mercoledì 29 dicembre 2004

ENRICO RAVA VINCE REFERENDUM M.JAZZ

Musicista italiano dell’anno, leader del miglior gruppo italiano dell’anno e, come se non bastasse, è suo anche il miglior disco italiano dell’anno. Insomma, per il triestino Enrico Rava il tradizionale appuntamento di fine anno con «Top Jazz», il referendum indetto dalla rivista «Musica Jazz», quest’anno si è tramutato in un autentico trionfo.
Non è la prima volta che Rava viene premiato dai critici in questo referendum, che è un po’ la risposta italiana a quello che oltreoceano organizza la rivista americana «Down Jazz». È infatti dall’82 che il suo nome compare quasi ogni anno fra i premiati, e per ben cinque anni di fila - dal ’93 al ’97 - si è lasciato tutti alle spalle nella categoria del miglior musicista italiano. Ma per un artista sessantacinquenne - è nato a Trieste nel ’39 -, che fra l’altro ha scritto una parte importante della storia del jazz italiano degli ultimi quarant’anni, e che è sicuramente il jazzista italiano più noto all’estero, si tratta di un’autentica consacrazione.
Fra gli italiani, il trombettista è stato preferito a quattro pianisti, che lo seguono nella classifica: Stefano Bollani, Enrico Pieranunzi, Antonello Salis e Franco D’Andrea. Fra i gruppi, il suo si è lasciato alle spalle i Nexus e gli High Five.
Ma si diceva della «triestinità» di Rava. Che una volta ha raccontato su queste colonne: «Sono nato a Trieste, in una casa di via Tor San Piero, a Roiano. Ma sono un triestino per caso, perché la mia famiglia è di Torino, dove siamo tornati quando io avevo tre anni: ci eravamo trasferiti a Trieste per motivi di lavoro di mio padre. Potrà sembrar strano, ma ricordi della città ne ho molti. Quando ci sono tornato, per la prima volta dopo tanti anni, ho riconosciuto i luoghi. A tre anni si è già ricettivi, ma per lo stesso motivo non ho avuto modo di fare alcun tipo di esperienza. Trieste è una città che amo molto anche se non la conosco come vorrei, mentre Torino è la città in cui sono cresciuto, la città dei miei genitori, della mia famiglia...».
Rava ha suonato molte volte nel Friuli Venezia Giulia e in particolare a Trieste. L’ultima volta nel maggio scorso, al Teatro Cristallo, a conclusione della rassegna «Sulle nuove rotte del jazz». In quell’occasione - accompagnato da Dado Moroni, Rosario Bonaccorso e Roberto Gatto - ha presentato il suo recente disco «Easy Living», pubblicato dall’etichetta tedesca Ecm, e premiato come miglior disco del 2004 dal referendum di «Musica Jazz».
Che nelle altre categorie ha premiato fra gli altri il contrabbassista William Parker, sperimentatore cinquantaduenne, neroamericano, che da anni è attivo nel settore del jazz d’avanguardia (musicista dell’anno); il trio di Keith Jarrett (gruppo dell’anno); il cd «Which way is East» del batterista scomparso Billy Higgins e del sassofonista Charles Lloyd (disco dell’anno); il trombettista Giovanni Falzone e il tastierista Craig Taborn (rivelazione, rispettivamente italiana e straniera, dell’anno).

martedì 28 dicembre 2004

ALESSANDRO SIMONETTO

Quando aveva quindici anni, dunque nel ’78, Alessandro Simonetto studiava violino e pianoforte al Conservatorio Tartini. Ma lo videro suonare con Angelo Baiguera - oggi portavoce di Riccardo Illy, allora giocatore di basket con la passione per la musica - nel programma di Tele4 «Il Pinguino», condotto da Marco Luchetta. «Applicando una regola vecchia di chissà quanti anni - ricorda Simonetto, che stasera alle 21 suona al Politeama Rossetti -, secondo la quale chi studia non può andare a suonare in giro, tantomeno musica leggera e tantomeno in tivù, prima mi sospesero e poi mi radiarono dal Conservatorio...».
Quell’episodio, lungi dal tagliare le gambe al ragazzo, gli diede la spinta necessaria per impegnarsi ancor più nel mondo delle sette note. In quel periodo, con una preparazione musicale appena accennata, quel che più colpiva in lui era l’innata musicalità: qualsiasi strumento prendesse in mano, dopo pochi minuti sapeva trarne una melodia, un riff, una scala...
«Fu la mia fortuna - dice Simonetto - quando nel ’90 mi trasferii a Milano. Andai a lavorare nello studio di Lucio Fabbri, violinista e produttore, da dove passavano a registrare tutti i grandi della musica italiana. Serviva un violino, un sax, una chitarra, un mandolino, una fisarmonica, una tastiera...? Io ero sempre pronto...».
Per il musicista triestino comincia così una carriera che lo porta a collaborare fra gli altri con Fabrizio De Andrè (suonava il violino nell’unico video dell’artista genovese, «La domenica delle salme»), con Ornella Vanoni, Massimo Ranieri, Pierangelo Bertoli (che accompagnò sul palco di Sanremo nel ’92, suonando la fisarmonica nel brano «Italia d’oro»), Francesco Guccini, Ron, Fiorella Mannoia, Paolo Rossi, Giorgio Conte, Shel Shapiro, Cristiano De Andrè, Grazia Di Michele, Vinicio Capossela, Massimo Bubola, Mango, Teresa De Sio, Ricky Gianco... Con alcuni in sala d’incisione, con altri anche in tournée. Aggiungiamo il suo zampino in alcune colonne sonore («Puerto Escondido» di Gabriele Salvatores, ma anche Marco Ferreri e Maurizio Nichetti...), e avremo la cifra di anni di lavoro piuttosto intensi.
Da alcuni anni Simonetto è tornato a vivere a Trieste. Prima per motivi familiari, poi per una scelta di vita. Ha fondato un’associazione culturale per la divulgazione musicale, l’ha chiamata «Semplicemente», ha in testa vari progetti.
Intanto questi concerti, promossi dall’assessorato regionale alla cultura. Dopo quelli a Gorizia e Tarcento, stasera suona al Rossetti, nella sua Trieste. Musica tzigana, tango argentino, flamenco, suoni balcanici. Cucinati con il triestino Roberto Daris, il goriziano Giorgio Marega, i vicentini Hotel Rif, Patrizia Laquidara (vista anni fa a un Sanremo Giovani), il gruppo Por Los Caminos Flamencos, gli udinesi Inquilini del Mondo...
«La scena nazionale in questo momento non mi manca - sottolinea Alessandro Simonetto -, sono rimasto abbastanza deluso. Da che cosa? Da tutto: i personaggi, il sistema, il mondo stesso della musica italiana, che sembra mosso soltanto dagli interessi economici...».

giovedì 23 dicembre 2004

CD STRENNE

La solita, comoda strenna dell’ultimo minuto? Un cd. O magari un cofanetto antologico che di cd ne contiene due o tre o quattro. O ancora un dvd, più in linea con le abitudini e i gusti dettati da anni e anni di Mtv...
Sotto con le idee, allora. Consapevoli di alcuni fatti: siamo nel periodo dell’anno in cui si vendono più dischi, l’industria discografica non si fa mai trovare impreparata all’appuntamento e propone soprattutto raccolte antologiche per tutti i gusti, l’occasione è quella giusta anche per ricordarsi delle migliori uscite degli ultimi mesi.
La prima indicazione è quasi obbligatoria: «Le avventure di Lucio Battisti e Mogol», il cd triplo antologico che ripercorre i dodici anni - dal ’69 all’80 - di collaborazione e i dodici album della coppia che ha cambiato la musica italiana. Cinquanta canzoni, dunque tutto il meglio della premiata ditta, fra cui anche tre interpretazioni inedite: «Vendo casa» solo chitarra e voce, «La spada nel cuore» (portata a Sanremo ’70 da Little Tony e Patty Pravo) e la misconosciuta «Le formiche».
Fra le altre antologie italiane, segnaliamo due «The Platinum Collection»: quella di Franco Battiato (uscito nelle scorse settimane anche con il buon disco di inediti «Dieci stratagemmi») e quella di Mina, che in un’indicazione di strenne natalizie - notoriamente - non può mai mancare.
Come non può mancare Adriano Celentano, presente nelle indicazioni di quest’anno - in attesa di rivederlo in video - con «C’è sempre un motivo». Ma l’occasione festiva può essere anche l’occasione per ricordarsi di alcuni dischi che hanno scritto la storia discografica italiana del 2004: da «Buoni o cattivi» di Vasco Rossi a «Passi d’autore» di Pino Daniele, da «Convivendo parte I» (la seconda parte arriva a febbraio...) di Biagio Antonacci a «Pearls» di Elisa, da «Zu & Co» di Zucchero a «Elegia» di Paolo Conte, da «Resta in ascolto» di Laura Pausini a «Illusioni parallele» dei Tiromancino... E ancora il terzo volume dal vivo di Ivano Fossati, la bella conferma di Sergio Cammariere con «Sul sentiero», «La riconquista del forum» degli Articolo 31 (amatissimi anche dai bambini). Per chi vuole qualcosa di diverso: l’originale proposta etno-rock dei calabro-bolognesi del Parto delle Nuvole Pesanti («Il parto»), il gramelot siciliano di Ivan Segreto («Porta vagnu») e il multietnico disco d’esordio dell’Orchestra di Piazza Vittorio.
Stranieri. Bello il cofanetto dedicato ai Nirvana, «With the lights out»: tre cd, un dvd e un libretto fotografico in un’elegante e originale confezione, per ripercorrere l’avventura della band di Kurt Cobain. Box di quattro cd, con registrazioni inedite e dal vivo, anche per i Bon Jovi: «100.000.000 Bon Jovi fans can’t be wrong», che sarebbe come dire: cento milioni di fan dei Bon Jovi non possono essersi sbagliati... Per i giovanissimi, «Best of Blue», la raccolta di successi dell’ennesima boy-band sulla via dello scioglimento: in attesa di vedere se almeno uno dei bei ragazzi riuscirà nell’impresa solista (il più attrezzato sembra essere Duncan...), si possono riascoltare alcune delle canzoni melodiche che hanno segnato le ultime stagioni, fra cui anche quella «A chi mi dice» cantata in duetto con Tiziano ferro.
Ancora stranieri, reparto inediti. Il ritorno di Prince («Musicology») e quello di Tom Waits («Real gone»), la conferma di Norah Jones («Feels like home») e quella - scontata - dei Rem («Around the sun»), la sorpresa dei norvegesi Kings of Convenience («Riot on an empty space») e quella degli inglesi Streets («A grand don’t come for free», già indicato da alcuni come il miglior album del 2004). Se poi non volete sbagliare - e rischiare - puntate sui vecchi sani e solidi U2: il loro «How to dismantle an atomic bomb» è sempre fra il miglior rock che c’è in circolazione.
Qualche dvd per chiudere. Quello di Fabrizio De Andrè, splendido omaggio dal vivo al Faber, e quello di Norah Jones. Il sontuoso quadruplo su «Live Aid», immagini di quasi vent’anni fa che è bello rivedere. Il volume di «Parole e Canzoni» (dvd e libretto) dedicato a Francesco De Gregori e curato da Vincenzone Mollica. Ma anche «Eros Roma Live 2004», doppio vendutissimo dvd che fotografa dal vivo il momento d’oro di Ramazzotti. E buon Natale...

martedì 21 dicembre 2004

...senso di nausea e spossatezza...


...quest'anno l'influenza si manifesta con gli stessi sintomi che dà il centrosinistra...


