giovedì 30 gennaio 2014

VENDITTI, ritorno al futuro, concerto trieste 11-2

«Ogni volta che torno a Trieste per me è una festa. Penso ai tanti concerti che vi ho tenuto in tutti questi anni. In piazza Unità, a San Giusto, al palasport, al Rossetti stesso. E penso a quel vostro lungomare meraviglioso, al porto vecchio. Ma lo hanno sistemato, finalmente...?» Chiamare Antonello Venditti - che martedì 11 febbraio canta al Politeama Rossetti, a Trieste, terza tappa del nuovo tour “70-80, Ritorno al futuro”, che parte il 3 febbraio da Bologna - per intervistarlo è cosa semplice e difficile al tempo stesso. Semplice perchè dopo oltre quarant’anni di carriera ai massimi livelli è rimasto persona disponibilissima, non è di quelli ai quali bisogna estorcere le domande con il cavatappi, per intenderci. Difficile, quasi imbarazzante, perchè l’uomo conosce la città. Le sue bellezze e i suoi problemi. E dunque la domanda sullla situazione del nostro porto vecchio te la fa lui, subito, probabilmente intuendo già la risposta. Venditti, perchè “Ritorno al futuro”? «Perchè mi sento come un ingegnere pazzo, ho inventato la macchina del tempo, vado avanti e indietro fra i decenni. Essendo trascorsi più di quarant’anni, mi permetto il lusso di tornare indietro sapendo già com’è andata. E mi diverto a ricominciare tutto daccapo. Attraverso le canzoni». Dunque canterà i vecchi classici? «Vecchi ma immortali. Il tour sarà dedicato alle canzoni degli anni Settanta e Ottanta. Ci fermiamo a “In questo mondo di ladri”. Solo la festa finale dell’8 e 9 marzo, a Roma, comprenderà anche brani più recenti». Come le è venuta questa voglia di passato? «Ci sono momenti nella vita in cui il presente diventa passato e il passato futuro. Ed è venuto il tempo in cui la mia storia torna come speranza di non vissuto a riempire la nostra vita. Dico questo perché quarant’anni passati insieme per tutti potrebbero costituire la nostra storia, ma le canzoni che l’hanno rappresentata e che proporrò sono il nostro personalissimo ritorno al futuro». Ha citato “In questo mondo di ladri”. È del 1988... «Già, quattro anni prima di Mani pulite. Non che poi, nei vent’anni successivi, le cose siano cambiate. Paradossalmente, forse, la situazione oggi è addirittura peggiorata». Prosegua. «Molti oramai rimpiangono quelli che c’erano prima. L’ho già detto: sono fuori da ogni logica in qualche modo riconducibile alla politica, ai suoi protagonisti, ai suoi riti, alle sue malefatte. Il livello è molto basso, bassissimo. Già anni fa dicevo che eravamo arrivati alla quinta scelta della classe politica. Ora siamo scesi sotto terra». Renzi? «Premesso che ci vorrà molto tempo per sbrogliare la matassa, dico questo: abbiamo visto dove ci hanno portato i vecchi, diamo fiducia ai nuovi, ai giovani, dunque anche a Renzi. Io sto dalla parte del futuro. Non mi appassiono più agli uomini che rappresentano le idee, ma alle idee ancora sì...». Le polemiche sugli incontri con Berlusconi? «Il mondo è fatto di incontri, la politica ancor di più. Anche Berlinguer incontrava Craxi, nel camper. Anch’io sono andato a cantare per Comunione e liberazione, pur essendo lontano da loro, beccandomi fra l’altro un sacco di critiche. Ma gli incontri fra le diversità non possono che arricchire. E comunque sulla legge elettorale, cioè sulle regole del gioco, devi per forza metterti d’accordo con l’avversario». Va ancora allo stadio? «Qualche volta. Il clima attorno al calcio è peggiorato. Mi ha colpito quanto successo a Bologna, con i fischi e gli striscioni oltraggiosi mentre l’impianto diffondeva la voce di Lucio Dalla che cantava “Caruso”. Fatti vergognosi, che rovinano lo sport. Alcuni dei quali, però, derubricabili a ignoranza e campanilismo». L’Italia è un paese razzista? «Credo di no. Da noi il razzismo vero non è mai esistito, al massimo piccole frange. Episodi di razzismo aumentano quando la situazione economica peggiora, quando i poveri entrano in conflitto con altri poveri, in una penosa lotta per la sopravvivenza. Anche se in altri paesi europei sono più avanti di noi». Per esempio? «Per esempio in Francia, dove l’integrazione è molto avanzata. Dove nero non vuol dire clandestino, ma può essere ed è un termine declinabile con eccellenze nel campo della cultura, dell’arte, della scienza. Non solo dello sport. Da noi siamo indietro di quarant’anni, questo è il punto». Dopo il tour? «Il futuro dovrebbe essere un nuovo album, che potrebbe uscire entro l’anno». L’8 marzo compie 65 anni. «Già, e li festeggio sul palco, a Roma, nel primo dei due concerti finali del tour. Comincio ad avere una certa età, ma non mi lamento. Se non fosse per questo dolore alla spalla, che se dovessi sentire il medico di certo non potrei partire in tour. Ma non lo ascolto».

mercoledì 29 gennaio 2014

DISCHI, OMAR PEDRINI

OMAR PEDRINI “Che ci vado a fare a Londra?” (Universal) Omar Pedrini torna sulle scene con un disco di inediti di cui è autore di musica e testi. Ad impreziosire il progetto discografico dal respiro “british rock” con sfumature psichedeliche, sono presenti alcune prestigiose collaborazioni: con il rapper Kiave in “Jenny (scendi al fiume)”, con Ron e Dargen D’Amico in “Gaia e la balena”, con i Modena City Ramblers nel brano strumentale “Nonna Quercia folkband”. L’album arriva a otto anni dall’ultimo disco di inediti “Pane, burro e medicine”. Il primo singolo estratto, che ha lo stesso titolo dell’album, nasce dall’incontro di Pedrini con Michael Beasley, leader della band di Manchester The Folks, presenti al completo nel brano. I due si sono incontrati negli uffici della Ignition, etichetta management di Noel Gallagher, a Londra, e insieme a Scott Anderson (The Folks) hanno dato vita a questa ballad rock. Il singolo, registrato tra l’Italia e Manchester e masterizzato ai celebri Exchange Studios di Londra da Mike Marsh e Karen Thompson, c’è anche in versione inglese con il titolo “London”.

DISCHI, NEIL YOUNG, LIVE AT THE CELLAR DOOR

Ci sarà vivaddio un motivo se Neil Young è tuttora - a quarantacinque anni dagli esordi con i Buffalo Springfield, cui seguì prima l’enorme successo con Crosby Stills & Nash e poi quello da solista - uno degli artisti più importanti della scena contemporanea. Uno che a sessantanove anni (compiuti due mesi fa) influenza ancora legioni di musicisti giovani e meno giovani, affascina ancora milioni di appassionati di tutte le età e di mezzo mondo. Il motivo, almeno a nostro avviso, sta nella grande libertà artistica che il musicista canadese ha sempre coltivato, ricercato e preteso in tutto quello che ha fatto in una carriera ormai lunghissima. Ce ne accorgiamo anche in questo suo album, “Live at the cellar door” (Reprise), che è nuovo e vecchio al tempo stesso. Nuovo perchè viene pubblicato adesso, vecchio (ma attualissimo...) perchè altro non è se non una summa delle cose migliori registrate in sei concerti tenuti fra il novembre e il dicembre 1970 (insomma, una vita fa...), al Cellar Door di Georgetown, Washington Dc. Ovvero: un minuscolo club con meno di duecento posti, in cui però registrarono dal vivo artisti del calibro di Miles Davis e Richie Havens. Un posto davvero piccolo, che però crea un’atmosfera unica, quasi intima, anche di complicità fra l’artista sul palco e il pubblico a pochi metri dalla sua postazione. Disco acustico, il cui ascolto ci riconduce come per magia in quella congerie creativa che erano gli anni a cavallo fra i favolosi Sessanta e i creativissimi Settanta negli Stati Uniti. Neil Percival Young, nato a Toronto il 12 novembre 1945, aveva all’epoca appena venticinque anni. Poco più di un ragazzo, da un punto di vista anagrafico, ma un artista fatto e completo a riascoltare la performance qui proposta. Il repertorio è incentrato sui brani degli album “Everybody knows this is nowhere” e “After the gold rush”. Mancano dunque i classici di “Harvest”, l’album che lo consacrò a livello mondiale. Con un’eccezione, però: una versione assolutamente originale di “Old man”, che poi avremmo trovato nell’album citato. Anni quasi psichedelici. Lo si intuisce anche quando Neil Young presenta il brano “Flying on the ground is wrong”, spiegando che parla di droghe e di persone che ne fanno uso, del limite di incomunicabilità che divide le persone che ne fanno uso da coloro che invece si oppongono alle stesse. E dal pubblico parte un’esclamazione di approvazione. Fra gli altri brani: “Tell me why”, “Cinnamon girl” (con l’artista al pianoforte), “Expecting to fly” (dal vecchio repertorio dei Buffalo), “Birds, “After the gold rush” “See the sky about to rain”... Insomma, meglio di molta roba “nuova”.

