggio dei social network...) sono la boyband più ricca della storia della musica inglese, con un patrimonio di circa 14 milioni di sterline a testa, per un totale di settanta milioni. Soltanto nel 2013, fra tour, dischi venduti (finora oltre quaranta milioni) e introti vari, la band avrebbe incassato più di 45 milioni di sterline. Ma vediamo chi sono questi cinque ragazzi di origini anglo-irlandesi: Niall Horan, Zayn Malik, Liam Payne, Harry Styles e Louis Tomlinson. Terzi all’X Factor inglese del 2010, sono diventati star planetarie grazie a tre album (“Up all night”, “Take me home” e “Midnight memories”, usciti fra il 2011 e il 2013), e al fondamentale supporto dei “social”. La loro ricetta: pop semplice ma di buona fattura, ritornelli di quelli che non faticano a entrarti nelle orecchie, cori e coretti costruiti con cura. Il tuto unito al fatto che i cinque, secondo i gusti delle ragazzine piangenti e urlanti ai loro concerti, sono bellocci al punto giusto. Non è la loro prima volta al cinema. Il film “3D One Direction: This is us” ha sbancato i botteghini di mezzo mondo, con in incasso di settanta milioni di dollari. E il recente “Where we are tour 2014”, da cui è tratto questo film, ha riempito gli stadi di Europa, America Latina, Australia e Stati Uniti, con quasi quattro milioni di biglietti venduti. Nell’ambito dello sfruttamento intensivo di un fenomeno planetario come gli One Direction, non possono mancare i libri. In “Who we are”, Niall Horan confessa di avere dei rimpianti. Il cantante ha detto di essere dispiaciuto del fatto che la sua infanzia sia finita “troppo presto” e, soprattutto, di non aver finito le scuole. «La mia infanzia - dice - è finita nel momento in cui ho partecipato a “X Factor”. I One Direction hanno avuto successo e io non ho mai avuto l’opportunità di finire la scuola, dare gli esami e fare cose del genere. Dopo la mia prima audizione ho dovuto impacchettare tutta la mia vita nella borsa. A quel tempo non mi ero reso conto che la mia vita sarebbe cambiata per sempre. E non c’è niente che possa prepararti a tutto questo...». Coraggio, verrebbe da dire: c’è chi sta molto ma molto peggio. L’avanzata degli One Direction, intanto, continua. Dopo questo week end musical cinematografico, è già fissato il prossimo appuntamento. A novembre esce il nuovo album, il quarto, e s’intitolerà per l’appunto “Four”. È già stato anticipato dal singolo “Steal my girl”.