(ellekappa, repubblica)

martedì 14 dicembre 2004

VOLTARELLI / PARTO DELLE NUVOLE PESANTI

L’onda calabra sta per arrivare. Anzi, è già arrivata. E vi sommergerà tutti. Oggi alle 18.30, al caffè letterario Knulp (via Madonna del Mare 7), il Parto delle Nuvole Pesanti presenta il nuovo album intitolato «Il parto», in uno di quegli incontri con il pubblico che da un po’ di tempo si chiamano «show case».
Il gruppo calabrese (all’inizio erano in undici, poi in nove, ora in quattro ma certe volte - come nella foto qui sotto - anche in tre...) è considerato una delle realtà più interessanti della cosiddetta scena etno-rock italiana. Colti e popolari al tempo stesso.
«Ci siamo conosciuti a Bologna nel ’90 - spiega il cantante Peppe Voltarelli - dove tutti ci eravamo trasferiti dalla Calabria per motivi di studio: chi al Dams, chi a Giurisprudenza, chi in altre facoltà... Abbiamo cominciato a fare musica assieme per il gusto di mescolare il rock e la nostra tradizione popolare calabrese. All’inizio, di fronte alla nostra proposta, parlavano di ”taranta-punk”: etichetta usata soprattutto quando nel ’94 è uscito il nostro primo album...».
Prosegue Voltarelli: «Eravamo essenzialmente un collettivo di studenti fuorisede, cresciuti nell’orgoglio del nostro dialetto, delle nostre radici: materiali da trattare sempre con grande ironia, senza restare legati a un discorso di genere. L’idea era da subito quella di un gruppo e di un progetto aperto, anche con riferimento all’organico che col passare degli anni è mutato. Una sorta di allargo-stringo a seconda delle esigenze: un po’ come le nuvole, inafferrabili, con la voglia di non lasciarsi ingabbiare...».
Un momento importante, per il gruppo calabrese, sono stati l’incontro e la collaborazione con Claudio Lolli, di cui hanno rifatto lo storico disco del ’77 «Ho visto anche degli zingari felici». «La sollecitazione - spiega Voltarelli - è arrivata dalla nostra casa discografica, che è anche la sua. Lavorare con Lolli ci ha fatto prendere una sorta di ”cittadinanza bolognese” ad honorem. Ci ha sorpreso perchè è una persona semplice, schietta, che continua a fare il suo lavoro di insegnante in un liceo di Casalecchio. Su di lui imperano i luoghi comuni, che lo vogliono triste, schivo, noioso. Invece è una persona solare, che scherza e ride e fa pure un sacco di battute. Fra lui e noi c’è quasi una generazione di differenza, ma certi temi cantati dei suoi dischi (la piazza, l’abbondanza, l’idea dei fuorisede nella Bologna del ’77...) li abbiamo ritrovati come nostri, oltre che attualissimi...».
L’anno scorso, il gruppo ha realizzato un documentario (anzi, un ”rockumentary”...) sull’emigrazione calabrese in Germania, con la regia di Giuseppe Gagliardi, cosentino che vive a Roma. Un lavoro che è stato anche premiato al Torino Film Festival.
«”Doichlanda” è il modo in cui gli emigrati calabresi - spiega ancora il cantante del Parto delle Nuvole Pesanti - usano chiamare la Germania. Un termine che indica anche un luogo che offre nuove possibilità di lavoro, un luogo divenuto per molti anni meta delle migrazioni calabresi. Noi abbiamo realizzato un viaggio, che alterna le immagini della nostra tournèe in Germania e le interviste ai nostri emigranti lassù. Nelle case, nei ristoranti calabresi di Germania si dipana un viaggio che racconta i cambiamenti, le trasformazioni e le contraddizioni di una dinamica culturale per noi di estremo interesse».
«Davanti alla telecamera, accompagnati dalla nostra musica, gli emigrati raccontano la loro vita lontano dalla terra di origine, i loro problemi di inserimento e anche i loro successi, le loro soddisfazioni. Raccontano di una Calabria mai dimenticata, che ancora oggi rivive nella mente e nel cuore. E anche nei piatti della cucina tedesca rivisitata alla luce della nostra tradizione culinaria...».
«Onda calabra» è il brano che chiude il «road movie». E che apre il disco che viene presentato oggi a Trieste. A febbraio la band riparte, stavolta per l’Argentina, a riannodare altre storie di emigrazione calabrese...

domenica 12 dicembre 2004

EZIO VENDRAME

Prima il calcio, poi i libri, ora - forse - anche il Festival di Sanremo. Ezio Vendrame, friulano di Casarsa, cinquantasette anni, vive per sua stessa ammissione «murato vivo» nella sua piccola casa di San Giovanni di Casarsa. «Esco alle sei e mezzo del mattino - confessa - per comprare i giornali e bere un caffè al bar: poi, spesso, rimango in casa tutto il giorno...».
Nella sua terra («che amo, ma a cui mi sento estraneo...») Vendrame è tornato tanti anni fa, dopo aver concluso la sua avventura nel mondo del pallone. Quarantanove partite e un gol in serie A, nel Vicenza e nel Napoli, e tanti campionati nelle serie minori. Genio e sregolatezza, dicevano di lui, considerato una sorta di George Best all’italiana.
Poi, complice l’incontro con il poeta e cantautore livornese Piero Ciampi, l’amore per la poesia. Varie raccolte di versi, un paio di libri legati ai suoi trascorsi pallonari. Recentemente, il passaggio a un editore importante, Rizzoli, per cui ha scritto «Una vita fuori gioco», che sta incontrando un certo successo.
Fra un paio di mesi, Vendrame potremmo ritrovarcelo anche sul palco del Teatro Ariston. «L’anno scorso - racconta lo scrittore - sono stato invitato a Sanremo, al Club Tenco, perchè partecipavano alla rassegna con canzoni nate da miei versi, sia il gruppo dei Tete de Bois che il cantautore Nicola Costanti. Con quest’ultimo, premiato per il brano ”Io, non lui”, ci siamo conosciuti meglio ed è nata una collaborazione. Mi ha chiesto di scrivere assieme una canzone da mandare al Festival 2005. All’inizio ero un po’ titubante, poi mi sono lasciato convincere...».
«È nato un brano - prosegue Vendrame - che parla di questo nostro modo frenetico di vivere, del quotidiano di tutti noi, quasi obbligati a vivere a mille all’ora. La vita invece è breve, va gustata lentamente, noi siamo provvisori...».
La canzone comprende anche dei versi, all’inizio e alla fine, recitati da Vendrame. Che dunque affiancherebbe Costanti sul palco dell’Ariston, nel caso la canzone venisse accettata dalla commissione giudicatrice.
Ma c’è di più. Il duo potrebbe diventare un trio, con la partecipazione nientemeno che di Jane Birkin, l’attrice e cantante inglese, già moglie e musa di Serge Gainsbourg, con cui sussurrava alla fine degli anni Sessanta il classico erotico «Je t’aime moi non plus».
«A Sanremo l’anno scorso c’era anche lei - spiega Vendrame -, premiata per il disco ”Arabesque”. Ci siamo conosciuti, frequentati un po’, sono andato anche a Parigi a vedere un suo concerto, magnifico. Ora, visto che fa parte della stessa casa discografica di Costanti, c’è in ballo questo tentativo di farla partecipare al nostro progetto...».
Strano ed enigmatico personaggio, Vendrame. Fa cose, vede gente, ha un indiscusso talento e una spiccata sensibilità. Ma poi, proprio come quando giocava a pallone, sembra quasi farsi sopraffare da una specie di demone dell’autodistruzione...
«Le cose mi accadono senza che io le cerchi - confessa -, non è che io ci sputi sopra, ma non riesco a darvi troppa importanza. Il fatto è che non prendevo sul serio il pallone, e non prendo sul serio la scrittura. Sono i rapporti umani, che mi deludono. E poi mi lasciano solo...».


 

sabato 11 dicembre 2004

VENDITTI

Sarà il PalaTrieste la prima tappa del 2005 del nuovo tour di Antonello Venditti, che è partito l’altra sera dal Mazda Palace di Torino. Il cinquantacinquenne cantautore romano, che ha appena pubblicato l’album «Campus Live» (stesso titolo del tour), sarà infatti a Trieste sabato 8 gennaio. Aprendo di fatto un mese musicalmente molto ricco per il capoluogo giuliano: sempre al PalaTrieste debutterà infatti il primo di febbraio il tour di Elisa e farà tappa il giorno 8 quello di Laura Pausini.
Ma torniamo al cantore di «Roma capoccia». L’altra sera i cinquemila che lo hanno applaudito a Torino si sono trovati dinanzi un Venditti musicalmente trasformato: meno pianoforte e più chitarre, negli arrangiamenti di vecchi e nuovi classici che vanno a formare la scaletta del concerto che vedremo anche a Trieste: da «Che fantastica storia è la vita», che apre la serata, a «Notte prima degli esami» (dedicata, ha detto il cantautore romano, «a tutti quelli che non ci sono più, e penso a gente come Fabrizio De Andrè, Lucio Battisti, ma anche agli amici e ai parenti che non sono più qui...»), da «Sotto il segno dei pesci» a «Ci vorrebbe un amico», per continuare con «In questo mondo di ladri», «Alta marea», «Ventuno modi per dirti ti amo», persino l’antica «Sara»...
Con lui, sul palco, i due chitarristi Marco Rinalduzzi e Giovanni Di Caprio, il bassista Fabio Pignatelli (già con i Goblin), il batterista Derek Wilson, i fedelissimi Alessandro Centofanti alla tastiera e Amedeo Bianchi al sax, e infine l'«uomo orchestra» Bruno Zucchetti.
Rispetto al disco, Venditti dice: «Si tratta di un ”live” un po’ anomalo: nel senso che di solito si fa dopo una tournèe, mentre stavolta noi lo abbiamo fatto prima. Il disco è stato infatti registrato in un campus che sa di America e invece sta a Cinecittà, nella nuova scuola laboratorio di musica aperta a Roma a settembre. Ci hanno ospitato per provare due settimane, poi col chitarrista Rinalduzzi ho pensato di scavare nelle canzoni e negli arrangiamenti e l’esperienza. Che è stata così forte che abbiamo deciso di farne un ”live”e ci siamo rimasti quattro mesi..».
Da segnalare che, proprio in occasione del tour, è appena uscita anche la biografia «Antonello Venditti - Che fantastica storia», di Pino Casamassima. Centocinquanta pagine lungo le quali l’autore ripercorre vita, carriera, successi, esperienze del cantautore romano, dai debutti al Folkstudio assieme a De Gregori fino alle cose più recenti.

MORANDI FA 60 ANNI

Compie oggi sessant’anni Gianni Morandi, il figlio del ciabattino comunista di Monghidoro. Che quando quel ragazzino dalle mani grandi quanto la voce, all’inizio degli anni Sessanta, portò a casa i primi soldi guadagnati con la musica, gli disse di restare con i piedi per terra, che tanto non sarebbe durata, che di lì a poco sarebbe tornato anche lui nella bottega da calzolaio di suo padre, che la domenica mattina andava a fare la diffusione militante dell’Unità...
Non avrebbe potuto immaginare, il babbo di Morandi, che quella di suo figlio sarebbe stata una delle carriere in assoluto più lunghe della musica leggera italiana. Di più: un pezzo di storia del nostro Paese, un monumento della canzone, dietro all’eterno ragazzo sorridente il cui volto rimanda al ricordo del boom economico degli anni Sessanta.
Quarantadue anni son passati, da quel ’62 della sua vittoria al Festival di Bellaria, dai primi 45 giri («Andavo a cento all'ora», «Fatti mandare dalla mamma»...) per la Rca, dalla consacrazione arrivata nel ’64 con la vittoria al Cantagiro con «In ginocchio da te»... Poi i milioni di dischi venduti, le tournèe anche all’estero, i film musicali, il matrimonio con Laura Efrikian, il servizio militare fatto con la partecipazione di mezza Italia, le Canzonissime, le sfide con Claudio Villa...
Da allora, la carriera di Morandi ha avuto solo una breve parentesi negli anni Settanta, quando il gusto musicale giovanile dell’epoca e lo stretto legame fra musica e politica lo fecero apparire di colpo «vecchio» (ad appena trent’anni...), inadeguato alla nuova scena musicale, legato a quella sua faccia da bravo ragazzo che per la prima volta non pagava più.
A differenza di tanti suoi colleghi, piuttosto che diventare patetico tentando di raschiare il fondo del barile, in quegli anni seppe farsi da parte. Ne approfittò per andare a studiare contrabbasso e composizione al Conservatorio, lui che la musica non aveva potuto studiarla da ragazzino perchè in famiglia di soldi non ce n’erano (e con quelli arrivati grazie ai suoi dischi, il primo acquisto importante fu il frigorifero, mentre lui avrebbe voluto la Cinquecento...).
La pausa, per Morandi, durò poco. All’inizio degli anni Ottanta il suo feeling con il pubblico riprese. E non si è ancora interrotto, confermandolo come uno dei protagonisti di primissimo piano della canzone e dello spettacolo italiani del dopoguerra.
Se ne è avuta l’ennesima conferma poche sere fa, con quei sei milioni e mezzo di telespettatori che hanno assistito alla sua serata musicale su Canale 5. Ma anche il successo di vendite che sta premiando «A chi si ama veramente», il suo nuovo disco appena uscito, arrivato a due anni di distanza dal precedente «L’amore ci cambia la vita», la dice lunga sul seguito che Morandi continua ad avere dal pubblico italiano.
«Avevo delle idee che mi piacevano molto - spiega Morandi - così con Marco Falagiani ho scritto ”Cassius Clay”, un omaggio a un mito dello sport che ho incontrato trent’anni fa. Poi con Fortunato Zampaglione ho scritto ”L'allenatore”, omaggio a una figura che fa da parafulmine a tante tensioni diverse...».
Dice ancora il cantante: «Continuo a fare volentieri questo lavoro. In fondo non lo faccio per me, ma per la gente che ascolta la mia musica. Se mi accorgessi che non c'è più un pubblico che ascolta Gianni Morandi, smetterei...».
Insomma, Morandi non molla. Del resto, se il disc-jockey Linus gli ha affidato il ruolo di generatore di energia in «Natale a casa Deejay», il film con cui la sua emittente festeggia gli ottant’anni dell'invenzione della radio, un motivo deve pur esserci...

venerdì 10 dicembre 2004

INTERVISTA CAPOSSELA

«Mi viene da pensare che, di questi tempi, nell’Italia berlusconiana
del 2004, i miei amici della Cooperativa Bonawentura avrebbero fatto meglio

a costruire il loro teatro abusivamente e poi chiedere un bel condono...».