giovedì 23 gennaio 2014

ADDIO A CARLO MAZZACURATI

Regista di film come “Notte italiana”, “Il toro”, “Vesna va veloce”. Ma anche “La lingua del santo”, “La giusta distanza”, “La passione”. Sceneggiatore per e con Daniele Luchetti (“Domani accadrà”) e Gabriele Salvatores. Persino qualche piccola e bella prova d’attore per Nanni Moretti, in “Palombella rossa”, “Caro diario”, “Il caimano”. Tutto questo ma anche tanto altro è stato Carlo Mazzacurati, morto ieri nell’ospedale di Padova, dopo il ricovero in quello della vicina Monselice. Avrebbe compiuto 58 anni a marzo. Se n’è andato invece davvero troppo presto, dopo una grave malattia che in pochi mesi lo ha battuto. Mazzacurati ha saputo raccontare con maestria la provincia italiana, i suoi riti, le debolezze, i vizi, ma anche la sua vita semplice. Quella provincia che si somiglia in fondo un po’ dappertutto e che lui conosceva bene, partendo dalla sua Padova, dal Nordest e dalle terre di confine di cui è stato un attento osservatore e cantore. E la città del Santo è stata spesso presente nelle sue pellicole. Aveva cominciato da ragazzo, a inseguire la grande passione per il cinema. Animatore negli anni Settanta del cineclub padovano Cinema Uno, non riesce a entrare al Centro Sperimentale di Cinematografia e dunque si iscrive al Dams di Bologna. Nel ’79 realizza con in soldi di una piccola eredità il suo primo film, “Vagabondi”, una sorta di “road movie”: un esperimento in 16 millimetri che viene premiato al festival milanese Filmaker Doc ma non arriva nelle sale. Va a Roma, lavora per la televisione, comincia a bazzicare l’ambiente del cinema. Conosce Salvatores, collabora con lui alla sceneggiatura di “Marrakech Express”. Nell’85 scrive con Franco Bernini la sceneggiatura di “Notte italiana”, che diventerà poi un film due anni dopo, grazie al sostegno di Nanni Moretti (per lui al debutto come produttore) e della sua Sacher Film. Con “Il prete bello”, tratto dal romanzo omonimo di Goffredo Parise, nell’89 scandaglia i territori della povertà, della miseria. All’inizio degli anni Novanta arriva anche il successo di pubblico, oltre che di critica: “Un’altra vita” (con Silvio Orlando e Claudio Amendola) e soprattutto “Il toro” (Leone d’argento a Venezia e Coppa Volpi a Roberto Citran) trasformano la promessa in un protagonista del nuovo cinema italiano. “Vesna va veloce” e “L’estate di Davide” (nato come film per la tv e poi approdato anche nelle sale) completano il percorso. Nel ’99 firma con Marco Paolini una serie di “Ritratti” dedicati a importanti personaggi della cultura veneta: Andrea Zanzotto, Mario Rigoni Stern, Luigi Meneghello. “La lingua del santo”, presentato nel 2000 in concorso a Venezia, grazie anche alle prove d’attore di Antonio Albanese e Fabrizio Bentivoglio, vira la poetica di Mazzacurati verso i territori fino ad allora da lui inesplorati della comicità. Il pessimismo lascia il posto alla leggerezza, al sorriso sempre utile ad affrontare i guai grandi e piccoli della vita. “L’amore ritrovato”, “La passione” e alcuni documentari (fra cui “Sei Venezia” e “Medici con l’Africa”) sono gli ultimi titoli. Prima de “La sedia della felicità”, la commedia con Valerio Mastandrea, Isabella Ragonese, Fabrizio Bentivoglio, Silvio Orlando e Antonio Albanese che arriverà nelle sale ad aprile. Un’altra storia radicata nel Nordest, che regalerà al pubblico i personaggi di due perdenti un po’ spaesati, fra il Lido di Jesolo e le Dolomiti. Girato con il sostegno della Trentino Film Commission, il film è stato presentato due mesi fa in anteprima all’ultimo Torino Film Festival, dove il regista è stato premiato con il Gran Premio Torino alla carriera. Era già malato, ma dicono che la presentazione e la conferenza stampa si svolsero in un clima di sana e apparentemente spensierata allegria.

martedì 21 gennaio 2014

Sabato PREMIO NONINO a psichiatra PEPPE DELL'ACQUA

Ci saranno idealmente anche Franco Basaglia e i matti di San Giovanni, sabato a Percoto, a ricevere con lo psichiatra Peppe Dell’Acqua il Premio Nonino. Con lui, con loro, sul palco delle distillerie, fra gli alambicchi fumanti nella fredda campagna friulana, pure tanti medici, infermieri, volontari, amici che in oltre quarant’anni sono stati protagonisti della più grande rivoluzione civile - l’unica? - che sia stata portata a compimento nella città di Trieste. La battaglia per la dignità delle persone, per il rispetto di tutte le persone, anche quelle colpite dalla malattia mentale. «Qualcuno - dice Dell’Acqua, classe ’47, salernitano nato a Solofra, provincia di Avellino, nella casa della nonna materna, dal ’71 triestino d’adozione - sostiene che quel che abbiamo fatto, quel che è avvenuto qui, forse non sarebbe stato possibile in un’altra città. Si pensa sempre a Trieste come a una città tollerante. Devo dire che nei nostri confronti non lo fu, fu intollerante ma con intelligenza. E questo rappresentò per noi uno stimolo». Ricorda la prima volta che vide Basaglia? «Come potrei scordare. Fu nell’aprile del ’71, a Parma, nel manicomio di Colorno. Ero uno studente di medicina che stava per laurearsi. Giocavo a rugby nel Cus Napoli. Approfittai di una trasferta per andare a trovarlo, a conoscere questo strano medico di cui avevo sentito parlare». Cosa sapeva di lui? «In facoltà, negli ambienti del Movimento studentesco napoletano si alzavano molte critiche alla medicina ufficiale. Io frequentavo l’Istituto di malattie nervose e mentale, di manicomi e psichiatria sapevo poco o nulla. Ma di Basaglia si sentiva parlare. Tanto che il direttore dell’istituto amava ripetere: nella mia clinica non si deve basagliare...». I divieti creano curiosità. «Già. Un compagno di studi napoletano un giorno disse che conosceva uno che lavorava con Basaglia. Fu sufficiente per organizzare quella visita, in occasione di una partita di rugby con il Cus Parma. Una visita che mi ha cambiato la vita». Che accadde? «Entrai a Colorno, era la mia prima volta in un manicomio. Ricordo l’odore di piscio, sudore, roba fermentata. Ero impaurito. Mi fecero entrare nella stanza di Basaglia durante una riunione. Ricordo che si alzò, mi venne incontro e volle che anch’io gli dessi del tu, cosa inimmaginabile all’epoca. Gli dissi che mi sarei laureato a giugno. E lui, per tutta risposta: beh, allora vieni con noi, andiamo a Trieste...». Città che lei conosceva? «Ci avevo passato qualche giorno nell’estate ’65, quella della maturità. Il classico viaggio dopo gli esami. Tre amici in autostop, da Salerno sù, verso Nord, lungo il versante adriatico. Venezia, Trieste, Vienna, la Germania. Devo dire che quella sera, entrando dalla strada costiera e fermandomi a dormire all’ostello di Miramare, avevo avuto una strana sensazione: quasi come un sentirsi a casa, forse perchè tutte le città di mare un po’ si somigliano, forse perchè il sole tramontava sul mare, come a Salerno». Torniamo a Basaglia. «Nel ’68 aveva pubblicato “L’istituzione negata”, sull’esperienza al manicomio di Gorizia. Al di là del Premio Viareggio e delle traduzioni in varie lingue, il libro aveva avuto un impatto molto forte. Dopo un anno sabbatico negli Stati Uniti, dove si cominciava a parlare di deistituzionalizzazione, e i due anni a Colorno, nell’agosto ’71 arriva a Trieste. Con lui un primo nucleo di giovani medici, fra cui Franco Rotelli». Lei quando arriva? «Nella notte fra il 3 e il 4 novembre di quello stesso ’71, a bordo di una vecchia 500. Primi mesi in una pensioncina a Barcola, che fra l’altro anni dopo divenne in qualche modo famosa per un caso di eutanasia. Ma vivevo praticamente a San Giovanni, che era ancora un manicomio, con 1182 ricoverati, con tutti i suoi orrori e le sue brutture». Come cominciò il vostro lavoro? «Basaglia istituì subito laboratori di pittura e di teatro dentro il manicomio. Nacquero le case per i matti. E una cooperativa di lavoro per loro, che così cominciarono a svolgere lavori riconosciuti e retribuiti. Fu la prima cooperativa sociale, con vent’anni di anticipo su tutte le altre, e nacque con uno sciopero. Ci fermammo tutti: medici, infermieri, volontari, matti... Ospedale bloccato perchè venisse riconosciuto il diritto al lavoro a tutti, anche ai matti». Formidabili quegli anni? «Quei primi anni, diciamo i primi dieci anni, hanno letteralmente sconvolto la mia vita. Anni di fermenti, di contraddizioni, di incertezze, ma anche di rotture e conflitti. Accadevano cose che nella quotidianità a noi sembravano normali, ma erano delle piccole grandi rivoluzioni assolute». Avevate dubbi? «Basaglia diceva che dovevamo seminare, scommetteva che quei semi sarebbero germogliati. A volte doveva “combattere” anche con noi. Non sempre eravamo d’accordo sul che fare. Quando nel ’78 decidemmo di occupare la Casa del marinaio lui si dissociò pubblicamente. Diceva che bisognava lavorare nella legalità, nelle istituzioni». Trieste, intanto? «Per la città fu un trauma forte. Prima il rione di San Giovanni e poi la città si trovarono ad affrontare qualcosa che non poteva essere accettato. Il manicomio era baluardo di certezze, si stavano abbattendo le sue mura, ciò era innaturale. La città era sgomenta, era la prima a essere esposta a un fatto di questo genere». Diceva che fu intollerante. «Ma non poteva che essere così. E fu davvero un’intolleranza intelligente, che per noi costituì uno stimolo. E iniziative come la festa delle castagne, Marco Cavallo, i concerti di Ornette Coleman, Area e poi tutti gli altri, che attirarono migliaia di giovani, erano tutti fatti, azioni che cercavano il dialogo. Offrivamo parole per cercare di dare ragione a ciò che stava accadendo». La politica? «Si spaccò in maniera trasversale. In ogni partito c’era chi guardava a noi con interesse e chi ci attaccava. La Dc con Zanetti ci sosteneva, seppur con fatica. Basta rileggere i verbali dei consigli provinciali. Ma c’era anche un’altra Dc, penso a Vita nuova, che ci sparava autentiche cannonate. Anche il Pci era diviso, e persino a destra trovavi chi ci riservava attenzione e chi ci aggrediva, non soltanto a parole». Il 29 agosto dell’80 muore Basaglia. E voi restate orfani. «Io per la verità ero rimasto orfano per davvero, proprio il mese prima. Avevo perso mio padre, l’uomo che senza dirmi nulla mi aveva insegnato l’importanza e la mistica del lavoro. Faceva il ferroviere, con mia madre casalinga ha cresciuto cinque figli, io sono il quinto, tutti laureati. Una cosa che nell’Italia di oggi non sarebbe più possibile. Ricordo la sua delicatezza, la comprensibile preoccupazione quando gli dissi che volevo iscrivermi a medicina. Ma anche il suo appoggio, sempre». Basaglia? «Dopo la promulgazione nel ’78 della legge 180, nel ’79 era stato chiamato a Roma, a coordinare i servizi psichiatrici della Regione Lazio. All’inizio dell’80, a Berlino, sviene dopo una conferenza. Da qual momento la malattia avanza con velocità. Fino all’epilogo». Poi? «Già prima di partire per Roma, Basaglia aveva identificato in Franco Rotelli la persona che avrebbe portato avanti il suo lavoro. Avevano discusso molto assieme, si erano anche scontrati, perchè - come diceva sempre lui - non c’è cambiamento senza conflitto. Rotelli seppe prendersi sulle spalle questa grande responsabilità: gestire la spinta innovativa degli anni Settanta, coniugarla con un quadro normativo mutato, rapportarla al mondo delle istituzioni, tradurre in concretezza i sogni visionari. Quando nel ’96 ho preso il suo posto a capo del Dipartimento di salute mentale ho trovato un grande lavoro che era stato svolto». Oggi? «Dobbiamo continuare questo percorso. E Trieste, lo dirò sabato a Percoto, deve ritrovare l’orgoglio di questa storia. C’è un patrimonio di conoscenza che non deve essere disperso. In quarant’anni sono venute decine di migliaia di persone, da tutto il mondo, a studiare qui l’esperienza triestina e italiana. La città, le sue istituzioni e suoi cittadini, devono salvaguardare questa storia. Qui abbiamo scoperto e affermato che gli uomini restano tali anche quando sono malati. Non mi sembra una cosa da poco. Mi viene da azzardare - conclude Dell’Acqua - che forse è una scoperta più importante del bosone...».

