martedì 14 luglio 2015

UN RICORDO DI SANTO DELLA VOLPE

Mio marito è un uomo ordinato. Molto ordinato. Basta guardare i quattro obelischi di carte (altezza 56,4 cm ,66 cm, 37 cm, 42 cm, metro alla mano) che rendono virtualmente impraticabile la sua scrivania. Li contemplo adesso con viva inquietudine, immaginandolo mentre mi arpiona da quelle sue quattro foto soffocate dalle carte, con lui rigorosamente "in uniforme" da mare, vale a dire in muta da sub. In muta con pesce, senza pesce, al timone, con Sebastiano da piccolo. Tuonerà tra un nanosecondo: "Non mi toccare quel foglio lì! Neanche quello! Giù le mani che me li perdi!". Vi risparmio la banale retorica su quanto, con ogni evidenza, tutto quello che combinava mio marito nella vita avesse per lui la medesima dignità: volontariato antimafia e professione, Libera e Art.21, immigrati e querele temerarie, libri da presentare e sentenze scandalose. Faccio notare che di foto nostre (me e lui) sulla scrivania ne ha appena due. A proposito, io sono mostruosamente disordinata. Non impilo i materiali di lavoro, li spargo lietamente per ogni dove. Formidabile motivo di divorzio, questo, mi assicurano i competenti. Noi siamo rimasti insieme per 27 anni. Sì, è tollerante, il ragazzo. Mio marito è fondamentalmente un rocchettaro, scritto così, all'italiana, senza la kappa. Che poi vuol dire che la metà della testa te la sei fabbricata su quei versi lì, con il romanticismo di chi è determinato, contro ogni logica, a sperare che il rock cambierà il mondo, le teste, perché forse penetrarle così è un po' meglio che mozzarle, farle esplodere, sfondarle. La data del nostro incontro sta scritta sulle magliette ufficiali di Bruce Springsteen, "Tunnel of Love tour 1988", Torino, 11 giugno. Come primo approccio io gli avevo telefonato dal TG3 di Curzi trattandolo come un usciere. "Mi prenoteresti un albergo a Torino per il concerto? Sai che canta un tale Springsteen?". E lui acido, da cultore del Boss della prim'ora: "Come no? Magari quello in cui si è ammazzato Pavese". Ma io di rock ne sapevo quanto una capra, tirata su com'ero a "Cantacronache", "Canzoniere italiano", Brassens. Perciò ha deciso di farmi scuola. Sistematicamente. Mi interrogava a tradimento, perfino. Ironia vuole che fossi io a intervistare i suoi miti, da Lou Reed in giù. Io poi ci diventavo amica e lui restava ostinatamente fuori dalla porta. "Tutto quel che voglio sapere di loro è quello che fanno sul palco". Una forma di religione. Scrivo questo perché non si immagina, dai pur calzanti ritratti che in questi giorni si sono fatti di lui (e ringrazio davvero tutti, non me lo aspettavo), del suo rigore, della sua onestà e umanità e tolleranza (perfino eccessive per un uomo solo), che il mio ragazzo fosse un patito di "puzzonate", la collezione di film demenziali che riguardavamo a manetta; che non potesse letteralmente vivere senza la voce di Dylan e Springsteen a basso o altissimo volume; che fosse un più che discreto ballerino, anche se a me, devo dire, nelle danze si è concesso ben poco. Piuttosto roba di giovinezza. Come la goliardia da classi elementari che si trascinava dietro nelle rimpatriate con gli amici di Torino, purtroppo. Se non si immagina, questo suo cotè, mi dispiace quanto mi dispiacque per Fabrizio, il mio fratellino Fabrizio De André. Che era uomo spassoso ed esilarante quanto nessuno, ma questa sua immagine al grande pubblico non è mai passata. Le parole d'ordine con cui Santo mi ha sedotto? "Libertà e perline colorate". O ancora: "Soldi, amore e tempo libero non sono mai stati i nostri problemi". Devo precisare che di soldi allora se ne aveva pochi? Non so come considerate