venerdì 10 ottobre 2014

MARIO BIONDI sab a trieste, barcolana festival

Da pochi mesi la già numerosa famiglia di Mario Biondi è aumentata. È arrivato infatti il figlio numero sette. «Sì, siamo come quelle belle famiglie meridionali di una volta - dice il crooner catanese, classe ’71, che domani sera torna a Trieste, in piazza Unità, per il Barcolana Festival -, anche se viviamo da oltre vent’anni al Nord, per l’esattezza fra Parma e Reggio Emilia». Che musica ascoltano, i ragazzi? «Ah, un po’ di tutto: da Justin Bibier a Rihanna, da Justin Timberlake agli One Direction...». I dischi di papà? «Li ascoltano, li ascoltano. Loro sono i miei primi sostenitori. Devo dire che, nonostante io li tenga quasi nascosti in casa, loro me li chiedono. Prediligono i pezzi meno noti, quelli “più intellettuali”, quelli che un tempo chiamavamo i “lati b”». Il figlio più grande quanti anni ha? «Diciotto. Un ragazzone con barba e un vocione che mi ricorda decisamente qualcuno. A volte, a sentirlo e guardarlo, mi fa quasi impressione...». Biondi, come si fa a diventare il crooner italiano più amato all’estero? «Me lo domando spesso anch’io. Io mi considero sempre “all’inizio” di qualcosa. È da venticinque anni che “comincio” questo, e poi quest’altro, e poi quest’altro ancora. Forse ho sfruttato il fascino esotico dell’italiano che canta in inglese. Diciamo che all’estero crea curiosità». Nell’ultimo disco canta anche in italiano. «Sì, in “Sun” c’è questa canzone, “La voglia, la pazzia, l’idea”, che avevo scritto nel 2000, o forse nel 2001. Il produttore del disco (Jean Paul Maunick, alias Bluey, leader degli inglesi Incognito - ndr) mi aveva detto che dovevamo mettere un brano in italiano. Quando gliel’ho fatto sentire, mi ha costretto a inserirlo». “Never stop” sembra un brano molto ottimista. Come lei? «Assolutamente sì. Io sono ottimista al punto da sembrare a volte un pazzo utopista. Forse è il mio difetto, o la mia forza. Diciamo che in tutti questi anni sono sempre andato avanti spinto da questa forza, ma a volte mi son preso anche dei bei schiaffoni dai quali non è stato facile riprendersi». “Sun” l’ha inciso fra New York, Los Angeles e Londra. Esterofilia? «No, una scelta obbligata lavorando con Maunick e volendo poter contare su collaborazioni con stelle come Chaka Khan e Al Jarreau...». Che la chiama “The voice”. Che effetto le fa? «Intanto mi viene ancora la pelle d’oca quando mi capita di parlare con lui, di sentire le sue lodi. Una volta Al, che ama molto l’Italia, mi ha scritto una dedica molto bella su un volantino. L’effetto è buffo e bellissimo al tempo stesso». Ha duettato anche con colleghi italiani. «Sì, e sempre imparando qualcosa. Con Claudio Baglioni, con Renato Zero, con i Pooh. E con il grande Pino Daniele. Lui era e rimane un mio mito. L’ho scoperto che ero un ragazzo, quando fece “Nero e metà”, di cui è appena stato festeggiato il trentennale. A parlare con lui, con cui c’è un rapporto abbastanza stretto, ancora mi emoziono». Questo “Sun european tour”, dopo l’anteprima a Trieste, non tocca l’Italia... «Abbiamo scelto di concentrarci su paesi come Inghilterra, Francia, Germania, Austria, Olanda, nei quali da qualche anno non eravamo più passati, dopo il lungo tour fra il 2006 e il 2008. Ma andremo anche a Istanbul, Lisbona, Mosca, Budapest. Il 14 ottobre saremo a Zagabria. E Trieste è il posto migliore per partire alla volta dell’Europa». Canterà vicino al mare, prima della grande regata velica... «Adoro il mare, anche se la mia carnagione nordica e molto poco siciliana mi impone di stare attento con l’esposizione al sole. Diciamo che il mare lo frequento “con le pinze”». E la vela? Va in barca? «Ci vado spesso, soprattutto da quando frequento Lampedusa. Però, non ho una barca, e non so se mi piacerebbe averne una. So però che la Barcolana è la più grande regata velica del Mediterraneo, sono contento di cantare a Trieste, dove ho sempre avuto una bella accoglienza, prima della grande giornata...».

giovedì 9 ottobre 2014

WILLIE NILE 15-11 a Trieste

È amico di Bruce Springsteen, suo coetaneo, che lo stima al punto da averlo voluto spesso come ospite nei suoi concerti americani, e con il quale ha spesso “incrociato le chitarre”. E Little Steven, chitarrista della E Street Band del Boss, una volta ha detto: «È talmente bravo che non ci credo, che viene dal New Jersey...». Stiamo parlando di Willie Nile, che il 15 novembre torna a Trieste, dopo le performance nel 2010 e nel 2011, per presentare al Naima Club (l’ex Macaki di viale XX Settembre) il nuovo album “American ride”. Cantante, compositore e chitarrista statunitense, vero nome Robert Anthony Noonan, classe 1948, Nile ha cominciato la sua carriera negli anni Settanta, facendo tanta gavetta nei locali del Village newyorkese. Il debutto discografico arriva nel 1980, con l’album omonimo che un critico musicale dell’epoca definì «uno dei più eccitanti album folk-rock dell'era post-Byrds». Seguì un secondo album, “Golden down”, uscito nell’82, dopo il quale la sua carriera discografica fu purtroppo interrotta per circa un decennio, a causa di problemi legali con la casa discografica. Risolti i problemi, nel ’91 l’artista ha ripreso a incidere dischi - in quell’anno uscì “Places I have never been” - e a suonare dal vivo. Costruendosi negli anni una schiera di fan che lo chiamano “one man Clash”, per la sua ammirazione nei confronti di Joe Strummer. “Beautfiful wreck of the world”, disco autoprodotto e pubblicato nel ’99, è stato inserito dalla rivista Billborad nella classifica dei dieci migliori album rock dell’anno. Ma un’ottima accoglienza ha accolto nel 2006 anche “Streets of New York”, omaggio alla sua città, e i dischi successivi: “House of a thousand guitar” nel 2009 e “Innocent ones” nel 2010 (con la classicissima “One guitar”). Nel corso degli anni l’uomo ha collaborato - oltre che con Springsteen - con Who, Ringo Starr, Elvis Costello, Lucinda Williams. Che una volta ha detto di lui: «Un grande artista. Se ci fosse un po’ di giustizia a questo mondo, dovrei aprire io i suoi concerti e non il contrario...». Ora Willie Nile torna in Italia per presentare il disco “American ride”, che negli Stati Uniti sta riscuotendo un buon successo. A Trieste il concerto è organizzato dall’associazione culturale “Trieste is rock”, che è molto legata all’artista americano, visto che è stato proprio lui, nell’aprile di quattro anni fa, a inaugurare con una grande performance al Teatro Miela l’attività del sodalizio. Al Naima Club il cantante e chitarrista apprezzato da Springsteen e Little Steven, ma anche da tanti altri, si presenterà con una band elettrica nell’atmosfera che predilige: il piccolo club che permette il contatto diretto e ravvicinato con il pubblico. Con lui, sul palco ci saranno Johnny Pisano al basso, Daniel Montgomery alla batteria, Jorge Otero alla chitarra.