sabato 18 gennaio 2014

STEF BURNS il 6-2 a Trieste

Parte da Trieste il nuovo tour di Stef Burns, chitarrista di Vasco Rossi ormai lanciato in una carriera solista. Giovedì 6 febbraio alle 21, ai Macaki (viale XX Settembre), l’artista proporrà dal vivo i brani del nuovo album “Roots & wings”, che esce martedì e fra l’altro è stato registrato in parte proprio negli studi della Casa della Musica di Trieste. Con lui, sul palco, la Stef Burns League, e cioè il tastierista triestino Fabio Valdemarin, il batterista Juan van Emmerloot e il bassista Roberto Tiranti. Californiano di Oakland, classe 1959, Burns ha lavorato nel corso degli anni - olche che con Vasco - con Prince, Alice Cooper, Sheila E, Narada Michael Walden, Huey Lewis & the News e tanti altri artisti. Prima del recente nuovo disco, ha pubblicato due album da solista: “Swamp tea, Bayshore road” e “World universe infinity”. Il nuovo album è stato anticipato dal singolo “What doesn’t kill Us”, cui ha partecipato anche la moglie del chitarrista, l’ex “velina” Maddalena Corvaglia. Il triestino Valdemarin è con lui dal ’99, e negli anni ha collaborato anche con Neffa, Ornella Vanoni, Fiorella Mannoia e Angelo Branduardi. Il concerto del 6 febbraio è organizzato da Trieste is rock (prevendite da lunedì, info www.triesteisrock.it), che propone anche gli americani Tim Reynolds (7 marzo, Teatro Miela) e House Of Lords (5 aprile, Macaki). Insomma, quest’inizio d’anno è ricco di appuntamenti, a Trieste. Perchè ci sono anche lunedì 20 gennaio la Glenn Miller Orchestra (al Rossetti), il 3 febbraio i Perpetuum Jazzile (ancora al Rossetti), l’11 febbraio Antonello Venditti (sempre al Rossetti), il 12 febbraio Max Pezzali al PalaTrieste e Bombino al Teatro Miela, il 29 marzo Elisa al PalaTrieste, Tommy Emmanuel il 2 maggio al Rossetti.

venerdì 17 gennaio 2014

ARCTIC MONKEYS e/o KASABIAN a luglio a trieste

Arctic Monkeys e Kasabian. Potrebbe giocarsi fra questi due nomi il concerto di “rock giovane” preannunciato per luglio, a Trieste, in piazza Unità. Di conferme nemmeno a parlarne, per ora, anche perchè le trattative sono in corso. Ma i nomi continuano a girare. E dunque aumentano le possibilità che uno o entrambi i gruppi possano andare ad arricchire un programma estivo che ha già la punta di diamante nel concerto dei Pearl Jam il 22 giugno allo Stadio Rocco. Proprio in occasione della presentazione di quel concerto, un mese fa, nel Salotto azzurro del Municipio triestino, il patron di Azalea Loris Tramontin aveva detto: «Ma non ci fermiamo qui. Abbiamo creato il marchio “Live in Trieste”. Stiamo trattando altri nomi. Almeno uno di “rock giovane”, in piazza Unità. Lo annunciamo la prossima settimana...». Nelle settimane trascorse niente annunci. Ma è girato prima il nome degli Arctic, ora quello dei Kasabian. In un mercato della musica dal vivo in crisi quanto il mondo che gli gira attorno, evidentemente gli organizzatori (Comune, Regione e il braccio operativo Azalea) non hanno ancora concluso le trattative in corso. «Confermo solo che ci sono delle trattative in corso per artisti stranieri - afferma Tramontin -, per il resto non posso dire nulla. Degli Arctic si era parlato, ma poi la trattativa si è raffreddata. So che dovrebbero suonare a Pistoia Blues e a Villafranca, vicino Verona. Dei Kasabian non so nemmeno se saranno in tour quest’estate. Abbiamo vari nomi in ballo, ma non sono quei due...». Va però ricordato che la sera prima della presentazione del concerto dei Pearl Jam, a contratto già firmato e cartelline stampa già pronte, a nostra precisa domanda lo stesso Tramontin aveva negato che il tour 2014 della band statunitense avrebbe fatto tappa a Trieste. Dunque chissà... Vediamo allora chi sono, i gruppi di cui si parla. Originari di Sheffield, gli Arctic Monkeys nascono nel 2002 come cover band degli Strokes. La leggenda vuole che siano esplosi con un brano distribuito su internet. “Whatever people say I am, that’s what I’m not”, pubblicato nel 2006, è passato alla storia come l’album di esordio più venduto della musica inglese: 600mila copie in appena cinque giorni. I successivi album sono “Favourite worst nightmare” (2007), “At the Apollo” (“live” del 2008), “Humbug” (2009), “Suck it and see” (2011) e l’anno scorso “Am”. Il gruppo, che vanta cinque Brit Awards e due nomination per i Grammy, è formato da Alex Turner (voce e chitarre), Jamie Cook (chitarre), Nick O’Malley (basso) e Matt Helders (batteria). E siamo ai Kasabian. Anche loro inglesi, ma di Leicester, nascono nel ’97. Debuttano discograficamente nel 2004, con un album omonimo che regala loro un buon successo di pubblico e critica. Propongono un genere che mischia elettronica e rock anni Sessanta/Settanta, con espliciti debiti di riconoscenza a band-mito come i Led Zeppelin. “Empire” è il loro disco uscito nel 2006, cui seguono “West ryder pauper lunatic asylum” nel 2009 e “Velociraptor!” nel 2011. Lo scorso anno è uscita la raccolta “Kasabian/Empire”. Ma oltre che per i dischi la band è famosa per le sue “molto energiche” esibizioni dal vivo. Arctic e/o Kasabian arriveranno a luglio a Trieste? Lo sapremo presto.