Vinicio Capossela torna per l’ennesima volta a Trieste, per l’ennesima volta

al Teatro Miela (stasera alle 21.30). Il «suo» Teatro Miela. Stavolta per un

«reading», una di quelle «letture» - nel suo caso sonora - che mezzo secolo

fa vedevano come protagonisti Allen Ginsberg, Jack Kerouac e gli altri

pazzi, genialoidi, idealisti della Beat Generation. Ma prima di entrare nel

merito dello spettacolo, il cantautore e musicista nato ad Hannover non

perde l’occasione per dire la sua sulle recenti vicende del Teatro Miela...

«Sono sbalordito - dice - da quello che mi raccontano. Non si è mai visto un

ente pubblico che sfratta un teatro. Un ente pubblico dovrebbe pensare al

bene della comunità. E non c’è dubbio che il Teatro Miela sia uno degli

spazi più vivi e creativi che si trovano a Trieste e forse non solo a

Trieste».

Lei al Miela ha suonato spesso...

«Sì, con il mio gruppo, la prima volta - mi sembra - nel ’97. Poi con la

brass band macedone Cocani Orkestar, ancora musicando dal vivo il film di

Chaplin ”Tempi moderni”. Ma sono venuto anche come spettatore di una

rassegna cinematografica, come ospite a sorpresa del Pupkin Kabarett... Mi

hanno sempre invitato anche alla maratona su Satie, di cui anch’io sono un

estimatore, ma purtroppo non vi ho mai partecipato...».

Ora torna con un reading.

«Sì, come recita il sottotitolo sono voci, echi, versi e serenate dal mio

libro ”Non si muore tutte le mattine”. È teatro che confina con la musica,

un lavoro sulla voce, il suono, la parola. Una specie di seduta spiritica

che facciamo in teatro - con i musicisti che mi accompagnano, Alessandro

Stefana e Marco Tagliola - per allargare la forma narrativa usata nel

libro».

È il suo primo romanzo...

«Sì, l’ho definito una sorta di romanzo scomponibile: ogni capitolo può

esistere da solo, ma l’insieme - e questo è stato il difficile - risuona

tutto allo stesso modo. Il libro parla di Napoleone, di motel, di strani

animali, di cronache di viaggio a Est e a Ovest, di spurghi e altro ancora.

Deve adeguarsi a quel che si va dicendo, e quindi dà delle indicazioni di

tempo che equivalgono al valzer, al tango, alla rumba...».

Sembra un libro nato per diventare uno spettacolo.

«Ho provato a leggere ogni capitolo a voce alta, per sentire a che ritmo

andava, e ogni volta mi sembrava di stare su un treno diverso: diretto,

rapido, accelerato, locale... E dal treno ti metti a raccontare il

conosciuto prendendolo da angolazioni impreviste, di luoghi, di orari. Così

chi ascolta, o legge, riesce ad accorgersi di ciò che ha già».

Non ci fossero stati Kerouac e gli altri, oggi parleremmo di «reading»?

«Non lo so. Sicuramente i protagonisti della Beat Ge!neration ne hanno

proposto la forma più affascinante. Loro sapevano che la causa delle

scritture sono le letture, meglio se pubbliche. Le parole una volta stampate

coagulano. Fra l’altro nello spettacolo c’è anche un omaggio all’autore di

”On the road”, un frammento intitolato ”Cosa ha ucciso Jack Kerouac”...».

Kerouac allora come punto di partenza?

«C’è molto Keroauc nel senso di bruciare la vita fino a consumarla, proprio

della Beat Generation. La sua opera è immortale per l’approccio che ha con

la vita. Cambiano le condizione storiche, sociali, politiche, ma rimane

quella spinta a muoversi, a fare qualcosa, a cercare risposte...».

«Il mio - conclude Capossela - è un teatro di spettri, in cui l’uso delle

ombre accresce l’evocazione spiritica. I miei fantasmi sono le voci, che

vengono amplificate in vari modi. Voci e rumori presi dai campionatori, ma

anche da Bach, dalle Variazioni di Goldberg...».

GRANDE FRATELLO

È stata l’edizione più volgare, più brutta, più inutile. Il regno del

cattivo gusto, dell’ignoranza, delle urla beduine, delle scorregge, dei

ragazzotti e delle fanciulle drammaticamente senz’arte né parte,

nullapensanti e nullafacenti, disposti a qualunque nefandezza pur di

ottenere uno strapuntino nel dorato (?) mondo della televisione e dello

spettacolo. Sapendo che all’uscita dalla cosiddetta casa, se va male si

campa allegramente per un paio d’anni fra comparsate in tivù e ospitate

nelle discoteche, e se va bene si può ambire anche a qualcosa di più. Com’è

successo a Taricone, a Marina La Rosa, a Filippo Nardi...

Quattro anni e tre mesi dopo il debutto, per il quale si spesero fiumi di

inchiostro, il Grande Fratello si conferma uno degli episodi culturalmente -

e forse eticamente - più bassi della storia della televisione. Trash allo

stato puro (altro che l’astuta Lecciso...), che purtroppo ha fatto scuola,

visto che Rai-Mediaset si è «grandefratellizzata». Fra isole dei famosi,

fattorie, campioni e «music farm», quella che si è ormai affermata è la

sindrome del buco della serratura coniugata al quarto d’ora di celebrità che

Andy Warhol garantiva a tutti. Soprattutto a chi si trova a stazionare - in

questo caso per giornate intere - dinanzi a una telecamera.

Ma nella triste Italia berlusconiana del 2004, terra di furbi e mezze

calzette, di dittatura televisiva e degradate periferie urbane, vale sempre

più il detto di quel tale che avvertiva: una volta toccato il fondo, a volte

si risale, ma può capitare anche di dover scavare... Come spiegare,

altrimenti, i personaggi e le scene di questa edizione? Ne basti una. Quando

gli organizzatori decidono di squalificare seduta stante un poveretto che

fino a quel momento aveva brillato soprattutto per le ripetute e disinvolte

flatulenze, perchè aveva pensato bene di infiorettare il suo pensiero

debolissimo con un bel bestemmione in diretta televisiva, nella casa si sono

scatenate scene accettabili solo da parte di chi ha perso un figlio in

guerra: lacrime, singhiozzi, dolore, incredulità, implorazioni a

ripensarci...

Che dire? Forse, al di là delle battute sulle braccia rubate

all’agricoltura, certuni dovrebbero per davvero esser mandati a lavorare nei

campi, o in miniera, o dovunque la realtà non sia quella televisiva.

giovedì 2 dicembre 2004

LOCALI MUSICALI TRIESTE

Seratina musicale in un locale del centro cittadino. Un gruppo che suona, un pubblico più o meno giovane che ascolta. Sono da poco passate le undici quando si presentano i vigili urbani. Solita trafila: i vicini di casa si sono lamentati, il rumore, il disturbo alla quiete pubblica... C’è anche il rischio di una multa al gestore (che per mettersi in regola ha già dovuto pagare Siae ed Enpals, oltre al compenso ai musicisti), ma intanto la serata musicale viene prematuramente interrotta. Lasciando l’amaro in bocca ai presenti.
Quella descritta non è un’eccezione, rischia di diventare una regola delle serate triestine. Fino a che arriveremo al punto - già ci siamo vicini - in cui nessuno si arrischierà a organizzare serate di musica dal vivo. Sì, perchè Trieste, città notoriamente a prevalenza di anziani, è un territorio pensato e gestito a misura di adulti e anziani. I giovani non sono graditi, disturbano, fanno casino. Insomma, se ne devono andare.
E infatti se ne vanno. La vita giovanile di città vicine, come Gorizia, Udine, Pordenone, ma anche Capodistria e Lubiana, non è comparabile con quella (non) offerta dal capoluogo giuliano. Dove il teatrino dell’ex ospedale psichiatrico di San Giovanni - baricentro della vita giovanile negli anni Settanta e Ottanta - è perennemente in fase di restauro. E il Teatro Miela rischia lo sfratto.
«A Trieste non esistono centri giovanili - afferma Federico Bonfanti, 24 anni, laureando in economia ma anche chitarrista attivo all’interno del Pag, Progetto Aggregazione Giovanile - e i ragazzi che suonano, o anche che vogliono semplicemente ascoltare musica dal vivo, vanno spesso in trasferta. In Slovenia sono molto più occidentali ed europei di noi. E a Villaco ci sono ben tre centri della gioventù...».
La storia del Pag merita di essere ricordata. Nato nel ’92 dall’esigenza riconosciuta da tutti - Comune in testa - di garantire spazi aggregativi alla popolazione giovanile della città, solo nel 2000 ebbe a disposizione - dopo varie promesse, fra cui quella di Villa Sartorio - uno spazio all’interno del ricreatorio De Amicis, in via Colautti (zona piazzale Rosmini). Sale prova, seminari, zona lettura, piccoli concerti... Fino a che un giorno ospitano un dibattito organizzato dal Gruppo anarchico Germinal dopo la proiezione del film «Fragole e sangue». Risultato: il Comune sposta baracca e burattini a Borgo San Sergio, in periferia, dove l’attività non decolla e si presentano subito vari problemi logistici. Seguono nuovi traslochi prima in un appartamento in via Carducci e poi a Opicina, dove i ragazzi del Pag si trovano tuttora, in via di Monrupino.
«In via Colautti - spiega l’assessore comunale Angela Brandi - c’erano innanzitutto problemi di convivenza coi bambini del ricreatorio. L’entrata era comune, lo spazio esterno anche, e molti genitori si erano lamentati della vicinanza forzata fra ragazzi grandi e bambini. Il dibattito organizzato dal Gruppo Germinal non ha aiutato: la convenzione non prevede la presenza di gruppi politici...».
La mancanza di sale prova è un altro degli aspetti del problema. «Stiamo tentando di sfruttare la rete dei tredici ricreatori comunali - prosegue la Brandi - che in altre città non esistono. Al Toti, a San Giusto, che è stato appena ristrutturato ed è dedicato ai ragazzi più grandi, stiamo cercando le risorse per allestire una sala prove attrezzata. Che già esiste al Pitteri di San Giacomo, al Cobolli di strada vecchia dell’Istria e al Ricceri di Borgo San Sergio, dove presto apriremo un centro di aggregazione giovanile. Al Gentilli, a Servola, stiamo pensando a un progetto serale denominato ”Ricre-rock”...».
«L’esperienza che abbiamo avviato - conferma Antonella Brecel, coordinatrice del ricreatorio Toti - è positiva. Possiamo contare su un bel piazzale panoramico e su un teatrino, che ci permettono di ospitare rassegne e spettacoli d’estate e d’inverno. L’obiettivo è quello di offrire un punto di aggregazione ai ragazzi dai tredici ai diciannove anni».
Molti giovani che suonano gravitano sulla Casa della Musica, la moderna e funzionale struttura comunale di via dei Capitelli (zona piazza Cavana), gestita dalla Scuola di Musica 55. «Le nostre quattro sale prova - spiega il direttore Gabriele Centis - funzionano a pieno regime. Sono tutte attrezzate con gli strumenti e sono disponibili a tariffe agevolate: con gli abbonamenti si pagano otto euro l’ora. Un costo accettabile anche per un’utenza giovanile. A questa attività si aggiunge quella dello studio di registrazione, dove è possibile realizzare un disco con la garanzia di alti livelli di professionalità. E ovviamente l’attività della scuola di musica, che conta su oltre seicento allievi di ogni età...».
Insomma, il Comune offre i ricreatori e la Casa della musica. E la Provincia? «Noi non abbiamo strutture - segnala l’assessore Guido Galetto -; oltre al teatrino (per ora chiuso) dell’ex Opp, abbiamo solo l’edificio che ospita il Teatro Miela. Sul quale, come si sa, è in atto un contenzioso...».
Ma torniamo ai locali dove è sempre più difficile ascoltare musica. «A Trieste mancano posti che garantiscano una continuità - dice ancora Centis -, con veri e propri cartelloni musicali, come esistono in Veneto e in altre regioni, da noi non esistono. Alla base ci sono le difficoltà burocratiche ed economiche che gravano sui gestori. I quali, oltre a pagare i musicisti, devono essere in regola con la Siae, pagando i diritti d’autore sui brani eseguiti, e anche con l’Enpals, l’ente di previdenza dei lavoratori dello spettacolo. Aggiungi l’imprevisto dei vigili urbani che si presentano alle undici o a mezzanotte, chiamati dai vicini, e si comprende perchè sono sempre più rari i gestori che propongono musica dal vivo nei loro locali...».
Fra questi, anche chi era partito con le migliori intenzioni, è costretto ad ammainare la bandiera della musica dal vivo. «Avevamo cominciato nella primavera del 2000 - ricorda Corrado Savio, patron dei Macaki, in viale XX Settembre - e per qualche mese siamo andati avanti con serate di musica dal vivo, con gruppi locali ma anche nazionali, quasi ogni sera. Non abbiamo trovato una risposta di pubblico tale da permetterci di continuare su questa strada. Le lamentele dei vicini, con conseguente intervento delle forze dell’ordine, hanno fatto il resto».
«Allora abbiamo modificato la nostra proposta - prosegue Savio, negli anni Settanta protagonista di primo piano del mondo delle radio private triestine - puntando sulle serate con dj, feste a tema, cene con intrattenimento musicale... Un mese fa, nella notte di Halloween, mi sono fatto ritentare dalla musica dal vivo. Non l’avessi mai fatto: alle undici, puntuali come orologi svizzeri, sono arrivati i vigili...». Proprio come accade alla Corsia Stadion in via Battisti, o al Naima di via Rossetti, o all’Hip Hop a Montebello.
Una storia simile è quella del «Punto G» di via Economo, vicino Campo Marzio, dove la fantasia del gestore Alberto Marra (che già da anni propone musica e cabaret da Spetic, a Cattinara...) ha trasformato un piccolo cantiere navale da anni in disuso in un locale che farebbe la sua figura anche a Roma o a Milano. «Abbiamo aperto due anni fa - spiega Marra - puntando sul discobar con musica e cabaret. Visto che siamo completamente insonorizzati, non avevamo problemi con i decibel emessi. Anche la magistratura aveva verificato che i suoni erano a norma. Ma la nostra clientela aveva il vizio di fermarsi nei pressi nel locale, anche dopo l’orario di chiusura, suscitando le proteste dei vicini e l’intervento dei vigili. Dunque...».
Dunque anche in questo caso si è cambiata tattica. Non più discobar con chiusura alle quattro del mattino, ma pizzeria con musica e cabaret di contorno. E i vicini non si lamentano più. Per ora.