voi i libri. Frivolezze? I giornalisti "seri", per convenzione, leggono solo saggi. Noi i romanzi, e quanti, ce li siamo passati per decenni. Lui li comprava ma li leggevo prima io. Ma soprattutto ci siamo reciprocamente trascinati sulle tracce di sterminati "literary pilgrimages" americani. Io ci aggiungevo, come mete, le locations dei film. A 60 anni gli ho regalato un calendario sexy di sua moglie, non proprio da camionista ma quasi, in copia unica, per il suo tavolo della redazione. Col cavolo che lo ha esposto, il torinese. Spero tanto che del mio Santo adesso non facciano un santo. Mi ricordo quella volta che a Cuba (1989 ,un viaggio "ereditato" da Daniela Vergara , sì, del TG2 , che non poteva più andarci) , quando su un molo, al tramonto, con due americani in barca a vela, subimmo un tentativo di dirottamento. Un milite cubano con mitra, imbottito di bombe a mano. Voleva essere portato nottetempo a Miami . È quasi imbarazzante raccontarlo ma Santo lo ha disarmato a mani nude. Hulk. Si è dilaniato un braccio rotolando a terra col milite. Il suo primo commento mentre lo rattoppavo alla meglio in albergo? "Mi avrebbe dato leggermente fastidio che mi intitolassero una scuola a Cuba" . Ne abbiamo riso per anni. Per favore, non intitolategli una scuola. Neppure in chiesa, per l'ultimo addio, siamo riusciti a dire ad alta voce che Santo Della Volpe è un "trombato eccellente" della Rai. Lo ha scritto solo Vincenzo Vita sul "Manifesto". I giornalisti lo sanno bene come funziona: basta pensare che il Direttore in carica ha le doti giuste per continuare a fare un giornale e i nuovi aspiranti magari no. Basta avere la spudorata onestà di argomentarle, le tue obiezioni. Firmi la tua condanna a morte professionale, insomma ti scavi la fossa. The same old story. Finchè non è piovuta dal cielo quella provvidenziale elezione a Presidente della FNSI il Nostro (esperienza diffusa nella categoria, anche tra giornalisti più oscuri) è rimasto sepolto in uno stanzino da cui usciva per chiedere, con dignità imperturbabile e senza appellarsi ai soliti "santi in paradiso" con licenza di raccomandazione, che gli facessero fare qualcosa, qualunque cosa si presentasse, anche la più modesta, purché operativa. E tanti e tanti se ne sono presentati, di ruoli e mansioni tagliati per lui, nel corso del tempo (da Wenders, altro suo amore). E piano piano lo stanzino diventava un confessionale collettivo. I cattivi Direttori per prima cosa marchiano a fuoco i loro "nemici", nemici nella loro visione militaresca del potere. Niente lavoro per i signornò col cervello. I Direttori abili se li comprano (se in vendita) a suon di gratifiche e di stellette. I Direttori più bravi invece se li riavvicinano a colpi di buon lavoro della testata. Ma sono rari. A differenza degli oltre 40 colleghi profughi dal Tg3 nel corso degli ultimi 6 anni, mio marito è rimasto. Anche adesso, mica era in aspettativa. Usava, a diritto, i permessi sindacali. Ma restava a tutti gli effetti un membro della Redazione. Glielo chiedevano in coro i colleghi e lo voleva lui, che al TG3 ci teneva parecchio. Ho voluto tanto morire, in questi mesi. Succede a tanti e tante, dicono, in questi frangenti. Ogni volta che andavo a trovarlo in ospedale, e per fortuna ci è rimasto poco. Ogni volta che guardavo la metropolitana arrivare a quella gioiosa velocità, che se ti butti sotto neanche hai il tempo di accorgertene, povera Anna Karenina con quelle carrette di treni russi. Ogni volta che facevo un colpo di tosse, o bevevo una birra in più, e lui si arrabbiava: "Devi essere sana tu, devi essere lucida, se no chi mi cura?". Non la vuoi avere questa responsabilità, non