BEATBOX BEATLES domani a trieste, barcolana festival

In pochissimi anni sono diventati una delle “tribute band” dei Beatles più apprezzate e richieste a livello europeo. Stiamo parlando dei Beatbox Beatles, che arrivano per la prima volta a Trieste per il Barcolana Festival. Saranno in piazza Unità domani, ad aprire la serata che poi prevede il concerto di Jack Savoretti; sabato è invece previsto lo show di Mario Biondi. «Tutto è nato nel 2010 - ricorda Mauro Sposito, che nel gruppo è John Lennon -, io e Alfio Vitanza (Ringo Starr) eravamo in Messico, in tour con i New Trolls. Nell’albergo nel quale alloggiavamo suonava una “tribute band” dei Beatles, che ci ha letteralmente folgorati. Gli strumenti, gli amplificatori, gli abiti, il taglio di capelli, ma soprattutto le atmosfere: sembrava veramente di essere tornati agli anni, alla magica epopea dei Fab Four...». Tornati in Italia, i due musicisti - ovviamente fan dei quattro da tempi non sospetti - hanno mollato De Scalzi e Di Palo alle loro diatribe con gli altri ex New Trolls (l’eredità del nome dello storico gruppo è finita in tribunale...) e si sono messi al lavoro. Innanzitutto hanno trovato altri due amici e colleghi per portare avanti il progetto: Riccardo Bagnoli («che per interpretare il ruolo di Paul McCartney è addirittura diventato mancino...») e Guido Cinelli (George Harrison) sono sembrati le persone giuste. Poi il lavoro di preparazione, non solo musicale, del progetto. «Sono passati solo quattro anni - prosegue Lennon/Sposito - e devo dire che le cose sono andate piuttosto in fretta. Abbiamo suonato in mezza Europa: Germania, Romania, Russia, ma anche in Giappone. Ovunque il pubblico apprezza molto il rigore direi quasi filologico con cui riproponiamo la leggenda dei quattro di Liverpool». «A Trieste - dice ancora il musicista - proponiamo lo spettacolo con cui abbiamo debuttato pochi mesi fa al Teatro Nuovo, a Milano. Sei cambi di scena, e fra un cambio e l’altro anche alcuni filmati, fra cui le “schegge” dedicate a Peppino Di Capri, che aprì gli unici concerti italiani dei Fab Four, e a Pete Best, il cosiddetto quinto Beatle». Fra i brani proposti: “Twist and shout” e “She loves you”, “A hard day’s night” e “Yesterday”, “Help!” e “Michelle”, “Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band” e “Lucy in the sky with Diamonds”, “Let it be” e “Get back”. Nello show, nulla è lasciato al caso. A cominciare proprio dagli abiti, uguali a quelli usati dai quattro negli anni della loro fulminante carriera. Si comincia dai semplici abiti neri, poi le famose giacche usate nel leggendario concerto americano allo Shea Stadium, per continuare con i vestiti colorati e psichedelici di “Sgt. Pepper”, fino ad arrivare al periodo della famosa copertina di Abbey Road nella quale i Beatles attraversavano quelle strisce pedonali, con McCartney a piedi nudi, diventate dal quel momento storiche. «Gli strumenti che usiamo sono gli stessi che usavano i Fab Four, ma non basta. Abbiamo accuratamente risentito i brani e studiato tutti i minimi particolare strumentali e vocali. Gli abiti originali (acquistati in America dalla stessa sartoria che li fece per loro durante il primo tour americano), i capelli, gli stivaletti e le movenze, hanno fatto il resto». Conclude Lennon/Sposito: «Apriamo con i brani dei tempi del Cavern. Chiudiamo con “Hey Jude”. In mezzo ci sono otto anni di classici che hanno cambiato la storia della musica. E non solo...». Quel che è venuto fuori, e che vedremo a Trieste, è più di un semplice tributo ai Beatles. Forse è anche un atto d’amore.