RAF STASERA A PORDENONE

Era il 1984, quando uscì «Self control». Per Raffaele Riefoli, in arte Raf, pugliese di un paese in provincia di Foggia, classe 1959, fu il primo di una lunga serie di successi. Si trattava di un brano dance, inciso per un'etichetta francese, che a sorpresa raggiunse i vertici delle classifiche di mezzo mondo, Stati Uniti compresi, dove la versione di Laura Branigan (quella che aveva sbancato anche con «Gloria», di Umberto Tozzi) arrivò al primo posto della hit parade di Billboard.
Sono passati vent’anni, e Raf - il cui tour fa tappa stasera alle 21 al palasport di Pordenone - è oggi uno degli artisti più stimati della musica pop italiana. Una credibilità confermata dal successo del suo ultimo album, intitolato «Ouch», e dall’interesse suscitato dalla sua prima autobiografia ufficiale, «Cosa resterà» (Mondadori).
Nella quale l’artista pugliese prende nettamente posizione contro la televisione che «ci offre solo "certe" verità, quelle che fanno comodo. Le notizie sono sempre più spesso "velate", pochi raccontano la verità, che va cercata sempre con la propria testa. Però io vedo anche che moltissimi giovani sono distratti, dedicano poco tempo e attenzione a interrogarsi su temi politici. E poi non mi piace la strumentalizzazione politica delle notizie, il costante revisionismo storico, l'equiparare fatti storici lontanissimi per dare legittimazione alle scelte politiche».
Si diceva delle origini pugliesi di Raf. Ma va subito aggiunto che l’artista è cresciuto nell’ambiente musicale fiorentino, nel quale ha debuttato giovanissimo collaborando alla vivacissima scena new wave. Il salto successivo, all'inizio degli anni Ottanta, lo porta a Londra, dove vive e suona per un periodo, alla fine del quale arriva quel singolo - «Self control» - che lo porta dritto dritto al successo italiano e internazionale. Alimentato, nello stesso periodo, da altri due singoli: «Change your mind» e «Hard».
Nell’87 Raf scrive «Si può dare di più», la canzone con cui Morandi, Ruggeri e Tozzi vincono Sanremo. E sempre con Umberto Tozzi, poco dopo, scrive e interpreta «Gente di mare», altro successo di livello europeo. Seguono «Inevitabile follia» (Sanremo ’88, stavolta in prima persona), «Cosa resterà degli anni Ottanta», «Ti pretendo» (vittoria al Festivalbar dell’89)... Brani con i quali l’artista dimostra di saper coniugare perfettamente la tradizione della canzone d'autore italiana con le sonorità più attuali e sofisticate della scena pop internazionale.
Negli anni Novanta, attraverso canzoni come «Oggi un dio non ho» e «Il battito animale», e album come «Manifesto» e «La prova», Raf porta avanti un’ulteriore evoluzione verso suoni e ritmi rock, pur mantenendosi nel territorio proprio delle strutture e delle melodie pop.
Il concerto che arriva oggi in regione fa parte di «Venti anni di canzoni in tour», che dopo un breve assaggio estivo, ha da poco debuttato nei teatri e nei palasport. Uno spettacolo che ripercorre due decenni di carriera - attraverso successi che hanno fatto la storia della musica italiana di questo periodo - e nel quale Raf è affiancato sul palco da una band formata da Alfredo Golino (batteria), Simone Papi (tastiere), Massimo Ghidelli e Giorgio Baldi (chitarre), Cesare Chiodo (basso).

lunedì 15 novembre 2004

INTERVISTA POOH / RED CANZIAN

«Allo stadio devi gridare, a teatro puoi anche sussurrare. In fondo è la stessa differenza che c’è fra una cena con cinquanta invitati e una a lume di candela, con due soli commensali...».
Parla Red Canzian, che da trentatre anni (su un totale di trentotto di carriera del gruppo) è uno dei quattro Pooh. Il cui nuovo tour teatrale fa tappa giovedì e venerdì al Politeama Rossetti. «Erano dieci anni - spiega il bassista, che vive vicino Treviso - che non suonavamo nei teatri, e devo dire che ci mancava. Vedere la gente in faccia è una sensazione impagabile, ti permette di suonare più rilassato, non sei costretto a spingere sempre sull’acceleratore...».
Un altro vostro tour teatrale fu quello del ’91...
«Sì, quello dei venticinque anni di carriera, intitolato ”La nostra storia”. Ricordo anche in quell’occasione la tappa triestina, sempre al Rossetti, un bellissimo teatro nel quale torniamo sempre volentieri...».
Dall’arresto a Trieste del vostro batterista saranno invece passati trent’anni...
«Eh sì... era l’estate del ’74. Eravamo seduti al tavolo di un ristorante sulle Rive, davanti alla vecchia pescheria, e Stefano aveva difeso una donna presa a male parole da un automobilista per aver attraversato la strada in maniera repentina. Finì a insulti. E il tipo era un carabiniere, o un poliziotto, non ricordo bene, in borghese. Risultato: oltraggio a pubblico ufficiale, due notti al Coroneo, processo per direttissima con condanna a sei mesi in primo grado e assoluzione in appello...».
Quella sera fu anche il vostro unico concerto in tre...
«Già, dovevamo suonare al Castello di San Giusto. E mentre il nostro batterista stava in galera, noi ci presentammo in formazione inedita, senza batteria, con me e Dodi che davamo il ritmo battendo col piede sulle tavole del palcoscenico...».
Di quegli anni, in questo tour, rifate diverse canzoni...
«Sì, la scaletta comprende quarantacinque canzoni, una sorta di ”greatest hits” fra i quali non mancano i cavalli di battaglia degli anni Settanta. C’è anche ”Parsifal”, il nostro rock sinfonico, con tanto di parte orchestrale lunga più di sei minuti...».
Le vecchie «suite», proprio mentre a Sanremo pongono il limite dei tre minuti...
«Ecco, quella novità del regolamento la trovo davvero incredibile. Come si può porre un limite del genere? La nostra scelta di riproporre anche un momento orchestrale come la ”suite” va intesa in controtendenza con chi, soprattutto in tivù, vuole mettere la musica in secondo piano, privilegiando solo il revival o poenndo limiti assurdi...».
Invece...?
«Invece un artista, un gruppo devono avere la possibilità anche di sviluppare un discorso musicale, liberare la propria creatività, creare una magia attorno a un brano. Solo così si aiuta la discografia, solo così si restituisce energia vitale a un settore in perenne crisi...».
Ma case discografiche e artisti stanno correndo ai ripari...
«Per fortuna. La pirateria sta uccidendo il settore. L’unica alternativa è usare i nuovi strumenti, entrare con delle regole nel settore della musica ”on line”. Perchè se non ci sono i soldi si chiude baracca, non si investe più sui giovani, non c’è futuro...».
A proposito di giovani: in quattro avete undici figli, ma i due di Facchinetti sono ormai delle star...
«Dj Francesco ha ventiquattro anni, lo abbiamo visto crescere, siamo felici del successo che ha. Anche perchè è un ragazzo speciale e se lo merita. La sorella, Alessandra, che è più grande, me la ricordo che gattonava sotto il pianoforte del padre. Ora è una stilista di punta, ha preso il posto di Tom Ford nel settore donna di Gucci, le auguro di continuare così».
Li sentite un po’ «figli dei Pooh»?
«Sì, perchè la nostra è davvero come una grande famiglia. Lo dico senza retorica. E poi, Dj e Alessandra sono i più grandi di età: ma anche fra gli altri alcuni si stanno muovendo, pian piano, nel nostro settore. Del resto, sono cresciuti in questo ambiente...».
Il musical «Pinocchio»?
«È stata una grande esperienza. Per la prima volta ci siamo trovati a scrivere cose che non sarebbero state cantate da noi stessi. Ci siamo sentiti molto liberi. E siamo molto soddisfatti del risultato, oltre che dell’ottima accoglienza che il pubblico sta tuttora riservando al musical».
Nell’ultimo disco, «Ascolta», avete riscoperto i cori...
«Fra le nuove canzoni, abbiamo deciso di mettere nel disco proprio quelle che si prestavano di più al canto corale, che è stato storicamente una sorta di nostro marchio di fabbrica. Ne è venuto fuori quello che forse è il nostro album più lirico, frutto di una maturità compositiva di tutti e quattro...».
Perchè «Ascolta»?
«Non è un imperativo, ma piuttosto un consiglio: un consiglio rivolto a chi non ascolta le persone che ha vicino. Molti pretendono di essere ascoltati, ma non offrono al prossimo altrettanta disponibilità. Viviamo in un mondo in cui tutti urlano, ma sono pochi quelli che ascoltano...».
Vi dispiace essere ricordati solo per le canzoni d’amore?
«No, ormai lo abbiamo accettato. Ma il nostro pubblico più attento sa che abbiamo trattato spesso anche temi sociali. ”Pierre” parlava nel ’76 di omosessualità. ”Pensiero” era la storia di un uomo messo in galera ingiustamente, per un fatto che non aveva commesso. La stessa ”Parsifal” era un inno alla pace, con l’eroe wagneriano che getta le armi e rifiuta il ruolo di supereroe...».
Una volta siete stati anche censurati...
«Sì, nel ’66 del nostro esordio, con ”Brennero ’66”. Era ispirata a un fatto di cronaca: l’uccisione di un finanziere, nell’Alto Adige degli attentati di quegli anni. Vincemmo il Festival delle Rose, ma la Rai ci censurò, imponendo un titolo diverso per il festival (diventò ”Le campane del silenzio”) e cancellando un verso che diceva ”t’hanno ammazzato quasi per gioco”... Erano proprio altri tempi».