sabato 11 gennaio 2014

L'OMBRA DEL SICOMORO, nuovo libro di JOHN GRISHAM

Prima di suicidarsi, un ricchissimo uomo d’affari bianco, malato terminale di cancro, invia per posta a un avvocato che non conosce personalmente un testamento olografo (scritto a mano, da solo) nel quale disereda figli e nipoti e lascia quasi tutto l’ingente patrimonio alla badante di colore che lo ha assistito negli ultimi anni di vita. Comincia da qui “L’ombra del sicomoro” (pagg. 535, euro 20), il nuovo libro di John Grisham, inventore un quarto di secolo fa e da allora maestro del legal thriller. In questa storia, ambientata nel 1988, tornano i temi del razzismo e delle discriminazioni razziali che avevano innervato diversi capitoli della sua ormai ricca bibliografia. Torna anche il protagonista de “Il momento di uccidere”, il suo primissimo romanzo apparso nel 1989 negli Stati Uniti e all’alba degli anni Novanta in Italia, con le sue ambientazioni e le sue atmosfere. Torna nella persona di Jack Brigance, l’avvocato bianco che combatteva contro la discriminazione che altri bianchi portavano verso il suo cliente di colore e che vinceva un processo clamoroso. Lo ritroviamo tre anni dopo che se la passa professionalmente abbastanza male: quel processo gli ha portato fama e considerazione - soprattutto fra la gente di colore di Clanton, Ford County, Mississippi rurale e un po’ arretrato - ma pochissimo denaro. E non è stato nemmeno rimborsato dall’assicurazione per quella sua bella casa, nella quale viveva con moglie e figlioletta, bruciata dai razzisti amici dell’imputato di quel vecchio processo. Il nuovo processo, innescato dall’impugnazione da parte dei parenti del discusso e misterioso testamento olografo, riporta Jack al centro della scena e promette di riassestare le sue finanze. Un processo difficile, che ruota attorno a una domanda: perchè quell’uomo ha lasciato quasi tutto alla badante? E dunque cosa c’era stato fra i due per giustificare quella decisione prima di farla finita? E l’uomo era capace di intendere e di volere quando ha scritto il nuovo testamento? O forse era stato circuito, se non plagiato dalla donna? E in definitiva: quali antichi segreti si celano dietro questa storia? Grisham affronta il tema affatto appassionante del diritto successorio. Testamenti, eredi, proprietà, quella roba lì. Ma con la maestria che gli è universalmente riconosciuta fornisce alla trama struttura, solidità di narrazione, colpi di scena, persino suspense. Fra parenti avidi che sbucano dal nulla, traffici di basso livello fra avvocati, giurie da scegliere, accordi che si trovano a dover rispettare le ultime volontà del defunto. E in un ambiente provinciale e razzista, culturalmente arretrato, dove basta un nulla per infiammare la miccia delle contrapposizioni razziali e delle invidie sociali. Bella storia, scritta magistralmente. Per la quale è gioco facile prevedere una trasposizione cinematografica, com’è già successo per molti romanzi di successo dello scrittore americano.

martedì 7 gennaio 2014

TIM REYNOLDS 7-3 A TRIESTE

Il 2014 potrebbe essere l’anno di un nuovo tour europeo della Dave Matthews Band. Ma in attesa di conferme e notizie precise, gli appassionati di rock americano possono già contare su un annuncio certo. A marzo arriva infatti in tournèe in Italia - con tappa a Trieste - il chitarrista della band Tim Reynolds, considerato dagli esperti una delle colonne portanti della formazione capitanata da Matthews. Sarà il primo tour europeo da solista per Tim Reynolds, che suonerà il primo marzo al Rock Planet Club di Cervia (Ravenna), il 3 a Lucca (Teatro del Giglio), il 4 a Milano (La Salumeria della Musica Club), il 5 a Padova (Geoxino), il 7 appunto a Trieste, al Teatro Miela, e l’8 a Roma, all’Orion club. Con lui Mick Vaughn al basso e Dan Martier alla batteria, ovvero il suo antico progetto TR3, in grado di elettrizzare finora le platee statunitensi. Nati nel 1984 a Charlottesville, ben prima dunque che Tim incontrasse Dave Matthews, e rinati poi nel 2007 con un cambio di formazione, i TR3 sono un energico trio elettrico che spazia dal rock al blues, mischiando anche jazz e funk. Ogni volta che può, Tim chiama i suoi amici Mick e Dan per suonare assieme. Nel 2013 hanno tenuto una cinquantina di concerti, soprattutto fra Stati Uniti e Brasile. Da tempo i tre volevano suonare nel vecchio continente. Fra l’altro, l’Europa rappresenta per loro un richiamo particolare, essendo Reynolds nato a Wiesbaden, in Germania, e avendo Martier origini italiane. In questo inizio di 2014, i TR3 suonano dalle parti di casa, negli Stati Uniti: 15 gennaio a New Orleans, 10 febbraio a Buffalo, 13 a Cleveland, 22 a Washington... Poi, a marzo, l’arrivo in Italia, primo Paese toccato dal tour europeo. Ma come si diceva, Reynolds e soci potrebbero fare da apripista, visto che l’anno nuovo potrebbe essere anche quello buono per vedere tutta la Dave Matthews Band in Italia. La “jam band” americana, formata nel 1991 a Charlottesville attorno al cantante e chitarrista che le ha dato il nome, non ha mai avuto da questa parte dell’oceano lo stesso successo ottenuto in patria. Da ricordare i loro tour europei del 2009 e 2010, con tappe anche in Italia. Dove a Lucca, nell’estate 2009, la band tenne una performance di tre ore e mezzo. Per quanto riguarda il concerto al Teatro Miela, organizzazione a cura della benemerita associazione Trieste is rock. Prevendite dei biglietti sul circuito TicketOne.

BOMBINO 12-2 A TRIESTE

Lo hanno già soprannominato il “Jimi Hendrix del deserto”, ma il suo vero nome è Omara Moctar, in arte Bombino. Berbero originario del Niger, persino Keith Richards è rimasto impressionato dalle sue doti chitarristiche, già apprezzate dal pubblico italiano lo scorso anno, nei concerti al “MiTo” di Milano e al Romaeuropa Festival di Roma, nell’ambito del suo trionfale tour europeo. Bombino sarà a Trieste, al Teatro Miela, il 12 febbraio, nell’ambito del suo primo tour italiano, che partirà il 16 gennaio da Milano, per proseguire a Lecce il 17, a Firenze il 18 e - dopo la tappa nel capoluogo giuliano - il 13 febbraio a Bologna, il 14 a Siena, il 15 a Torino. Ma vediamo di sapere qualcosa di più, di questo astro nascente del “Tuareg blues”, o “Desert blues” che dir si voglia. Nato e cresciuto ad Agadez, Niger, nord dell’Africa, è un discendente della tribù dei Tuareg Ifoghas, che lotta da secoli contro il colonialismo e l’imposizione dell’Islam più severo. A dieci anni la sua famiglia scappa in Algeria. Si narra che il ragazzo trovi in casa una chitarra dimenticata da parenti, che diventa il suo “giocattolo” preferito, da cui non si stacca mai e con la quale diventa in breve abilissimo. Allievo di Haia Bebe, celebre chitarrista Tuareg, ben presto entra a far parte della sua band, nella quale il suo talento non passa inosservato. È lì che gli danno il soprannome di Bombino, semplice storpiatura dell’italiano “bambino”. Ed è in quegli anni che comincia ad appassionarsi a Jimi Hendrix e Mark Knofler, esercitandosi sull’ascolto dei loro dischi. Costretto a fuggire in Burkina Faso in seguito all’assassinio di due membri della band, uccisi in una rivolta, nel 2009 un incontro con il regista Ron Wyman gli cambia la vita. Impegnato a girare un documentario sulle tribù Tuareg, il regista rimane affascinato dalla storia e dalle doti del chitarrista e gli dedica gran parte del filmato. Poi gli produce “Agadez”, suo vero esordio discografico da solista, dopo “Group Bombino - Guitars from Agadez, volume 2” (che era un disco con il gruppo). La sua fama cresce, viene invitato in vari festival musicali, Keith Richards lo chiama per una collaborazione. E Dan Auerbach dei Black Keys gli produce e gli fa incidere nei suoi studi di Nashville “Nomad”, il suo terzo album, uscito nella primavera dell’anno scorso su etichetta Nonesuch/Warner. Il disco viene celebrato dalla critica più attenta come l’incontro del “desert rock” con il blues, impreziosito dalla voce intensa e dalla tecnica chitarristica del nostro. Le sonorità ricordano quelle dei Tinariwen, musicisti maliani del deserto, ma nelle melodie dettate dalla chitarra si ritrova lo spirito della resistenza e della ribellione delle sue genti. “Nomad” è stato per varie settimane al primo posto della classifica degli album world di iTunes. Rolling Stone America e Npr Radio lo hanno inserito nella classifica dei cinquanta migliori album del 2013. Un appuntamento insomma importante che - in attesa dei nomi che completeranno l’estate musicale triestina, dopo il colpaccio dei Pearl Jam il 22 giugno allo Stadio Rocco - arricchisce una stagione che promette faville. Come si ricorderà, si comincia il 20 gennaio con la Glenn Miller Orchestra e il 3 febbraio con i Perpetuum Jazzile, entrambi al Rossetti. Si prosegue l’11 febbraio con Antonello Venditti sempre al Rossetti e il 12 con Max Pezzali al PalaTrieste (purtroppo in coincidenza proprio con Bombino, anche se si tratta di artisti con pubblici diversi). E ancora Elisa il 29 marzo al PalaTrieste e la chitarra dell’australiano Tommy Emmanuel il 2 maggio al Rossetti.