mercoledì 8 ottobre 2014

JACK SAVORETTI ven a trieste, BARCOLANA festival, ospite ELISA

Venerdì compie trentun anni. E li compie a Trieste, in piazza Unità, sul palco del Barcolana Festival. Inglese di origini genovesi, Jack Savoretti ha un legame particolare per l’Italia, dove torna sempre volentieri. A fine settembre ha anche partecipato al concerto-evento di Elisa all’Arena di Verona. E venerdì a Trieste, a sorpresa, duetterà ancora con Elisa. «Lei è un’artista straordinaria - dice il musicista, nato a Londra -, assolutamente internazionale. Spero di poter collaborare ancora con lei, ne abbiamo parlato, non c’è nulla di sicuro, ma penso che qualcosa faremo. All’Arena abbiamo fatto assieme una cover di “Ancora tu”, di Lucio Battisti...» ...che è un suo idolo. «Le sue canzoni sono state la colonna sonora della mia infanzia e adolescenza. Lo ascoltava spesso mio padre, ma posso dire di averlo apprezzato per davvero negli anni in cui ho frequentato una scuola in Svizzera: c’erano molti ragazzi italiani». La canzone di Battisti che ama di più? «Direi “Pensieri e parole”, quella che ho scoperto per prima: geniale, moderna, con quelle due voci che dialogano. A distanza di oltre quarant’anni la trovo assolutamente contemporanea». Come ha cominciato con la musica? «È stata una cosa naturale, che ho scelto di fare. Verso i sedici/diciassette anni mi piaceva scrivere e poi ho avuto la fortuna di trovare sempre una chitarra in casa. Prima era solo un sottofondo, un motivo di divertimento. Man mano è diventata una cosa importante. E ho sempre preferito scrivere canzoni mie, che cantare quelle degli altri». È vero che sua mamma conosceva Jimi Hendrix e Rolling Stones? «Mia madre, nata a Londra ma di origini tedesco-polacche, faceva la modella negli anni Sessanta. E sì, aveva conosciuto e frequentato Hendrix e Keith Richards. Ma non erano ancora delle superstar, negli ambienti giovanili della “swinging London” poteva capitare anche di andare a una festa dove c’erano cantanti e musicisti che sarebbero diventati leggende». Dal papà italiano cos’ha preso? «Una certa malinconia, che fa parte del dna ligure. E la passione per Genova e per il Genoa, di cui sono tifoso. Ma l’Italia intera ha sempre avuto per me una grande importanza. Mio padre ascoltava le canzoni italiane, quando ci siamo trasferiti per lui era sempre un momento di nostalgia e malinconia riascoltare la musica italiana. Mi è rimasto dentro questo modo cantautorale italiano di raccontare una storia». Genova è anche De Andrè. «Grandissimo, ma l’ho sempre considerato più un poeta. Amo molto le canzoni del piemontese Luigi Tenco: in quei pochi anni ha scritto brani straordinari, una musica “che viaggiava”, che tuttora piace molto anche all’estero. Fra i giovani? Zibba, premiato al Club Tenco e passato anche da Sanremo Giovani: stiamo collaborando, ne uscirà qualcosa di buono, spero...» Quella volta con Paul McCartney? «Abbiamo girato il video di “Queenie eye” negli Abbey Road Studios di Londra, con Meryl Streep, Johnny Depp, Kate Moss, Sean Penn, tanti altri. È stata una cosa stupenda, sono stato colpito dalla sua umiltà e dal suo entusiasmo. Quello che è successo in quella stanza è qualcosa di inspiegabile. Ci ha anche cantato “Lady Madonna” al pianoforte. Siamo rimasti in contatto con Paul, con Springsteen purtropo no, ma con Paul ci siamo scritti qualche volta». Dopo “Before the storm”? «A febbraio esce “Written in scares”. Per me si tratta di un passo avanti, rispetto all’album precedente, che raccontava la fase che va dall’adolescenza all’età adulta: quel periodo di confusione quando sai che stai andando incontro alla tempesta e devi farti trovare preparato e pronto. Nel nuovo disco - anticipato dal singolo “Tie me down” - credo di avere adottato un approccio più adulto. Musicalmente è ispirato agli anni Sessanta, alle canzoni italiane e francesi di quel periodo». È vero che comprenderà una canzone di Guccini? «Spero di fare in tempo. Il grande Francesco ha accettato di tradurre una mia canzone, ma non so se riusciremo a inserirla nel nuovo disco...». Dopo il concerto di venerdì al Barcolana Festival (serata aperta dai Beatbox Beatles), Jack Savoretti sarà al Medimex (Bari, 31 ottobre) e all’Auditorium Parco della Musica (Roma, 8 novembre).