martedì 9 novembre 2004

INTERVISTA PATTY PRAVO

«Farò un film negli Stati Uniti, come attrice e come regista. E poi due dvd: uno dedicato alla canzone napoletana, che considero la vera musica italiana, quella delle origini, e uno ai miei classici. Oltre ovviamente al dvd che registro a Gorizia, per immortalare lo spettacolo che ho portato in tour quest’estate...».
Patty Pravo, che domani sera alle 20.45 canta al Teatro Verdi di Gorizia, ultima tappa del «Nic Unic Tour», vive un momento di grande soddisfazione professionale. «Sì, sento di avere un buon rapporto con il pubblico. Tanto che ho deciso di rinviare il momento in cui mi dedicherò completamente ad altre cose. Che ne so, magari andare a dirigere un’orchestra. Ora che finisco il tour devo partire per la promozione dell’ultimo disco all’estero: Francia, Spagna, Germania, Sudamerica... E poi la Cina, i cinesi sono fantastici, mi hanno adottata, con loro si è stabilito un feeling davvero particolare...».
«Nic Unic» è stato considerato un disco difficile.
«Perchè ho voluto fermamente lavorare con i giovani, che non è una cosa facile. Non hanno il senso della melodia e dell’armonia. E invece io trovo che la canzone vada rivalutata. A volte una canzonetta ti fa star bene, ti regala tre minuti di serenità, di tranquillità. Magari ti fa anche sorridere. Il che non guasta».
I giovani, invece...?
«Bisogna distinguere. La generazione dei trentenni è da accoppare. Non hanno curiosità, rifiutano di studiare, sono molto oscuri. Chissà, forse perchè sono figli di genitori sessantottini... I ventenni invece mi piacciono di più: studiano, sono promettenti, interessanti, mi danno maggior sicurezza».
Lei non ha avuto figli...
«L’ho deciso da ragazza, quando ho cominciato questo lavoro. Mi sembrava non fosse compatibile con l’allevare dei figli. Poi, chiaro, quando arrivi a una certa età, ci ripensi, magari ti mancano. Ma il mondo è pieno di bambini che non hanno una famiglia e che avrebbero bisogno di aiuto».
Insomma, forse adotta un cinesino...?
«No, due. Devono essere due, perchè hanno bisogno di giocare... Battute a parte, è un problema serio. Ricordate il caso di Dalila Di Lazzaro? Aveva cresciuto e perso il figlio in un incidente. E le è stato negato il diritto all’adozione».
Una sua frase sulle adozioni dei gay, un paio di mesi fa, ha scatenato una polemica...
«Io sono convinta che tutti possono fare quel che vogliono ed essere quel che sono. Ma sulle adozioni sono dura: penso che un figlio abbia bisogno di un padre e di una madre, con ruoli ben definiti. Solo che nell’intervista in questione domande e risposte erano state troppo schematizzate. È uscito un ”mi dà fastidio quando i gay rompono le palle con le adozioni”. E alcuni si sono sentiti feriti...».
Come ha rimediato?
«Con una lettera sul mio sito. In cui spiego come sono andate le cose e ribadisco che per me le persone sono tutte uguali. Non sono le scelte sessuali a indicare le qualità e l’intelligenza di una persona. E poi io sono un frocio, ma in senso culturale...».
Visto che siamo in argomento: in quell’intervista ha anche smentito la sua presunta bisessualità.
«Io ho sempre avuto amori maschili, mai femminili. L’amicizia fra donne l’ho scoperta da poco. Ho sempre vissuto con gli uomini, ho avuto quattro mariti. Insomma, la mia ambiguità sessuale è una leggenda».
Si sente l’ultima diva della canzone?
«Non solo della canzone... La verità è che, rispetto al mondo in cui sono cresciuta, mi sento un po’ sola. Molti miei amici sono morti: dal pittore Mario Schifano a Lucio Battisti... Non è facile trovare persone della tua stessa razza...».
Fra i suoi colleghi che hanno cominciato attorno al ’66 del suo debutto con «Ragazzo triste»?
«Beh, stimo molto Morandi, con Dalla ci conosciamo da che eravamo bambini, mi piace Battiato quando fa cose divertenti. Ma troppi altri pensano solo ai soldi: i soldi servono, sono importanti, ma non si può fare tutto in ragione del tornaconto economico. E non basta fare i cantanti per essere davvero artisti...».
Come affronta il passare degli anni?
«Con curiosità. E allegria. Non bisogna annoiarsi mai. Spero di diventare vecchia con una testa buona, di non smarrire mai la mia grande libertà. E la morte non mi incute paura: la vedo come un passaggio, fa parte della vita».
«Una volta da bambina - conclude l’icona del beat italiano - mi hanno chiesto ”quanti anni hai?”, e io ho risposto: ”sono millenaria”...».


 

lunedì 8 novembre 2004

INTERVISTA SABINA GUZZANTI

Da quando l’anno scorso, di questi tempi, il suo «Raiot. Armi di distrazione di massa» è stato censurato dalla Rai, Sabina Guzzanti vive un momento di grande popolarità. Suo malgrado è diventata uno dei personaggi simbolo - con Daniele Luttazzi, Paolo Rossi, gli stessi Enzo Biagi e Michele Santoro - di quella parte di Paese che si oppone all’Italia berlusconiana ed è sempre più convinta di vivere in un regime. Ovviamente non un regime come quelli che il mondo ha conosciuto nel Novecento. Ma un regime mediatico, fondato sul potere della televisione e sul pensiero unico, nel quale per far sparire qualcuno non serve mandarlo al confino ma basta, più banalmente, decretarne l’ostracismo da sua maestà il video.
Estromessa in malo modo dal piccolo schermo, la Guzzanti da qualche mese si consola nei teatri. Anche questo suo «Reperto Raiot», che ha debuttato nell’aprile scorso a Brescia, ha già girato mezza Italia, doveva concludersi a luglio e invece prosegue, arrivando ora a Trieste, dopo aver ottenuto ovunque un grande successo di pubblico prim’ancora che di critica: lo dimostra il fatto che al Politeama Rossetti, dove era prevista domani sera una sola rappresentazione, in apertura del cartellone «Cabaret», gli ottimi dati di prevendita dei biglietti hanno convinto gli organizzatori ad allestire una replica per la serata di giovedì.
Nello spettacolo - scritto in collaborazione con Carlo Giuseppe Gabardini e l’editorialista di «Repubblica» Curzio Maltese, che aveva già firmato con la Guzzanti il precedente «Giuro di dire la varietà» - si immagina che in un futuro prossimo, mentre si cerca di ricostruire gli eventi e i personaggi mediatici e politici del nostro momento storico, ci si imbatta in un misterioso «Reperto Raiot», magari conservato in un futuribile Museo della Resistenza.
Ovviamente un pretesto, dal quale parte un’analisi dei mezzi d'informazione e della politica dell’Italia del 2004, vista attraverso gli occhi dell’attrice con la sua faccia e la sua voce, ma anche attraverso una lunga galleria di personaggi da lei interpretati: da Bruno Vespa e Barbara Palombelli, da Rocco Buttiglione (e qui i riferimenti alla stretta attualità di queste ultime settimane, ovviamente, si sprecano...) a Massimo D’Alema, da Valeria Marini a Clarissa Burt, da Antonella Clerici a molti altri.
Nel quadro inquietante dell'Italia berlusconiana, alla fine non può mancare il deus ex machina, nella persona dello stesso premier: e allora Silvio-Sabina dà il meglio di sé, dispensando agli italiani (improbabili) consigli per poter vivere bene e «interpretare al meglio» le leggi emanate dal suo governo.
La regia dello spettacolo è firmata da Giorgio Gallione. Sul palco, con la Guzzanti, anche Maurizio Rizzuto alle percussioni e Danilo Cherni alle tastiere. Visto che, fra sketch e riflessioni, imitazioni e monologhi, sono previste anche diverse canzoni, fra cui una «Tiggì ciao» cantata sull’aria di «Bella ciao», con versi che fanno più o meno così: «Uno mattina mi sono svegliata, o tg ciao tg ciao, tg ciao ciao ciao, uno mattina mi son svegliata e ho parlato con Mimun. Questa notizia non s'ha da dare, o tg ciao tg ciao, tg ciao ciao ciao, questa notizia non s'ha da dare, la dobbiamo seppellir...».
Seconda strofa: «Guarda qui invece c'è una notizia, a mio giudiz a mio giudiz a mio giudiz fondamental, in Valtellina c'è una gallina che sa contare fino a tre...».
Ma torniamo ai personaggi che la Guzzanti interpreta nello spettacolo. «Ho scelto Vespa - ha spiegato l’attrice - perché in questo momento è lui la televisione. E non soltanto la televisione, ma anche il Parlamento. Le leggi, invece che alle Camere, si discutono soprattutto da lui».
«Lo spettacolo è incentrato sul linguaggio e sul significato contraddittorio delle parole. Basti pensare a termini "guerra e pace" e "censura o libertà". In un'epoca orwelliana come la nostra, la guerra porta addirittura la pace e la censura diventa difesa della libertà».
Ancora Guzzanti: «La società in cui viviamo mi sembra triste. Troppa gente è costretta a una vita che non è vita. E in televisione appare solo quella finta. Nella società reale invece la maggior parte delle persone vive praticamente in uno stato di schiavitù, obbligata a lavori spiacevoli che non avrebbe mai scelto. Più passa il tempo e più i diritti sul lavoro diminuiscono: col timore di essere licenziati per delle fesserie, si è tornati a uno stato di forzato servilismo. La vita costa di più, e molti, troppi sono costretti a occuparsi esclusivamente della propria sopravvivenza».
«Ecco, per tutte queste cose - dice l’attrice - la nostra è una società triste. Non c'è davvero molto da ridere. Cercano di convincerci che facciamo parte di una società evoluta, ma per quanto riguarda la qualità della vita c'è il palese tentativo di privarci tutti sia dell'identità che delle radici. Ormai esiste solo la televisione, che oggi come oggi è qualcosa di orripilante, organizzata proprio per umiliare le persone ancor di più e inculcare loro un senso di schifo per se stessi».
«Io, quando guardo la tv, mi deprimo. Se capita di accenderla e di rimanerne catturati per un attimo, dopo non si ha più voglia di fare nulla. Tutta l'ispirazione sparisce. La televisione attuale è devitalizzante. Ho notato questo effetto anche su di me. Purtroppo ci sono popolazioni intere, che vivono incollate alla tv e rischiano di diventare sempre più tristi e anche più brutte, contagiate da brutti e volgari modi di fare...».
Lo scorso anno, quando «Raiot. Armi di distrazione di massa» fu cancellato dal palinsesto di Raitre dopo la messa in onda di una sola puntata, Sabina Guzzanti si era detta «molto arrabbiata anche per la reazione dei giornali che non gridano allo scandalo. Eppure tutta la stampa straniera ci chiede interviste e ci ha dato ragione. Questa è una censura bieca e lo strumento della querela da parte di Mediaset è pericolosissimo, un pretesto usato per chiuderci, al quale viene dato credito solo dai giornali italiani».
«Il ”Corriere della Sera” ha ironizzato sul fatto che una sola puntata è costata alla Rai una causa da venti milioni di euro. Ma non la vinceranno, perché l’atto di citazione di Mediaset fa ridere. Spiegano cos’è la satira. Lo studio Previti stabilisce che la satira è quella cosa che tende a sdrammatizzare e a rendere simpatico un politico, a diminuire le tensioni sociali. Quello che faccio io, invece, secondo loro è scorretto, perché cercherei di orientare l’opinione pubblica, farei ”opinione”, cosa che la satira non può fare...».
Secondo Sabina Guzzanti - ma anche secondo molta altra gente - il problema oggi non è solo se in tv c’è uno spazio per la satira. «Qui non c’è spazio per la libertà d’espressione, anche sui giornali. È vergognoso, ma ci sono casi infiniti di censura che non vengono denunciati. Tutti i telegiornali sono sottoposti ogni giorno a censure e ad autocensure. Non è un problema solo della satira, ma più in generale è questo illegalissimo, anticostituzionalissimo, vergognosissimo atteggiamento repressivo verso ogni voce diversa dal pensiero unico del governo».
«Qualcuno ha detto - conclude l’attrice - che la mia opinione non rappresenta la maggioranza, quindi è giusto che io non parli. Sta passando una prassi antidemocratica, in cui è complice anche chi dovrebbe stare dalla parte opposta».