lunedì 6 gennaio 2014

OMAGGIO A GUCCINI OGGI SU RAI EDUCATIONAL

Quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà» (“Eskimo”, dall’album “Amerigo”, 1978), comprato a Trieste sulle bancarelle di Ponterosso, Francesco Guccini non l’ha mai dimenticato. Era l’ottobre del ’63, la ventitreenne recluta modenese stava ultimando la sua naja triestina («Speravo di essere assegnato a una delle caserme in città - ci confidò una volta -, bestemmiai a lungo quando seppi che la mia destinazione era sul Carso, a Banne. Invece mi andò di lusso...») e prima di tornare a casa impiegò qualche migliaio di lire della paga da militare per acquistare quell’indumento che poi sarebbe diventato un simbolo del Sessantotto e degli anni Settanta italiani. Guccini da un po’ non fa più dischi, non tiene più concerti. Nel novembre 2012, all’uscita dell’album “L’ultima Thule”, ha detto di non volere più incidere nuovi album né fare concerti, ritirandosi dalla carriera musicale e proseguendo solo quella di scrittore. Problemi di età (a giugno compie settantaquattro anni), qualche fastidio alla vista, forse la voglia di passare più tempo nel “buen retiro” di Pavana. Ci pensano gli altri, a tenere accesi i riflettori su una delle figure più importanti della canzone italiana dell’ultimo mezzo secolo. A fine dicembre Raidue gli ha dedicato una puntata della serie “Unici”, con una testimonianza di Umberto Eco e un’ottava su di lui improvvisata da Roberto Benigni. In questi giorni quindici suoi vecchi album vengono ripubblicati in vinile e a tiratura limitata, dopo un’accurata opera di rimasterizzazione digitale. E oggi ci pensa Rai Educational a celebrare degnamente il nostro. Alle 19.30 (e poi in replica ogni quattro ore, su Rai Scuola ch.146 del digitale terrestre e ch.33 TivùSat) va infatti in onda una puntata di “Nautilus Connessioni. Visioni. Condivisioni” a lui dedicata. Uno speciale sulla musica e la vita di Guccini, intervistato nella sua casa di Pavana, appennino tosco-emiliano, che comincia dal passato, dalle origini. Del resto, pensandoci bene, lui ha sempre cantato il passato. Quello della locomotiva anarchica e libertaria, quello delle osterie di fuori porta («ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta...»), quello del suo personale Sessantotto, quello dei suoi giovani e meno giovani amori. Quello di Auschwitz e di Bisanzio, di Venezia e di Amerigo, della primavera di Praga e della signora Bovary. Anche da scrittore, in questi anni, non è stato da meno. Non solo con quell’autentica celebrazione del passato che un paio d’anni fa è stato il suo “Dizionario delle cose perdute”, pubblicato da Mondadori. Pagine intrise di pacata nostalgia per le cose, le situazioni, gli usi e i costumi che c’erano quando lui era ragazzo e che da tempo non ci sono più. Nel programma Guccini si racconta con ironia, guardando indietro alla sua infanzia («sono nato in un periodo particolare, quattro giorni dopo l’entrata in guerra dell’Italia»), agli anni trascorsi in quella “piccola città, bastardo posto” che è Modena. E citando Jorge Luis Borges sottolinea che «uno scrittore parte sempre da se stesso, come dice l’autore argentino, e io credo che si parta sempre da fatti accaduti, da personaggi conosciuti o meno. E quindi si parte sempre dalla propria esperienza personale». Ancora il cantautore: «Gli amici dicono che ho una grande memoria, il che non è vero. Però mi piace ricordare, andare nel passato; anche perché il futuro è inconoscibile, il presente è labile, fugace, dura un momento. Noi viviamo soprattutto nel passato e io l’ho scavato, da un certo periodo della mia vita, diciamo dai trent’anni in poi. Il mio primo disco che ha avuto un certo successo, “Radici” aveva in copertina la foto dei miei bisnonni e dei miei nonni, ed è lì che ho cominciato una ricerca per sapere quali erano le mie radici, per sapere chi erano i miei antenati, per ricercare il dialetto locale che ormai è scomparso, per la storia locale. I miei primi tre romanzi sono falsamente autobiografici, però ho usato tanti ricordi di quel periodo e di quegli anni, c’è la parte pavanese, la parte modenese e l’ultima parte, la parte bolognese. Ho frugato nella memoria». Raccontando del suo ultimo libro “Culodritto e altre canzoni”, spiega che si tratta di un’espressione modenese: «Esattamente è “ander via col cul dritt”, si riferisce di solito ai bambini piccoli che rimproverati vanno via impettiti. La versione dialettale però è più pittorica ed efficace e diventa “culodritt”. La canzone, nella fattispecie, era dedicata a mia figlia Teresa». Ma si diceva di quell’inverno del ’63, sul Carso triestino. «Faceva freddo - ci ha detto una volta Francesco Guccini -, questo sì. Ecco perchè acquistai quell’eskimo, che non aveva ancora il significato simbolico che avrebbe assunto in seguito. Da Banne i collegamenti con il centro città era buoni. E il nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava che i suoi soldati girassero per la città con la divisa, così quasi ci costringeva a uscire in borghese. Prendevo novantamila lire al mese, più cinquemila di frontiera orientale, considerata zona disagiata. Che poi disagiata non era per nulla. A Banne ero coccolato da tutti perchè sapevo suonare la chitarra. Nelle festicciole che si facevano in caserma, il maggiore Giacchini mi diceva: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo tavolo se ti ricordi questa canzone. Gli accordi magari me li inventavo, ma la bottiglia arrivava sempre...».

domenica 5 gennaio 2014

NUOVI DISCHI: U2, ADELE, COLDPLAY...