l'hai mai avuta, perché? Voglio potermi ubriacare, sì, anche questo, temo, è un lascito da epopea rock. E l'alcool magari ti aiuta a fare il giullare fino alla fine, perché i medici hanno detto la verità a te, mica a lui. E a te tocca questa folle impresa: coniugare il massimo della sofferenza col massimo di speranza. Certo che hai voglia di scappare. E non ti sembra viltà, proprio no. Ho voluto morire ogni volta che mio marito mi ha detto "ho paura". Ho voluto morire ogni volta che non riusciva ad andare oltre la minestrina, lui che era ridotto pelle e ossa e doveva, "doveva" mangiare di più. Ho voluto morire quando non riusciva a dormire la notte, e io sì. Ho voluto morire quando trattava male solo e soltanto me, perché con nessun altro si sarebbe sfogato, per rispetto, per gentilezza. Dicono che è da manuale, ma quando passi dalla teoria alla pratica è un'altra faccenda. Il mio problema è che non ho più nessuno con cui parlare di tutto questo. Guai a fare del proprio marito anche il proprio miglior amico. Teresa Marchesi da Huffington Post

giovedì 2 luglio 2015

RON STASERA A TRIESTE, ROSSETTI

Stasera al Rossetti, nella serata finale de “I nostri angeli”, Ron proporrà due canzoni: “Il gigante e la bambina” e “Una città per cantare”. La prima ha quarantaquattro anni, la seconda trentacinque. «È vero - ricorda Rosalino Cellamare, per tutti soltanto Ron, pavese nato a Dorno ma cresciuto a Garlasco, classe ’53 -, cantai “Il gigante e la bambina” al Disco per l’estate del ’71. Testo scritto dalla poetessa Paola Pallottino, ispirato a un fatto di cronaca accaduto vicino Bologna, musica di Lucio Dalla. Tema delicato, canzone fuori dagli schemi. Doveva cantarla Lucio a Sanremo, poi la affidò a me proprio perchè ero molto giovane, poco più che un ragazzo. Ricordo che sembravo un menestrello alla Donovan. Ballata molto bella, all’epoca non vendette granchè, ma colpì il pubblico. E dopo tanti anni la conoscono ancora tutti». Lei aveva appena debuttato. «Sì, l’anno prima a Sanremo, con “Pa diglielo e ma”, in coppia con Nada. Eravamo due ragazzini, ci facevamo coraggio a vicenda». Com’era arrivato al Festival? «Allora non c’erano i “talent”, ma i concorsi per voci nuove. Io partecipai a uno in provincia di Alessandria. Mi notò un signore della Rca, qualche tempo dopo mi chiamarono al telefono per convocarmi a Roma per un provino. Ci andai con mio padre. Eravamo entrambi molto emozionati. Dopo poche settimane ero a Sanremo. Dovevo cantare “Occhi di ragazza” ma fu bocciata, e poi portata al successo da Morandi, a dimostrazione della lungimiranza di tanti cervelloni. Allora le cose funzionavano così». Meglio o peggio? «Per la musica direi meglio. Le canzoni erano considerate in quanto tali. C’era la televisione ma non era il veicolo principale per far arrivare la musica al pubblico. I dischi si vendevano. Ora la tv ha “televisionato” la musica, escono questi ragazzi dai “talent” e sono già famosissimi come facce, sono già delle piccole star, anche se poi non si sa quanto durano». Insomma, i “talent” non le piacciono. «Non ho detto questo, in questi anni sono usciti anche dei bravi cantanti, non lo nego. Diciamo che, per tornare al paragone con i primi anni Settanta, allora c’era più passione per la musica. E certe canzoni, come quelle di cui stiamo parlando, sono ancora qui a dimostrarlo». Con “Una città per cantare” facciamo un salto di una decina d’anni. «Più o meno. “The road” stava nell’album di Jackson Browne “Running on empty”, uscito nel ’78. Amai molto quel disco, lo sentii mille volte, tradussi i testi. In quella canzone mi ci sono sempre rivisto: la passione per la musica, le soddisfazioni, le