giovedì 4 novembre 2004

IPOD

Si chiama iPod. È una scatoletta rettangolare, poco più grande di un pacchetto di sigarette. Può contenere, a seconda delle versioni, cinquemila o diecimila canzoni. Il suo avvento (ne sono già stati venduti sei milioni soprattutto negli Stati Uniti ma anche nel resto del mondo) rappresenta una rivoluzione nel settore della fruizione musicale. Una rivoluzione che fa impallidire quelle incarnate quarant’anni fa dal mangiadischi, trent’anni fa dal walkman, vent’anni fa dal lettore cd portatile...
Già, il cd. Quando il dischetto argenteo soppiantò il vecchio disco di vinile ma anche la cassetta - più o meno all’inizio degli anni Ottanta - sembrava avesse tutte le carte in regola per diventare il supporto del nuovo millennio. Ma i tempi delle moderne tecnologie sono molto più veloci, quasi frenetici, di quelli a cui eravamo abituati nel vecchio Novecento. Ed ecco allora che non si fa in tempo a familiarizzare con una novità, che subito viene spedita in soffitta da quella successiva.
Ma vediamo di capire di che cosa stiamo parlando. Tutto nasce con la musica online, libera e senza regole per definizione. Uno si collega a Internet e grazie a dei software mette il proprio computer in comunicazione con altri computer. Ognuno dei partecipanti a queste reti (le cosiddette P2P) mette a disposizione degli altri un certo numero di brani da scambiare.
Per scaricare un brano, disponendo di una linea veloce, basta meno di un minuto. Lo fanno decine e decine di milioni di persone in tutto il mondo. Ma è illegale, perchè viola le leggi sul diritto d’autore. In questo modo nessuno paga niente a nessuno: case discografiche, autori, editori, esecutori... Una situazione che è alla base della profonda crisi dell’industria discografica.
Ecco allora che le case discografiche e gli stessi artisti sono corsi ai ripari. Nell’ultimo anno e mezzo sono nati numerosi negozi musicali online, collegandosi ai quali si può scaricare legalmente, pagando delle cifre ridotte rispetto all’acquisto di un disco vero e proprio, singoli brani o interi album. L’ultimo arrivato in Italia è l’iTunes Music Store: offre un milione di brani negli Stati Uniti e settecentomila in Europa, al prezzo fisso di 0,99 euro (o dollari, oltreoceano) per brano.
E siamo all’iPod, che sta alla musica online come il vecchio (si fa per dire...) lettore cd portatile sta al compact-disc. È un lettore di mp3, sigla che sta per Mpeg1-Layer3, e che indica il formato audio digitale più diffuso in rete: molto compresso, riesce a ottenere una qualità paragonabile a quella dei cd-audio, occupando circa un mega byte per minuto.
L’iPod è prodotto dalla Apple. Alla fine del 2001, la multinazionale di Steve Jobs lancia la prima generazione di iPod, un lettore mp3 (formato audio molto vicino alla qualità sonora di un cd) la cui memoria di cinque o dieci gigabyte può archiviare inizialmente fino a duemila brani musicali. Da allora si sono succedute varie versioni, sempre più sottili, con una capacità di memoria superiore: fino a quaranta gigabyte per ben diecimila brani.
Piccolo e leggero, l'iPod permette l’ascolto senza rischio di sussulti o scossoni che interrompono il brano, come avveniva nel lettore cd portatile. L’uso è semplice: grazie a una ghiera sensibile al tocco, la navigazione nella lista di canzoni sullo schermo (i titoli vengono classificati per album o artista) è veloce e precisa e si effettua con un tocco.
Per quanto riguarda l’estetica, la Apple ha puntato sul colore bianco argentato, sulla superficie liscia al tatto, sulle cuffiette bianche: elementi che ne hanno fatto, soprattutto negli Stati Uniti, ma ormai anche nella vecchia Europa, un vero e proprio oggetto di culto. «Newsweek» è uscito con in copertina l’immagine del lettore e la frase: «iPod, therefore I am» (iPod, dunque sono). E secondo il «New York Times», alcune settimane fa, gli americani non si dividevano fra Bush e Kerry, ma fra chi ha già l’iPod e chi ancora lo desidera...
Ma la torta è troppo succulenta per non attirare nuovi commensali. E la Apple, per rispondere all’attacco della Sony, che ha lanciato a sua volta sul mercato dei lettori mp3, adesso punta sugli U2. La band irlandese, protagonista delle pubblicità televisive americane dell'iPod con «Vertigo» e in testa alle classifiche dei singoli scaricati da iTunes, ha infatti permesso alla Apple di mettere in vendita online l'ultimo album, intitolato «How to dismantle an atomic bomb», in uscita il 19 di novembre.
Anzi, Bono e compagni hanno fatto di più. Firmando un accordo - presentato alla stampa la settimana scorsa in California - che permetterà alla multinazionale di Steve Jobs di mettere in commercio (a un prezzo maggiorato di trenta dollari) un nuovo iPod, già ribattezzato Black iPod, con il logo della band e con memorizzato all’origine proprio il nuovo disco degli U2, oltre a una selezione dei brani più noti cantati in venticinque anni di carriera dalla band irlandese. Che dovrebbe inoltre garantire alla Apple l'esclusiva, a tempo determinato, per vendere la loro musica su iTunes.
Insomma, la strada sembra ormai indicata. È una strada che non può fare a meno della musica online, ma a pagamento. Potrebbe essere la chiave per risolvere tre problemi in una botta sola: battere la piaga della pirateria, sconfiggere la crisi dell’industria discografica, risolvere il problema del caro-cd. Perchè se scaricare un brano costa 0,99 euro, un intero album viene a costare fra i sei e gli otto euro e mezzo.
Provare per credere. Gli utenti italiani, collegandosi al sito www.apple.it, possono già ora scaricare brani di Gianni Morandi e Andrea Bocelli, Laura Pausini e Zucchero, Anastacia e Black Eyed Peas, Duran Duran e Bob Marley, Prodigy e George Michael... Insomma, il futuro - in questo caso della musica - è già cominciato.

PAOLO CONTE, ELEGIA

Nove anni senza un disco di inediti. Nove anni dal precedente «Una faccia in prestito», arricchiti comunque di tournèe - in Italia e all’estero -, di album dal vivo, di raccolte di successi, persino di un progetto multimediale fatto di canzoni e disegni («Razmataz»)... Ma pur sempre nove anni, un lasso di tempo lunghissimo, soprattutto nel settore della discografia.
C’è dunque una certa comprensibile attesa, per questo nuovo disco di Paolo Conte. «Elegia» - che esce domani, distribuito da Warner - propone tredici nuove canzoni baciate da quell’inconfondibile marchio di fabbrica che ha fatto grande l’avvocato-cantautore astigiano. Il mondo, l’Italia, forse persino la provincia del 2004 sono diversi da quelli del ’95 in cui uscì il disco precedente. Ma l’universo contiano sembra miracolosamente essersi preservato dai tanti virus che ci ammorbano. Quasi un mondo parallelo nel quale la realtà, la quotidianità entrano di soppiatto.
La dimostrazione sta in un brano come «La nostalgia del Mocambo», quarta e chissà se ultima parte della saga musicale costituita finora da «L'uomo del Mocambo», «La ricostruzione del Mocambo» e «La sagra del Mocambo». E incentrata sulla figura dell’uomo di provincia, quell’antieroe perennemente in cerca della donna giusta (stavolta una francese, Jeannine...) che è un po’ l’alter ego dell’artista.
«Con tutto il mitragliare che c'è in giro, forse ho qualche possibilità di salvarmi nascondendomi dietro al mio piano», spiega Conte, che ama difendersi «con i vecchi metodi, come la fantasmagoria».
Disco grondante nostalgia e struggente malinconia. Come nel «Sandwich man» che gira la città bardato dalle reclame dei film e che finisce per parlare con il linguaggio del cinema, altra grande passione di Conte.
Ma il gusto del pastiche impreziosice e rende unici anche gli altri brani: da «Elegia» a «La casa cinese», da «Frisco» a «Chissà», da «Molto lontano» a «Non ridere», da «Il regno del tango» (con il «tanguero encantador» armato di bandoneon) a «Bamboolah», da «Sonno elefante» a «India», fino a «La vecchia giacca nuova».
Il tour europeo dedicato al nuovo disco di Paolo Conte parte il 23 novembre da Firenze. Poi va in Francia (dove l’hanno fatto Chevalier dans l'Ordre des Arts et Lettres...), Olanda, Belgio, Austria, Germania... Rispetto al nuovo spettacolo dal vivo il nostro dice: «Vorrei sparigliare le carte, ma non sono mai stato un corridore da palco, anzi, sono sempre attaccato al piano, come a una zattera...».

lunedì 1 novembre 2004

INTERVISTA PIETRO GARINEI

Trentanove giorni. Tanto rimase a Trieste il neonato Pietro Garinei, dopo quel lontano 25 febbraio 1919 della sua nascita. «Non so se sia vero - ricorda il re della commedia musicale italiana, inventata con Sandro Giovannini, morto nel ’77 - ma mio papà mi raccontava sempre che ero stato il primo italiano nato a Trieste e battezzato a San Giusto dopo la Grande guerra. Fra l’altro il mio padrino fu Rino Alessi, che poi sarebbe diventato proprietario e direttore del ”Piccolo”, molto amico di papà...».
Ma che ci faceva la sua famiglia a Trieste?
«Mio padre, romano, faceva il giornalista per il Secolo - ricorda Garinei, che ieri mattina ha ricevuto nel Salotto azzurro del Municipio il sigillo trecentesco dal vicesindaco Paris Lippi, in occasione del debutto ieri sera al Rossetti del suo ”Vacanze romane” - ed era stato inviato qui, sul fronte nordorientale. Fra l’altro fu lui che trovò la salma di Francesco Baracca sulle pendici del Montello: una sorta di scoop, per l’epoca».
Sì, ma lei...?
«Semplice. Mia mamma, che era nata a Udine, lo raggiunse a Trieste e io nacqui qui. La mia permanenza in città durò in tutto trentanove giorni, quella dei miei genitori qualche settimana in più...».
Ma il legame dell’artista con la città non si limita ai natali. Sua moglie, di cui parla ancora al presente, anche se da tempo «ci guarda da lassù», era infatti triestina: si chiamava Gabriella Turco «ed è stata lei a farmi amare veramente quella che chiamo comunque ”la mia città”...».
«Come l’ho conosciuta? La mia famiglia - racconta Garinei - era proprietaria di una delle più antiche farmacie di Roma: fondata nel 1595, sta ancora scritto in una targa. Ogni trent’anni bisognava rinnovare la licenza comunale e c’era bisogno di un Garinei laureato in farmacia. Toccò a me, e quello fu il mio primo lavoro. Conobbi Gabriella perchè faceva l’impiegata in una ditta in Galleria Colonna, a due passi dalla nostra farmacia, che stava a piazza San Silvestro...».
Ma lei non faceva il giornalista?
«Sì, ben presto scaricai l’onere familiare della farmacia sulle spalle di mio fratello e mi lasciai sedurre dall'ambiente giornalistico che frequentava mio padre: dopo il Secolo aveva lavorato in un giornale che era stato chiuso dai fascisti, e dopo ancora alla Gazzetta dello Sport. Vicino alla farmacia c’era la grande sala stampa, dove arrivavano tanti giornalisti. E io cominciai proprio per la Gazzetta».
A Trieste ci tornava?
«Qualche volta. Ci tornai nel ’46, al seguito del Giro d’Italia, per un programma radiofonico della Rai che si chiamava ”Giro in Giro”: la sera dopo ogni tappa facevamo una piccola rivista di mezz’ora, con Mario Riva e il Quartetto Cetra. Fu l’anno in cui il Giro doveva arrivare a Trieste ma fu bloccato prima di Duino, ci furono degli incidenti, alla fine vinse Cottur...».
La farmacia, il giornalismo. Ma l’amore per lo spettacolo?
«Vicino alla farmacia, oltre al luogo di lavoro di mia moglie e la sala stampa, c’era anche il Cinema Galleria, regno dell’avanspettacolo, della rivista. E io, appena finivo il mio turno, non mi perdevo uno spettacolo. Fu lì, in quelle lunghe serate, che mi innamorai di questo genere teatrale...».
Giovannini come lo conobbe?
«Nella tribuna stampa dello Stadio Flaminio. Lui lavorava per il Corriere dello Sport, io per la Gazzetta. Fra i giornali c’era una grande rivalità, noi diventammo amici. Avevamo due amori in comune: la Roma e il teatro».
Come nacque il feeling?
«Facendoci degli scherzi feroci. Una volta lui mi fece credere che era morto Muscletone, un cavallo molto famoso negli anni Trenta: io pubblicai la notizia e ovviamente non era vero nulla. Bella figura... Per la vendetta lasciai passare un po’ di tempo e un giorno riuscii a fargli arrivare un comunicato del Coni, contraffatto, in cui c’era scritto che un tal ciclista olandese aveva battuto il record mondiale dell’ora che apparteneva a Coppi. Lui passò la notizia e quella volta risi io...».
Quando decideste di unire le forze?
«Lo spettacolo era la nostra vera passione. Scrivemmo un testo, ”Sono le sette e tutto va bene”, che non fu mai rappresentato. C’era la guerra, e le sette era l’ora del coprifuoco. Finita la guerra rifondammo ”Cantachiaro”, un giornale satirico che era stato soppresso dai fascisti. E poi ne facemmo una rivista teatrale, con lo stesso titolo: debuttò il primo settembre del ’44, al Teatro Quattro Fontane. C’erano Anna Magnani, Marisa Merlini, Olga Villi...».
Fu subito successo?
«Fummo accolti bene. E andò meglio l’anno dopo, con ”Cantachiaro n.2”, al Teatro Valle, sempre con la Magnani, ma anche con Gino Cervi, Aroldo Tieri, Ave Ninchi, un debuttante Raimondo Vianello che si faceva chiamare Raimondo Viani...».
Insomma, era nata la ditta «Garinei & Giovannini»...
«Sì. La prima volta che i nostri nomi campeggiavano solitari sulle locandine fu per lo spettacolo ”Soffia, so’”. C’era ancora la Magnani con noi, e il fatto che lei, donna straordinaria, non ci avesse lasciato era la prova del nostro successo».
E Wanda Osiris?
«Lavorare con lei rappresentò il passaggio dalla rivista satirica, con compagnie di otto, massimo dieci attori, alla grande rivista, che significava anche grandi compagnie. Con la Wandissima debuttammo con ”Si stava meglio domani”, doveva essere il ’46, e l’anno dopo facemmo anche ”Domani è sempre domenica”...».
Ma la commedia musicale italiana quando è nata?
«Dopo. Eravamo stanchi della rivista, sapevamo che in America era nata la musical comedy, cioè la commedia musicale, ed eravamo impazienti di andarla a vedere. Con Sandro facemmo una scommessa, su chi per primo sarebbe riuscito ad avere il visto e a volare oltreoceano. Vinsi io, sbarcai a New York e la sera stessa andai a vedere ”Guys and dolls” a Broadway. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi: Sandro, dobbiamo cambiare tutto...».
Cos’aveva capito?
«Che c’era un altro modo di fare uno spettacolo musicale. E che era molto più accattivante, agile, divertente, adatto al grande pubblico».
La differenza fra rivista e commedia musicale?
«La rivista era un susseguirsi di immagini, senza una storia vera. Sì, c’era una trama, ma era leggera, quasi un pretesto per le immagini. Nella commedia musicale invece la storia c’era, ed era molto importante».
Tornato in Italia...
«Cominciammo a lavorare alla prima commedia musicale del dopoguerra: ”Attanasio, cavallo vanesio”, con Renato Rascel e Lauretta Masiero. Musiche di Gorni Kramer. Debuttammo a Roma, nel ’52...».
Lei non ama il termine ”musical”...
«No, è che mi piacciono i termini italiani, e ”musical” non è altro che la contrazione di ”musical comedy”, ovvero commedia musicale. Poi l’Italia oggi è abbastanza frequentata da spettacoli americani che si chiamano musical, quindi è bene che quelli italiani si chiamino commedia musicale: l’erede dell’operetta, la modernizzazione del melodramma...».
Che voi avete portato anche all’estero...
«Sì, in tutti questi anni i nostri spettacoli sono stati rappresentati in mezzo mondo. Ma vedere il nostro ”Rugantino” a Broadway, nel ’64, nella patria della ”musical comedy”, è stata davvero una soddisfazione impagabile: era come andare all’università del musical...».
S’è fatto tardi. Pietro Garinei, signore d’altri tempi, sorride e ringrazia. Dice che deve tornare in teatro per le ultime prove. «Ma tutte queste cose, non vorrà mica scriverle sul giornale... A chi vuole che interessino... Bastano dieci righe su questo sigillo del Comune. Che farà piacere a Gabriella, che ci guarda da lassù...».