Rockettari di tutto il mondo, tenetelo a mente e fatevene una ragione: non si vive di solo Bruce Springsteen, il cui nuovo album “High hopes” è annunciato per il 14 gennaio (anche se, come scritto ieri su queste colonne, è in rete già da qualche giorno). Il 2014 sarà infatti anche l’anno del nuovo disco degli U2, tredicesimo in carriera, che arriva a cinque di distanza dal precedente “No line on the horizon”. Doveva uscire a fine 2013, non dovrebbe tardare a lungo, diciamo entro l’estate vede la luce. Il disco, prodotto da Danger Mouse, potrebbe essere annunciato il 2 febbraio nell’intervallo del Super Bowl. Per fine gennaio è annunciato anche il nuovo Limp Bizkit, “Stampede of the disco elephants”. Mentre a metà febbraio tocca a Beck, con “Morning phase” (primo disco per la Capitol, che giunge cinque anni dopo “Modern guilt”). E sempre a febbraio sono annunciati i nuovi album di Broken Bells, The Fray e Hooverphonic. Mancano ancora le date, ma sono dati per certi anche i nuovi lavori discografici di Damon Albarn, Ac/Dc, Foo Fighters, Iron Maiden, Guns N’ Roses, Linkin Park, Offspring, Red Hot Chili Peppers e Soundgarden. E si parla anche di un disco solista di Roger Waters e persino di un nuovo Mike Oldfield (quello di “Tubular bells”, l’album da cui cominciarono le fortune miliardarie di Richard Branson e della sua Virgin, che allora era solo un’etichetta discografica...), intitolato “Man on the rocks”. Nei territori del pop, da segnalare innanzitutto il nuovo Coldplay, la cui “pausa di riflessione” non dovrebbe durare ancora a lungo: l’album dovrebbe arrivare fra maggio e giugno. E il nuovo disco di Adele, dopo il trionfo da ventisei milioni di copie vendute di “21”. Dato per certo già lo scorso anno, l’album dovrebbe uscire entro la prima metà del 2014. Altre ragazze in arrivo: Shakira (produzione affidata a Lmfao e RedOne, a quattro anni di distanza da “Sale el sol”), Jennifer Lopez, Lana Del Rey (con “Ultraviolence”), Lily Allen (già nelle radio con il singolo “Hard out here”), Kylie Minogue (disco prodotto da Darkchild), Taylor Swift, Mariah Carey. Ma c’è chi parla anche di Lady Gaga e di un volume 2 del suo recente “Artpop”. Fra le “boy band” ormai cresciute, possibile un nuovo lavoro dei Take That, non si sa se con o senza la superstar Robbie Williams. Fra le segnalazioni sparse: “Carry her carry me” degli Elbow arriva l’11 marzo, stesso periodo per “Himalayan” della Band of Skulls. E ancora Sharon Jones e i suoi Dap-Kings a metà gennaio, Neneh Cherry con “Blank project” a fine febbraio, proprio come il nuovo album di St. Vincent. A marzo annunciati Imogen Heap con “Sparks” e Joan as Police Woman con “The classic”. E più prima che poi dovrebbe arrivare il disco di Prince con i brani diffusi nei mesi passati e suonati con le 3rdeyegirl. Italiani. Nuovi album per Vasco Brondi (alias Le luci della centrale elettrica), per Dente, per Pippo Pollina (“L’appartenenza” esce il 21 gennaio), per il rapper Marracash (l’album s’intitolerà “Status”, registrato fra Milano e Londra). A febbraio esce il nuovo disco di Brunori Sas, intitolato “Vol.3. Il cammino di Santiago in taxi”. A marzo arriva il terzo disco di inediti del romano Alessandro Mannarino. “Che ci vado a fare a Londra?” è invece il primo singolo estratto dall’omonimo nuovo album di Omar Pedrini, atteso per fine gennaio e pubblicato da Universal, che arriva a otto anni dall’ultimo disco di inediti del cantautore bresciano.

sabato 4 gennaio 2014

JIMMY PAGE, il 9-1 COMPIE 70 ANNI

Ormai tutti i grandi del rock, che prima chi poi, festeggiano compleanni “importanti”. Ora è il turno di James Patrick “Jimmy” Page, che il 9 gennaio compie settant’anni. Età da pensionato, non fosse che stiamo parlando di un signore che ha scritto la storia del rock. E che inoltre sembra ben lungi dall’appendere la chitarra al classico chiodo. Quarant’anni fa, di questi tempi, il nostro aveva già alle spalle l’esperienza con gli Yardbirds ed era nel pieno del successo planetario toccato al gruppo di cui era una colonna: i Led Zeppelin. Fra il ’69 e il ’71 erano infatti usciti i quattro volumi omonimi, contraddistinti solo dal numero progressivo, che avevano imposto la band inglese sulla scena internazionale del rock. Con Page c’erano il cantante Robert Plant, il bassista John Paul Jones e il compianto John Bonham alla batteria. Tutti assieme erano i portabandiera di quell’hard rock che a distanza di tanti anni viene considerato il genitore dell’heavy metal, e al quale si ispirano ancora molti musicisti del panorama musicale contemporaneo. Page, londinese, era stato uno dei più richiesti chitarristi degli studi di registrazione inglesi degli anni Sessanta, collaborando con molti grandissimi, Rolling Stones in testa. Tuttora è considerato, con Eric Clapton e pochissimi altri, una delle migliori chitarre del rock. In grado di rivoluzionare il modo stesso di suonare lo strumento a sei corde, e come tale molto imitato da chi è arrivato dopo di lui. Nel 2012, con gli altri due “Zeppelin” superstiti, è stato premiato da Barack Obama con il Kennedy Center Honors, la più alta onorificenza assegnata ad artisti capaci di influenzare la cultura americana. Un riconoscimento in più, per lui che è entrato nella Rock and Roll Hall of Fame sia come componente degli Yardbirds che dei Led Zeppelin. Come molti altri grandi del rock, anche Jimmy Page nella sua vita non si è fatto mancare nulla. Vizi, eccessi e scandali compresi. Ma nella “reunion” con Robert Plant e John Paul Jones - e Jason, figlio di John Bonham alla batteria - alla o2 Arena di Londra del 2007 (poi diventato un film uscito nel 2012), la sua chitarra ha urlato proprio come ai tempi belli.

SPRINGSTEEN, ARRIVA HIGH HOPES

Un anno nuovo comincia sempre con delle speranze. Ma sono “High hopes”, speranze in qualche modo “alte”, “grandi”, quelle che ci riserva Bruce Springsteen, aprendo il 2014 con il suo nuovo, come sempre attesissimo album. Il disco, la cui uscita è stata annunciata quasi a sorpresa due mesi fa, dovrebbe vedere la luce il 14 gennaio. E diciamo “dovrebbe” perchè a questo punto, dopo quel che è successo, la casa discografica potrebbe anche anticipare la data di qualche giorno. Cos’è successo? Semplice, il nuovo album può essere ascoltato in rete già da qualche giorno. Laddove si conferma che ormai, sotto il regno di sua maestà internet, la diffusione di un nuovo album non può più essere decisa dalla casa discografica. Nel caso specifico, oltre alle solite anticipazioni che interessano i dischi dei maggiori protagonisti della scena rock, ci si è messo di mezzo un errore di Amazon. Che nei giorni scorsi ha messo in vendita per alcune ore l’album, salvo poi fare marcia indietro e ritirarlo dal commercio. Poche ore, ma sufficienti a far rimbalzare i brani di sito in sito, in una diffusione a macchia di leopardo. E allora ascoltiamolo, questo disco. Registrato in vari studi, fra New Jersey, Los Angeles, Atlanta, Australia e New York, l’album è il diciottesimo in carriera per il sessantaquattrenne rocker di Freehold. Che ha voluto ancora con sè la E Street Band al completo. Ma la novità è Tom Morello, l’ex chitarrista dei Rage Against the Machine, che si è unito al gruppo nel marzo scorso, durante le date australiane, in sostituzione di Steve “Little Steven” Van Zandt. Il feeling fra i due è subito scattato, visto che il Boss ha definito lui e la sua chitarra «la mia musa, la mia fonte di ispirazione che ha portato questo progetto a un altro livello». E nelle note di copertina: «Stavo lavorando a un disco di brani inediti tra i migliori dell’ultimo decennio quando Tom Morello ci suggerì di aggiungere “High hopes” alla scaletta dei concerti. Quel brano, scritto da Tim Scott McConnell della band losangelina Havalinas, l’avevo inciso negli anni ’90. Durante le prove abbiamo preparato il pezzo, poi con Tom alla chitarra abbiamo davvero spaccato. A metà tournée siamo andati a reinciderlo agli Studios 301 di Sydney insieme a “Just like fire would”, dei Saints, uno dei primi gruppi punk australiani, peraltro uno dei miei preferiti...». L’album propone quattro cover e una manciata di inediti. Suoni molto rock, grazie proprioe all’apporto di Morello. “High hopes”, del quale esiste un video diretto da Thom Zimny, è un pezzo degli Havalinas che il Boss aveva già inciso in un ep del ’96. “Frankie fell in love” mette in scena un immaginario dialogo davanti a una birra fra Shakespeare e Einstein. “This is your sword”, fra cornamuse e richiami biblici, è vicina alle atmosfere di “Wrecking ball”. Brillano di rinnovata e rabbiosa luce anche le nuove versioni di “The ghost of Tom Joad” e “American skin (41 shots)”, nel quale viene raccontata la storia di Amadou Diallo, l’afroamericano ucciso dalla polizia di New Work appunto con 41 colpi di pistola. “Harry’s place” consente alla chitarra di Morello di duettare virtualmente con il sax di Clarence Clemons. Già, perchè Clemons e Danny Federici, scomparsi rispettivamente nel 2011 e nel 2008, sono presenti nell’album. Fra gli altri titoli: l’inedita “Down in the hole”, “Just like fire would” (cover del brano dei Saints), “Heaven’s wall”, le acustiche “Hunter of invisible game” e “The wall” (altri inediti). Fino al gran finale di “Dream baby dream”, cover di un classico dei Suicide. Qualcuno ha già definito “High hopes” un “album minore”, forse perchè il precedente “Wrecking ball” aveva alzato di molto l’asticella qualitativa. Trattandosi di Bruce Sprinsteen - il cui tour 2014 parte il 26 gennaio da Città del Capo, per ora non sono previste date in Italia, ma l’anno è appena cominciato -, andremmo molto cauti con queste valutazioni al ribasso...