fatiche, le delusioni. C’era un po’ la mia storia: il successo giovanissimo, la fase in cui tutti si erano dimenticati di me, la risalita, mettersi e rimettersi sempre in gioco...». Con Jackson Brown fece anche un duetto. «Sì, nel 2000. E mi disse che aveva apprezzato molto la nostra versione. Dico nostra perchè il testo lo scrisse Lucio, rimanendo fedele al significato originario ma arricchendo il brano da un punto di vista poetico. Ricordo che su quella traduzione baruffammo anche un po’: io ero più sulle cose alla west coast che sulla musica italiana o inglese, ma a distanza di tanti anni riconosco che fece una gran versione». Quanto le manca, quanto ci manca Lucio Dalla? «A me moltissimo, mi manca la sua intelligenza, la sua cultura, la sua curiosità per tutto e per tutti. Ma vedo parlando con la gente che manca a tanti, ci mancherà sempre. Lui non era un personaggio che si metteva mostra, amava il suo lavoro, era attratto da varie forme di arte: pittura, regia, lirica, non solo musica e canzoni. Lui parlava con Agnelli e con il disperato incontrato per strada sotto casa sua a Bologna. Per questo manca a tutti: manca la sua persona, la sua arte, quello che rappresentava...». Prosegua. «Lui aveva un grande rispetto per le persone e per la musica, a volte anche a costo di violentare la metrica. Diceva sempre: il testo dev’essere forte quanto la musica. E dire che lui nasceva musicista: il suo primo testo lo scrisse nel ’78, “Com’è profondo il mare”, dopo gli anni della collaborazione con il poeta Roberto Roversi, personaggio straordinario, che dalla poesia non ebbe problemi a buttarsi nella musica leggera». Anche lei nasce musicista. «E fu proprio Lucio, una sera a cena con Francesco De Gregori, ai tempi del primo tour “Banana Republic”, a dirmi: d’ora in poi i testi te li scrivi da solo...». Fu la stessa volta che Rosalino divenne Ron? «Più o meno lo stesso periodo. Dalla diceva sempre: ma com’è lungo questo tuo nome, non va bene, bisogna trovarne uno più breve, che rimanga in testa facilmente. Come Ron. Che a me faceva schifo, mi faceva pensare a uno che dorme. Caso mai Ross, ribattevo, visto che avevo i capelli rossi. Ma poi il nome rimase, facile, un po’ internazionale. E anche quella volta aveva ragione lui...». La serata “I nostri angeli” è dedicata a dei giornalisti triestini caduti sul campo. Lei che rapporto ha con l’informazione, con i giornali? «Conosco la storia di Marco Luchetta e dei suoi colleghi. All’epoca mi colpì molto e trovo bellissimo che nel loro ricordo siano stati creati una fondazione che aiuta i bambini vittime delle guerre e questo premio. Per quanto riguarda l’informazione, io sono ancora “vecchio stile”: la mattina facendo colazione leggo Corriere e Repubblica, sono ancora legato alla carta, al fruscio delle pagine di giornale, all’inchiostro...». Un tablet no? «Non è la stessa cosa, ma sarà perchè non ho ancora tanta dimestichezza con le tecnologie, con il digitale. Sono convinto che i giornali di carta rimarranno, non scompariranno come qualcuno aveva frettolosamente previsto. Il web non ammazza la carta, proprio come la tivù non ha eliminato la radio. C’è spazio per tutti, sono media complementari, l’importante è fare buona e corretta informazione». Prossime cose? «È passato più di un anno dall’album “Un abbraccio unico”, seguito dalla mia partecipazione a Sanremo 2014 con “Sing in the rain”, che fu bastonata soprattutto dalla giuria dei giornalisti. Nell’album c’era un inedito di Lucio, “America”, cui sono molto legato. Ora sto lavorando a un progetto nuovo, un cd/dvd che uscirà nel 2016, con la partecipazione di una fitta schiera di amici vecchi e nuovi».