venerdì 29 ottobre 2004

ANTONACCI AL PALATRIESTE

Alle ragazze piace Biagio Antonacci. Lo aspettano, lo guardano con
occhi sognanti, cantano in coro le sue canzoni. E poi, quando l’oggetto del

desiderio arriva nelle vicinanze, le più fortunate si allungano per

toccargli la mano, per regalargli un fiore, un pacchetto, un bigliettino...

Il rituale di ogni concerto del quarantunenne cantautore milanese si è

ripetuto ieri sera al PalaTrieste, affollato per l’occasione da quasi

tremila giovani e giovanissimi a maggioranza femminile.

È un anno d’oro, per Biagio. Il grande successo di «Convivendo parte 1»,

premiato al Festivalbar come disco dell’anno. E ora anche il suggello dal

vivo, con questo «Convivendo Tour», partito a fine settembre dall’Arena di

Verona, che dopo la tappa triestina tornerà nel Triveneto il 12 novembre, al

Palaverde di Treviso, per un concerto che è già tutto esaurito in

prevendita.

La prima sorpresa dello show è il palco: una sorta di pedana trasparente,

che rappresenta una figura umana stilizzata, le cui braccia e le cui gambe

formano un asimmetrico camminamento che occupa buona parte della platea.

Su questo palco, quindici minuti dopo le ventuno, si materializzano uno alla

volta i musicisti che accompagnano l’artista (gruppo rock e piccola sezione

archi). Quando arriva il turno di Antonacci, c’è anche la seconda piccola

sorpresa: per aprire lo show con «Mio padre è un re», dall’ultimo album, il

nostro si presenta bardato da una mantella rosso vermiglio e con tanto di

corona in testa.

Giusto un paio di minuti, poi mantella e corona volano via, lasciando il

posto alla tenuta da combattimento: scarpe da ginnastica, jeans, camicia

scura (che poi, approfittando di un assolo del chitarrista, cambierà per una

bianca). Dopo «Quanto tempo e ancora», è il turno della terza sorpresa, tale

solo per chi pensava, andando a vedere un concerto di Antonacci, di venir

avvolto per due ore da zuccherose atmosfere cantautorali.

Eh no, perchè con «Angela» (stava nel disco di tre anni fa, quello

intitolato «9/nov/2001»), il lungagnone cresciuto nelle periferie povere

della metropoli lombarda, quello che studiava da geometra ma sognava la

musica, quello che ha fatto il militare fra i carabinieri e non avrebbe

disdegnato di fare il giudice «per stare dalla parte della giustizia», sì,

insomma, lui, il bell’Antonacci, dimostra di avere anche un’anima rock di

quelle che non lasciano nulla all’immaginazione.

La sua forza, la ragione del suo successo sta nella semplicità, nella

pulizia, nella coerenza. «Io vado avanti per la mia strada - dice Biagio -

con semplicità e coerenza, cantando i miei sentimenti e accorgendomi che

vengono condivisi da tanta gente. Non ho mai seguito le mode, le tendenze

più o meno effimere. Penso che il pubblico se ne accorga».

Sì, se ne accorge. E apprezza. Melodia e sgroppate rock, romanticherie e

vita vissuta, sentimento ma anche parole chiare e forti contro la guerra.

Come quando più avanti, nel corso della serata, l’artista ricorda Jessica e

Sabrina, «fiori fragili» spezzati da una guerra che porta solo morte e nuovo

terrorismo: le due sorelle piemontesi uccise a Taba, in Egitto, facevano

parte del popolo di Biagio, avevano già i biglietti per il concerto di Cuneo

del 6 novembre, e al loro funerale le amiche le hanno ricordate con un verso

di una sua canzone...

Ma la serata è innanzitutto una serata di festa. Che vive delle canzoni del

nuovo disco («Passo da te», «Dopo il viaggio», «Quell’uomo lì»...) ma

soprattutto di antichi - si fa per dire: è comunque roba degli anni Novanta

- cavalli di battaglia: «Se io se lei», «Se è vero che ci sei», «Le cose che

ho amato di più»...

Biagio non è uno di quelli che in un concerto dicono tre parole in croce.

Fra una canzone e l’altra parla, racconta, ammicca. Introduce «Non tentarmi»

invitando le coppie (dopo aver verificato con tanto di sbrigativo referendum

che sono in minoranza rispetto ai single) a ballare guancia a guancia come

si faceva nei locali di una volta. E una statuaria bellezza bruna sale sul

palco per ballare con lui e lasciargli un bigliettino (subito fatto sparire

nella tasca dei jeans...) prima di venir educatamente congedata.

Poi il nostro, forse emozionato perchè la serata promette di mettersi bene

assai, si lascia prendere la mano ed esagera - prima di cantare «Mai» -

invitando la gente a tirar fuori i telefonini e a usarli (...) come nei

concerti di una volta si faceva con gli accendini.

Ma ormai il concerto è in discesa. Gli ultimi successi «Non ci facciamo

compagnia» e «Convivendo», dal passato prossimo brillano «Iris» e

«Liberatemi»... E poi c’è spazio anche per i bis, aperti da «Ti ricordi

perchè». Le ragazze, quelle a cui piace Biagio, ricordano perfettamente.

INTERVISTA ANTONACCI

Quando ha saputo che ai funerali di Jessica e Sabrina, le due
sorelle piemontesi morte nel massacro di Taba, una loro amica ha letto i

versi di una sua canzone («I fiori sono fragili, muoiono in un soffio, quasi

come i giorni di una vita...»), Biagio Antonacci ha avvertito un brivido. E

ha capito ancor di più quanto siano assurde tutte le guerre e questa guerra

in particolare.

«Quelle due ragazze - ricorda il cantautore, il cui tour fa tappa domani

alle 21 al PalaTrieste - prima di partire per la vacanza in Egitto avevano

già comprato il biglietto per il mio concerto del 6 novembre a Cuneo. Vuol

dire che ci tenevano per davvero. Spero di trovare le parole, quella sera,

per spiegare quanto la loro morte mi ha sconvolto. Mi ha lasciato un senso

di impotenza e di ingiustizia».

E aggiunge: «Sono convinto che le guerre siano sempre sbagliate, ma questa

in particolare è assurda, non serve a risolvere i problemi, anzi, li aggrava

sempre più. È una tragedia di cui sconteremo le ripercussioni per tantissimo

tempo».

Lei come si difende dalle brutture del mondo?

«Andando avanti per la mia strada, con semplicità e coerenza, cantando i

miei sentimenti e accorgendomi che vengono condivisi da tanta gente. Non ho

mai seguito le mode, le tendenze più o meno effimere. Penso che il pubblico

se ne accorga».

Il suo «Convivendo parte I» è rientrato in classifica...

«Sì, e infatti abbiamo deciso di posticipare a febbraio la pubblicazione

della seconda parte, prevista originariamente in queste settimane. Dividere

un disco in due parti, e venderlo a prezzo ridotto, è stata una scommessa

vincente: i discografici erano dubbiosi...».

Come li ha convinti?

«Ero sicuro che bisognava inventarsi qualcosa, in questo momento di crisi

economica generale e della discografia in particolare. Avevo diciannove

canzoni, non volevo scartarne nessuna, dunque le ho divise in due parti,

imponendo un prezzo ridotto anche per venir incontro ai tanti ragazzi che

hanno pochi soldi in tasca».

Insomma, non ha dimenticato le sue origini...

«Certo che no. Vengo dalla periferia povera di Milano, avevo tanti sogni e

mi considero molto fortunato per quello che ho ottenuto con la musica. Ho

sempre avuto il senso della giustizia, il militare l’ho fatto fra i

carabinieri, e mi sarebbe piaciuto fare il magistrato: stare dalla parte del

giusto, per me, ha sempre significato aver rispetto per il prossimo...».

Sul palco con Antonacci, domani a Trieste, Saverio Lanza (chitarra e

pianoforte), Eugenio Mori (batteria), Alex Class (basso), Silvia Baraldi

(percussioni e tastiere) e un quartetto d'archi. In programma, vecchi

successi e le canzoni del nuovo disco.

PROSSIMI CONCERTI

Dopo la ricca estate musicale e l’appendice ottobrina del Barcolana
Festival, comincia a prendere forma la «sezione autunno inverno» del

cartellone musicale triestino e del Nordest. Si parte domani con il concerto

di Francesco Guccini al palasport di Pordenone. Si prosegue martedì 26 e

mercoledì 27 con Renato Zero al palasport di Padova. E giovedì 28 c’è Biagio

Antonacci al PalaTrieste.

Mese di novembre. Martedì 2 Al Jarreau canta al palasport di Padova. Da

venerdì 5 a domenica 7 si svolge al Teatro Miela, a Trieste, la quarta

edizione del Festival di musica contemporanea Luigi Nono. Sabato 13, di

nuovo al palasport di Padova, c’è Max Pezzali. Il 18 e il 19 i Pooh

presentano al Politeama Rossetti il loro nuovo spettacolo «Ascolta», che

prende il titolo dall’ultimo cd dell’immortale quartetto.

Il 20 novembre parte dal Palaverde di Treviso il tour dei Nomadi, che due

giorni dopo, lunedì 22 novembre, suonano al PalaTrieste.

Due appuntamenti a dicembre al palasport di Pordenone: giovedì 2 è in

programma un concerto di Raf, mentre martedì 7 arriva Mango.

Siamo al 2005. Il 17 gennaio fa tappa al Tivoli di Lubiana il tour mondiale

dei Rem, che poi tocca il 19 anche il palasport di Zagabria; le tappe

italiane del tour della band americana sono il 15 gennaio a Milano e il 16 a

Bolzano.