venerdì 3 gennaio 2014

AGLI ISCRITTI ASSOSTAMPA FVG

Care colleghe, cari colleghi, Nell'impegno che ci aspetta nel 2014, sappiamo di avere delle priorità. Il contratto, innanzitutto. Quel contratto scaduto nel marzo scorso e per il rinnovo del quale stiamo lavorando, come sindacato dei giornalisti, sapendo di avere dall'altra parte del tavolo tanti editori che un contratto nazionale non lo vorrebbero più firmare o almeno lo vorrebbero fortemente depotenziare. Noi puntiamo alla difesa del contratto e dei posti di lavoro, alla regolarizzazione e alla contrattualizzazione di quel vero e proprio esercito di precari e non garantiti che in questi anni sono cresciuti a dismisura. Ma abbiamo l'obbligo di parlar chiaro. La situazione è difficile, difficilissima, a causa della crisi economica ma anche della rivoluzione tecnologica. Sappiamo che non esiste lavoro giornalistico contrattualizzato e dignitoso per oltre 110mila iscritti all'Ordine. Ciò detto, dobbiamo credere e lavorare per il rilancio del settore, che deve passare per lo sviluppo e l'innovazione, per il lavoro per i giovani (e meno giovani...), per la protezione sociale adeguata a chi rimane senza lavoro ma anche a tanti pensionati e prepensionati. La nostra lotta per il lavoro però non può e non deve trasformarsi in una lotta generazionale fra poveri, mors tua vita mea, vai a casa tu a 58/60 anni che così c'è lavoro per me che magari ho già passato i quaranta. Niente di più sbagliato, anche perché è dimostrato che - nella situazione attuale - chi esce dalle redazioni non viene sostituito. Serve un sistema nuovo di lavoro, di sviluppo, di protezione sociale. E servono i soldi pubblici annunciati dal governo, che non sono regalìe come dice qualcuno, ma non devono essere usati solo per rifinanziare la 416 - e far uscire giornalisti dalle redazioni - ma anche e soprattutto per creare nuovi posti di lavoro. Per affrontare questa sfida, abbiamo bisogno di un sindacato forte e unitario. Che magari si divida sulle idee per affrontare la crisi e contrastare certe politiche datoriali, ma poi viaggi diritto e unito (contrattualizzati e non contrattualizzati) verso l'obiettivo. Abbiamo bisogno anche dell'aiuto di tutti i colleghi. Per questo l'appello all'iscrizione al sindacato quest'anno parte ancor più forte e convinto. Tutti beneficiano dei contratti e degli accordi firmati dal sindacato, ma molti nemmeno si iscrivono, perché è facile e comodo criticare, salvo poi beneficiare dei risultati (anche economici) ottenuti... Nel Friuli Venezia Giulia, grazie al lavoro gratuito dei colleghi impegnati nell'Assostampa, abbiamo le quote di iscrizione più basse d'Italia. Non solo: è possibile anche chiedere l'iscrizione gratuita (altro caso unico a livello nazionale), per giornalisti professionali disoccupati e collaboratori in difficoltà economiche. Aiutate il sindacato unitario dei giornalisti: solo così possiamo sperare di farcela. Iscrivetevi, e aiuterete anche voi stessi in un momento di grandissima difficoltà per tutti. grazie, buon anno e un caro saluto a tutti Carlo Muscatello presidente Assostampa Fvg

da BOLLETTINO GIORNALISTI FVG

Diversi anni fa, quando i colleghi del Friuli Venezia Giulia mi chiesero di fare prima il segretario e poi il presidente dell'Assostampa regionale, avevo molti dubbi e una sola certezza: il sindacato dei giornalisti, quello che avevo conosciuto nelle mie precedenti esperienze in alcuni Cdr del "Piccolo", era alla vigilia di un cambiamento non più rinviabile. Una mutazione che andava aiutata, sviluppata, assecondata, portata avanti con tutte le nostre non grandi forze. Non più sindacato dei garantiti, figura che peraltro cominciava già allora a sfumare sotto i colpi delle ritrutturazioni e delle crisi che non guardavano e non guardano in faccia nessuno (basta pensare alle casse integrazioni e ai licenziamenti al "Piccolo", nel '96, impugnati con soddisfazione davanti alla magistratura del lavoro da uno di quei Cdr di cui avevo fatto parte). Non più sindacato che, a ogni rinnovo contrattuale, in periodi di vacche grasse, chiedeva e spesso otteneva qualche centinaio di migliaia di lire in più. Non più sindacato considerato, purtroppo, cosa "altra" da una parte sempre più consistente della categoria. Categoria, e i segnali c'erano già tutti, bastava volerli vedere e capire, che stava profondamente cambiando. Il sogno di molti editori di "produrre i giornali senza giornalisti" era molto difficile, quasi impossibile da mettere in pratica. Ma l'aspirazione ad avere a libro paga redazioni sempre più ristrette, rinforzate dall'esterno da un esercito sempre più numeroso di collaboratori malpagati e spesso anche maltrattati, ecco, quella si andava delineando - e realizzando - con sempre maggiore forza e decisione. A Trieste come a Gorizia, a Udine come a Pordenone (ma non è che nel resto d'Italia le cose andassero diversamente), non bastava più collaborare per alcuni anni, fare gli "abusivi" in redazione, aspettare pazientemente il proprio turno, per vedersi assunti in pianta stabile (con contratto, stipendio dignitoso, spesso anche integrativi e benefit varii) in sostituzione di un collega andato in pensione o trasferito in un altro giornale. Il sistema stava cambiando e non sarebbe più tornato quello di prima. Ma torniamo al nostro sindacato regionale. In una realtà profondamente mutata, nella quale oggi più di metà dei giornalisti non sono contrattualizzati, anche l'Assostampa doveva e ha dovuto cambiare pelle. Non più solo "Assostampa dei Cdr", com'era stata fino agli anni Novanta, ma Assostampa di tutti, anche dei collaboratori, dei precari, dei freelance, di tutti quelli che un Cdr che li rappresenti non ce l'hanno, di quelli che mettono assieme una collaborazione con l'altra, che ricevono mille promesse ma poi si trovano per anni a incassare poche centinaia di euro al mese, di quelli che troppo spesso sono costretti a rivolgersi a un giudice, per vedere riconosciuti i propri diritti. Anche perchè, da che mondo è mondo, il sindacato serve e deve servire innanzitutto alle fasce più deboli di una categoria. Sono passati diversi anni, e nel Friuli Venezia Giulia abbiamo l'orgoglio di essere stati una delle prime Assostampa regionali - persino prim'ancora della Fnsi - ad aver capito il cambiamento ed esserci comportati di conseguenza. Il nostro Coordinamento precari e freelance regionale è stato una delle primissime esperienze nelle quali i colleghi meno garantiti si sono organizzati, all'interno dell'Assostampa (nel cui Direttivo i colleghi del Coordinamento sono da tempo presenti ai più alti livelli), e hanno cominciato a lavorare ottenendo riconoscimento di ciò sia nelle altre regioni che a livello nazionale. Molto lavoro è stato fatto, moltissimo dev'essere ancora realizzato. Dalla battaglia per il nuovo contratto (il sindacato è impegnato ad allargare la platea dei contrattualizzati, all'insegna dell'inclusione e della regolarizzazione) alla legge sull'equo compenso da applicare, dalla legislazione regionale (la presidente Serracchiani si è mostrata interessata a una legge a sostegno dell'informazione, come già accade in altre regioni) agli accordi per i collaboratori ancora tutti da scrivere con gli editori (magari sull'esempio di quanto stanno portando avanti i colleghi veneti). Nell'impegno che ci aspetta, abbiamo però l'obbligo di parlar chiaro. La situazione è difficile, difficilissima. La crisi economica e la rivoluzione tecnologica non promettono pranzi luculliani. Sappiamo che non esiste lavoro giornalistico contrattualizzato e dignitoso per oltre 110mila iscritti all'Ordine. Ciò detto, dobbiamo credere e lavorare per il rilancio del settore, che deve passare per lo sviluppo e l'innovazione, per il lavoro per i giovani, per la protezione sociale adeguata a chi rimane senza lavoro ma anche a pensionati e prepensionati. Sì, perchè la lotta per il lavoro non può e non deve trasformarsi in una lotta generazionale fra poveri, mors tua vita mea, vai a casa tu a 58/60 anni che così c'è lavoro per me che magari ho già passato i quaranta. Niente di più sbagliato, anche perchè è dimostrato che - nella situazione attuale - chi esce dalle redazioni non viene sostituito. Serve un sistema nuovo di lavoro, di sviluppo, di protezione sociale. E servono soldi pubblici, che però non devono essere usati solo per rifinanziare la 416 - e far uscire giornalisti dalle redazioni - ma anche e soprattutto per creare nuovi posti di lavoro. Per affrontare questa sfida, abbiamo bisogno di un sindacato forte e unitario. Che magari si divida sulle idee per affrontare la crisi e contrastare certe politiche datoriali, ma poi viaggi diritto e unito (contrattualizzati e non contrattualizzati) verso l'obiettivo. Carlo Muscatello, presidente Assostampa Fvg