mercoledì 1 ottobre 2014

LADY GAGA a Vienna e Milano (2 e 4-11)

Un ciclone pop sta per abbattersi su Vienna (domenica 2 novembre, Wiener Stadthalle) e Milano (martedì 4, Forum). Sono queste le due possibilità più vicine, per i fan di Lady Gaga che partono dal Friuli Venezia Giulia, per assistere a una data del suo “ArtRave – The Artpop Ball Tour 2014”. La tournèe - quarta mondiale dell’artista statunitense, a supporto del suo terzo album in studio, “Artpop”, uscito l’anno scorso - è partita a maggio da Fort Lauderdale, Florida. Ieri sera ha fatto tappa a Stoccolma, venerdì è ad Amburgo, domenica a Praga, il 7 ottobre a Colonia, il 9 a Berlino. E poi il 15 a Birmingham, il 17 a Dublino, il 19 a Glasgow, il 21 a Manchester, il 23, il 25 e il 26 a Londra, il 30 e 31 a Parigi. Lo spettacolo è nato durante la promozione del nuovo album, quando Stefani Joanne Angelina Germanotta (questo il suo vero nome, italoamericana di New York, classe 1986) ha tenuto un evento a New York conosciuto come “ArtRave”, nel quale ha eseguito brani dall’album in un ambiente ricco di opere d’arte di Jeff Koons, che firma anche la copertina dell’album. Nell’occasione l’artista ha anche presentato una sorta di “vestito volante”, chiamato Volantis e ideato dalla Tech Haus, la sezione del suo team che si dedica all’innovazione tecnologica. Successivamente Lady Gaga ha ripreso il concetto dell'ArtRave, dando vita a “ArtRave: The Artpop Ball”. Ma cosa vedranno i fan a Vienna e a Milano? Innanzitutto un palco somigliante a una caverna bianca, diviso in due sezioni, con passerelle trasparenti che si uniscono in mezzo al pubblico. Lei, la diva, sfoggia al solito costumi molto eccentrici, fra ali dorate, reggiseni di conchiglie o con tentacoli, “body” di lattice nero, ampie gonne bianche realizzate da Versace. E poi ovviamente ci sono le canzoni: quelle dell’album “Artpop”, ma anche i classici di una carriera ancor breve ma già da record. Basti pensare a certi numeri: 27 milioni di album venduti e 125 milioni di singoli, 10 milioni di copie digitali del singolo “Bad romance”, tour plurimilionari... A proposito di dischi. È appena uscito “Cheek to cheek”, l’album della popstar con Tony Bennett, impegnati nella rilettura di standard jazz - “Anything goes”, “It don’t mean a thing (If it ain’t got that swing)”, “Sophisticated lady”, “Lush life”, la stessa “Cheek to cheek”... - in duetto o singolarmente. Il leggendario Bennett (78 anni, vero nome Anthony Benedetto, altro italoamericano) un paio di settimane fa è anche salito sul palco del concerto di Lady Gaga a Tel Aviv. Concerto che ha attirato oltre 40 mila spettatori ed era stato preceduto da alcune contestazioni, perchè l’annuncio era arrivato durante la recente, ennesima guerra, che aveva portato molti artisti (Neil Young, America, Backstreet Boys, Lana Del Rey...) ad annullare o rinviare le loro esibizioni. Ultima curiosità. Lady Gaga - impegnata anche nel campo dei diritti civili, in particolare per la comunità Lgbt - sta pianificando di sposarsi nello spazio. Le nozze con Taylor Kinney si svolgeranno al di fuori dell’atmosfera terrestre, a bordo della Virgin Galactic di Richard Branson, e costeranno qualcosa come 250mila dollari a testa ai due sposini. Spiccioli, perlanciare un messaggio d’amore a tutto l’universo... Torniamo sulla terra per ricordare che per il concerto di Vienna RadioAttività organizza pulman da Trieste e Udine. Info 040 304444.