Il 30 gennaio suonano a Trieste, al Politeama Rossetti, The Mothers of

Re-Invention, gruppo di cui fanno parte alcuni dei musicisti che hanno fatto

parte della leggendaria formazione che ha accompagnato il viaggio artistico

e creativo del grande Frank Zappa. In occasione del concerto, si terrà a

Trieste - sempre a cura dell’Associazione Musica Libera che lo organizza -

un seminario su Frank Zappa con la band al completo, Franz Di Cioccio

(batterista e cantante della Premiata Forneria Marconi) e il critico

Riccardo Bertoncelli.

Il primo febbraio parte dal PalaTrieste il tour di Elisa, che prosegue il 2

a Pordenone, ma che avrà anche un’anteprima il 10 dicembre al Filaforum di

Assago, a Milano.

Un appuntamento già fissato anche per marzo: il 18, al PalaTrieste, serata

«Italian Graffiti Group», con Dik Dik, Formula 3, Equipe 84 e persino i

Nuovi Angeli (evidentemente esistono ancora...).

Aggiornamenti alle prossime puntate.

domenica 10 ottobre 2004

DALLA E JANNACCI AL BARCOLANA FESTIVAL

È finita pochi minuti prima della mezzanotte, ieri sera in una gremitissima piazza Unità, la grande festa musicale del «Barcolana Festival». È finita con un inedito Lucio Dalla in versione jazz, dopo che la serata era stata aperta da Enzo Jannacci. Che è partito con «Giovanni telegrafista», «El purtava i scarp de tenis», «Vincenzina e la fabbrica», «Mario»... Ovvero tutta l’umanità dolente e la poetica del sessantanovenne cantautore milanese, vestita con nuovi abiti musicali, cuciti da una band di jazzisti con Paolo Jannacci alle tastiere e alla fisarmonica. Chiusura in crescendo, con «E la vita, la vita», «Oh che sarà», un’irresistibile «Bartali»...

Dalla si è presentato al clarinetto, affiancato dal quartetto del sassofonista Stefano Di Battista, con ospite la cantante Niki Nicolai. Partenza con un inedito: il brano «My song» di Keith Jarrett, su cui Lucio canta un suo testo in italiano. Poi standard di Charlie Parker (la classicissima «A night in Tunisia»), di Dizzy Gillespie, di Thelonius Monk... Ma anche «Over the rainbow» e alcune sue canzoni, opportunemente «jazzificate», come dice lui: «Com’è profondo il mare», «4 marzo 1943» (con Dalla solo al pianoforte), la conclusiva e come al solito struggente «Caruso».

Ma né Dalla né Jannacci parteciperanno stamattina alla Barcolana. Contrariamente a quel che avevano annunciato, o forse solo sperato, gli organizzatori della regata triestina.

Sull’argomento Jannacci taglia corto così: «Macchè regata e regata, io sto in piedi per miracolo. Fate partecipare Dalla, che è più giovane e più sano di me...».

Ma l’imbeccata non funziona: «Purtroppo non posso accettare l’invito che ho ricevuto - dice l’artista bolognese -, vedrò la partenza della regata ma poi devo proprio partire: in serata devo essere a Genova, per il Salone della Nautica. Vorrà dire che l’anno prossimo farò il possibile per tornare e partecipare alla regata...».

«A Genova - prosegue Dalla - devo andare anche perchè sto pensando a delle migliorìe alla mia barca, ”Brilla e Billy”, venticinque metri che tengo alle Tremiti. Dentro c’è anche il mio piccolo studio di registrazione, quello in cui ho registrato buona parte della ”Tosca”...».

«Il jazz? È stata la mia prima musica da ragazzo, quando ho imparato a suonare prima la fisarmonica e poi il clarinetto. Suonavo in un gruppo che si chiamava Reno Jazz Gang, poi con la Second Roman New Orleans Jazz Band. Nel 1960, a diciassette anni, ho anche suonato con il grande Charlie Mingus, con Chet Baker. Al clarinetto suonavo una nota sola, il si bemolle, ma non c’era nessuno più bravo di me...».

«Poi con il jazz ho smesso - prosegue -, dedicandomi alla canzone ma non perderdo mai l’interesse per il genere afroamericano. Recentemente mi è tornata la voglia anche di suonarlo, per divertimento, e quest’estate abbiamo fatto dei concerti, con Stefano Di Battista e gli altri del gruppo ”Dalla Jazz”: al Teatro dell’Opera di Vienna, al Teatro Greco di Taormina, allo Sferisterio di Macerata, a Palermo...».

Ancora Dalla: «In questi concerti suoniamo standard jazz, ma per accontentare il pubblico propongo anche alcune mie canzoni ”jazzificate”. Lo faccio perchè la gente se lo aspetta, perchè ci divertiamo, ma soprattutto per far capire ancora una volta che nella musica non esistono steccati».

«In fondo, anche per la mia ”Tosca” è stato così. È passato un anno dal debutto a Roma, dove torneremo nelle prossime settimane. Siamo reduci dal doppio tutto esaurito all’Arena di Verona, dal successo in Austria, a primavera eravamo anche qui a Trieste... Sarà un tour ancora lungo: ora andremo in Francia, in Spagna, negli Stati Uniti, persino in India».

«Intanto - conclude Lucio Dalla - comincerò anche a lavorare al mio nuovo disco. Ho già alcune canzoni. Uscirà fra un anno, a fine 2005».

Ma torniamo a Enzo Jannacci. Anche per lui il jazz è stato il primo amore. «Sarà stato il ’55 - ricorda il musicista milanese - avevo vent’anni. Studiavo medicina ma mi ero diplomato in pianoforte al Conservatorio di Milano. Andai a fare un provino per entrare nel gruppo di Franco Cerri. Che, bontà sua, mi prese. Suonammo insieme per un po’ di tempo, poi dovetti lasciare il posto a un pianista molto più bravo di me: un certo Enrico Intra. In quegli anni, prima di scoprire il rock’n’roll e il cabaret, mi è capitato anche di suonare con Stan Getz, Gerry Mulligan, Bud Powell...».

Prosegue Jannacci: «Ho ascoltato molta musica jazz anche negli anni che ho passato negli Stati Uniti, a fare il cardiochirurgo. Poi, tornato in Italia, ho scritto soprattutto canzoni. Il jazz l’ho un po’ lasciato da parte. Ma il mio gruppo, con mio figlio Paolo al pianoforte e alla fisarmonica, è formato da jazzisti: e dunque anche gli arrangiamenti delle mie canzoni, vecchie e nuove, sono jazz...».

Di Gaber, Jannacci non trova ancora la forza di parlare: «Mi fa troppo male, non è passato ancora abbastanza tempo...». Del titolo dell’ultimo disco, «L’uomo a metà», dice: «Siamo tutti uomini a metà, per metà intenti a rifugiarci nel nostro comodo egoismo, per l’altra metà disposti anche a far del bene al prossimo...». Poi, prima di annunciare per il 22 novembre l’uscita di un altro disco, dedicato a vecchie canzoni dialettali rifatte, si lascia prendere da un sano lampo di pessimismo: «Guardo l’Italia, il mondo, e penso che ormai abbiamo davvero toccato il fondo. Peggio di così non può proprio andare...».

È andato bene invece il «Barcolana Festival 2004». La scommessa di puntare sul jazz e su un cast meno giovanilista, che alla vigilia poteva sembrare temeraria, può dirsi vinta. Dopo un’estate musicalmente ricca, gli organizzatori hanno preferito variare il menù, inventandosi il binomio «jazz & vela». Risultato: il festival è costato molto meno che nelle passate edizioni, il pubblico è stato inferiore rispetto agli anni passati, ma la qualità delle proposte musicali (Nicola Arigliano, la Casale, Shawnn Monteiro con Benny Golson, la Montecarlo Nights Orchestra con Nick the Nightfly - ieri sera di nuovo sul palco, ma in veste di presentatore - e Sarah Jane Morris, oltre a Jannacci e Dalla) è stata di assoluto rispetto. E il grande jazz è stato sdoganato anche in piazza Unità.

NICK THE NIGHTFLY AL BARCOLANA FEST.

Grande jazz - e grande swing - ieri sera in piazza Unità. Non era mai successo. Forse si pensava che uno spazio all’aperto così ampio fosse inadatto a suoni e atmosfere che abitualmente frequentano luoghi più raccolti. Ma chi dubitava ha avuto torto.

La prova si è avuta soprattutto con il concerto di Shawnn Monteiro, che ha aperto la seconda serata del «Barcolana Festival 2004». La cantante americana era accompagnata da un ottimo trio (Massimo Faraò al pianoforte, Aldo Zunino al contrabbasso, Bobby Durham alla batteria), ulteriormente nobilitato dalla presenza di un autentico mito del jazz contemporaneo, il sassofonista Benny Golson.

Lei, figlia di Jimmy Woode (bassista di Duke Ellington), è considerata una delle migliori voci del jazz femminile mondiale. Ha avuto per madrina Sarah Vaughan e nel corso di una carriera ormai lunga ha lavorato con artisti del calibro di Clark Terry, Lionel Hampton, Kenny Barron, Mongo Santamaria...

Golson, nato a Philadelphia nel ’29, oltre che come sassofonista ha contribuito a scrivere la storia del jazz dell’ultimo mezzo secolo come compositore, arrangiatore e produttore. Ha lavorato con Benny Goodman, Dizzy Gillespie, Lionel Hampton, Art Blakey... Recentemente, è apparso anche in un cameo nel film di Steven Spielberg «The Terminal», con Tom Hanks: «È stata la mia prima e ultima volta nel cinema - ha detto Benny Golson, che vive fra New York e Los Angeles, ieri in piazza Unità - mi hanno chiesto di interpretare me stesso in una scena e io l’ho fatto. Ma io non sono un attore, sono un musicista...».

Prima separatamente e poi, nel finale, assieme, Shawnn Monteiro e Benny Golson hanno offerto al pubblico triestino un set di grande qualità, ricco di standard, classici di Duke Ellington e John Coltrane, musiche dello stesso Golson.

Ma si diceva che la seconda serata del festival è vissuta anche di grande swing. E ciò grazie a Nick the Nightfly con la sua Montecarlo Nights Orchestra, ospite davvero speciale Sarah Jane Morris. Apertura con «Fly me to the moon», un classico del repertorio di Sinatra, e poi standard di Duke Ellington, Cole Porter, Burt Bacharach...

«La gente mi conosce soprattutto come dj - spiega Nick - ma io nasco come musicista. Negli anni Settanta, a Londra, cantavo e avevo un mio gruppo. E anche in Italia, dove mi sono trasferito nell’85, prima di fare radio, ho lavorato come cantante e autore...».

«Io sono nato a Glasgow, in Scozia, nel ’57, dunque sono cresciuto con il grande pop-rock degli anni Settanta. Ma ho sempre avuto una passione particolare per la musica swing. La notorietà è arrivata per caso. Mi avevano chiamato a fare dei jingle per Radio Montecarlo, ho conosciuto i responsabili, mi hanno chiesto se volevo provare a fare un programma... All’inizio ho detto di no, poi ho provato e ormai sono quasi quindici anni che conduco le mie ”Montecarlo Nights”...».

«Non è mai bello dire ”sono stato il primo” - prosegue l’artista - ma in effetti credo di aver lanciato un nuovo modo di fare radio, di notte, creando un’isola di buona musica, privilegiando la qualità, i ritmi notturni. Pop, jazz, world...: non mi importano le etichette quanto la riscoperta della canzone, della melodia, dopo anni di suoni e di troppa elettronica, e in questo ho trovato in Italia un pubblico molto ricettivo».

Ancora Nick: «Quando ho ripreso a cantare? Beh, in realtà non avevo mai smesso. Ma l’idea di mettere su una grande orchestra, proponendo i classici dello swing, mi è venuta tre anni fa, facendo un programma con Renzo Arbore, che s’intitolava ”Aperitivo con swing”. Allora ho chiamato questi musicisti che mi accompagnano, tutti turnisti che hanno lavorato con grandi della musica italiana e internazionale, abbiamo cominciato a suonare. E mi sembra che funzioni...».

«Anche i giovani stanno riscoprendo lo swing - conclude Nick the Nightfly - come dimostra il successo di artisti come Michael Bublè. Perchè? Forse perchè non c’è altro di nuovo. O forse perchè la riscoperta della canzone, della melodia, dello swing è l’unica possibilità che ci rimane dopo troppi suoni finti e dopo troppo tecnologia...».

Stasera, per il «Barcolana Festival», è già tempo di gran finale. Sul megapalco di piazza Unità (che per qualcuno comincia a diventare un incubo...) salirà per primo Enzo Jannacci, accompagnato da una band con il figlio Paolo alle tastiere e alla fisarmonica. A seguire Lucio Dalla, stavolta in versione jazz, voce e clarinetto, con il quartetto del sassofonista Stefano Di Battista e la cantante Nicky Nicolai. Come da tradizione degli ultimi anni, a fine concerto si terrà uno spettacolo pirotecnico.