50 ANNI DI BEATLEMANIA, da quel primo tour negli Usa

La Beatlemania, quella vera, travolgente, planetaria, senza se e senza ma, è cominciata giusto cinquant’anni fa. Febbraio 1964. Dopo un anno di straordinari successi in patria e in Europa, dopo la conquista delle classifiche di vendita anche oltreoceano, per i nostri eroi arriva finalmente il tempo della prima trasferta negli Stati Uniti. I Beatles atterrano all’aeroporto di New York, accolti da diecimila fan (soprattutto ragazze) urlanti. Scene di delirio collettivo, puntualmente registrate da fotografi e tv. Che si ripetono, con urla, pianti e autentiche crisi isteriche, nella settimana di spettacoli alla Carnegie Hall di New York e al Washington Coliseum di Washington, prima della trasferta a Miami. I concerti newyorkesi sono l’occasione anche per la partecipazione a una puntata del leggendario Ed Sullivan Show. Durante la quale - scrivono i giornali americani dell’epoca - il numero dei crimini, soprattutto minorili, registrati all’ombra della Grande mela praticamente si azzera. «Persino i criminali - commenta per l’occasione George Harrison - si sono presi dieci minuti di pausa in occasione dello show dei Beatles...». Una curiosità. La loro prima tournée americana, almeno per quanto riguarda la parte relativa alla capitale Washington, viene documentata da una serie di quarantasei fotografie rimaste a lungo inedite, scattate da un fotografo dilettante, Mike Mitchell, e battute all’asta da Christie’s, a New York, nel luglio 2011 per una cifra folle. Altra curiosità. “1964 - Allarme a N.Y. arrivano i Beatles” (titolo originale “I wanna hold your hand”) è un film diretto nel 1978 da Robert Zemeckis, che documenta proprio quel primo tour, mischiando realtà e fantasia. Comunque, fra concerti e partecipazioni tv, la popolarità dei “Fab Four” non conosce più limiti, anche oltreoceano. Tornati a casa, dopo tre mesi in studio di registrazione partono per un altro tour mondiale che dal giugno ’64 li vede suonare nel Nord Europa, a Hong Kong, in Australia (con il leggendario concerto ad Adelaide dinanzi a 300mila persone: la loro esibizione più affollata di sempre) e Nuova Zelanda. Ad agosto, per un mese, nuovo tour negli Stati Uniti: venticinque concerti nelle principali città del continente a stelle e strisce, ormai diventato la seconda patria dei quattro. Mezzo secolo dopo i fatti narrati, e a quarantaquattro anni di distanza dallo scioglimento del gruppo, nonostante l’assassinio di John Lennon (proprio a New York, 8 dicembre ’80) e la morte per cancro di George Harrison (Los Angeles, 29 novembre 2001), i Beatles sono ancora e sempre leggenda. Una vera e propria icona della musica e della cultura del Novecento, con cui devono fare i conti tutti, anche i ragazzi nati nel nuovo millennio. Fra l’altro, da un paio di settimane è uscito un album con cinquantanove registrazioni inedite dei Beatles. Un’iniziativa adottata per evitare di perdere il copyright, i diritti d’autore, sui brani del 1963, in base alla legge europea. Fra il materiale mai sentito ci sono registrazioni alla Bbc e versioni di “She loves you” e “A taste of honey” diverse dagli originali. Il nuovo “Beatles Bootleg Recordings 1963” è stato pubblicato su iTunes dalla Apple Records, la storica etichetta discografica del gruppo inglese. Dopo l’entrata in vigore della nuova legge sul copyright in Europa queste iniziative “tecniche”, a malapena annunciate dalle case discografiche, sono in realtà sempre più frequenti. L’Unione Europea ha esteso i termini del diritto d’autore da cinquanta a settant’anni. Ma c’è un problema: non è possibile beneficiare dell’estensione se le opere non sono state pubblicate prima della scadenza dei 50 anni. Quindi tutto il materiale inedito è a rischio. I brani dei Beatles che sono stati appena pubblicati sono infatti stati registrati nel 1963. Le novità - che novità sono solo in parte - però non finiscono qui. È infatti da poco uscito il secondo volume tratto dal patrimonio di registrazioni radiofoniche dei “Fab Four” che la Bbc custodisce. Dal titolo “On Air - Live at the Bbc Volume 2”, il disco contiene fra l’altro una cover del brano di Chuck Berry “I’m talking about you” e del classico “Beautiful dreamer”. Fra i 63 brani compresi nell’album ci sono ben 37 performance mai sentite prima d’ora. «C’è molta energia e molto spirito, siamo cresciuti nei programmi della Bbc», ha detto Paul McCartney, ricordando il suono dei primi Beatles. Beatles forever, insomma. Grazie alla tanta e ottima musica lasciata dai quattro. Anche se c’è qualcuno che non si rassegna a dover vivere di ricordi. Un dentista canadese che due anni fa sborsò 19.500 sterline (oltre 23mila euro) per un molare ingiallito e cariato di John Lennon vuole clonare il cantante estraendone il dna dal dente. Michael Zuk, il dentista in questione, aveva acquistato il dente da un’anziana donna che negli anni Sessanta era stata cameriera dell’artista nella sua casa nel Surrey. Gliel’aveva regalato lo stesso John, sapendo che la figlia di lei era una sua fan...

giovedì 2 gennaio 2014

LES BABETTES, nuova perla del PUPKIN KABARETT

Nella gran serata di fine anno del Pupkin Kabarett al Politeama Rossetti (teatro pieno, risate e applausi a scena aperta per una sana satira che non guarda in faccia nessuno, nemmeno il sindaco Cosolini presente in platea...), un successo nel successo se lo sono ritagliate le “ultime arrivate” nella gang teatralmusicale coordinata dal capocomico Alessandro Mizzi. Stiamo parlando del trio vocale Les Babettes, tre interpreti frizzanti e ironiche che in meno di un mese sono diventate una bella realtà del Pupkin. Da parte sua fucina di talenti sin dagli esordi nel febbraio 2001 nella “saletta” del Teatro Miela, ben presto diventata troppo piccola per i fan che crescevano di lunedì in lunedì, e che in tutti questi anni hanno riempito il teatro di piazza Duca degli Abruzzi, fino all’apoteosi dell’altra sera nel salotto buono. Les Babettes sono Eleonora Lana (Lulù), Anna De Giovanni (Nanà) e Chiara Gelmini (Cocò). Nelle ospitate con il Pupkin sono accompagnate dai solisti della Niente Band. Quando tengono i loro spettacoli (ieri e la notte di Capodanno hanno incantato il pubblico del “Paradiso Perduto”, locale storico veneziano) hanno invece una piccola band: Tiziano Bole alla chitarra, Andrea Resce al contrabbasso e Alessandro Petrussa alle percussioni. «Era da anni - spiega Eleonora, triestina, 28 anni, esperienze con la Compagnia della Rancia e in vari musical - che sognavo un trio vocale tutto al femminile. Ci pensavo almeno da quando vidi a Bologna un concerto delle inglesi Puppini Sisters. Ne parlai con Chiara, con cui eravamo “voci bianche” nei Piccoli cantori della città di Trieste. Poi è arrivata anche Anna...». Lavoro di preparazione non facile, studi sui dischi delle americane Boswell Sisters ma anche dell’italianissimo Trio Lescano, approfondimento sui classici swing degli anni Trenta e Quaranta. «All’inizio - ricorda Chiara, triestina, 27 anni, laurea in filosofia - pensavamo ai musical, persino alle musiche dei cartoni animati. Poi ci siamo rese conto che funzionava meglio lo swing». Il gruppo nasce nel settembre 2011. «Pensammo a questo nome - spiega Anna, 28 anni, veronese trapiantata a Trieste prima per gli studi (laurea in lettere classiche) poi per amore - perchè ricorda i grandi trii ma è inequivocabilmente “triestino”...». Nel settembre scorso un’esibizione alla Stazione Rogers (la trovate su youtube), poi il contatto con il Teatro Miela e l’ingresso nel Pupkin Kabarett. «Parlammo con Francesco De Luca del “Miela” - aggiunge Eleonora -, il dubbio era se fare qualcosa da sole o entrare in una realtà già esistente e ben rodata. L’incontro con gli artisti del Pupkin ci ha tolto ogni dubbio: abbiamo debuttato al “Miela” il 2 dicembre e ora siamo felici di lavorare con loro». L’altra sera, nella seratona al Rossetti, applausi convinti per la loro rilettura de “El can de Trieste” di Lelio Luttazzi, restituita a nuova luce da armonizzazioni vocali (firmate da Eleonora) di prim’ordine. Ed è proprio al grande artista triestino che Les Babettes pensano per il loro primo progetto discografico. «Sì, ci piacerebbe molto - concludono - fare un disco-omaggio a Luttazzi: ha scritto canzoni splendide. E perfette per un trio vocale...».