martedì 19 luglio 2005

Quei fraseggi sulla tastiera che punteggiavano «Eyes Wide Shut» di Stanley Kubrick? E il controcanto pianistico di «Million Dollar Hotel» di Wim Wenders? Entrambi di Brad Mehldau, trentacinque anni, statunitense, nuova stella del jazz. Stasera alle 21.30 arriva per la prima volta a Trieste, al Teatro Romano Festival. Si esibirà in trio, con Jeff Ballard alla batteria e Larry Grenadier al basso.

Mehldau è oggi considerato uno dei migliori pianisti jazz del mondo. Il migliore in assoluto, fra quelli della nuova generazione. Ha suonato fra gli altri con Joshua Redman, Charlie Haden, Lee Konitz, Wayne Shorter, Charles Lloyd e John Scofield. Dal ’95 ha costituito il suo trio con Grenadier al basso e Jorge Rossy alla batteria, poi sostituito da Ballard.

Nato in Florida el 1970, Brad è stato il classico bambino prodigio che eccelleva nella musica. All’inizio, i suoi interessi erano attirati dalla musica classica e dal rock. La scoperta e l’amore per il jazz sono arrivati solo in un secondo tempo.

«Mio padre - raccontò una volta l’artista - aveva alcuni dischi di jazz sparsi per casa. Non mi avevano per nulla impressionato quand’ero molto piccolo. Poi sono andato a una specie di campo estivo di musica classica per tre anni. Quando trascorsi lì la terza estate era l’82, avevo dodici anni, e c’era un giovane violoncellista che aveva tre anni più di me. Aveva una registrazione ”live” del quartetto di John Coltrane che suonava ”My favourite things”. Mi ricordo che ci sedemmo sul pavimento per ascoltarla e mi sentii catturato: pensai che fosse la cosa più meravigliosa che avessi mai ascoltato».

Insomma, una sorta di illuminazione. Da quel momento per il ragazzo Brad non sono più esistiti né classica né rock né niente altro. Jazz, soltanto jazz, con una di ispirazione di nome Miles Davis.

«Sì, credo che come lui non ci sia nessuno - ha detto Mehldau - soprattutto per la bellezza della musica che ci ha lasciato e la sua capacità di mettere insieme una band pur mantenendo sempre la propria identità. Miles ha dimostrato in ogni situazione cosa voglia dire avere una forte identità musicale. La sua abilità di fare degli assoli improvvisati era sempre caratterizzata da forza, semplicità e integrità d’intenti. Ma sono stati notevoli anche la sua capacità di usare lo spazio e l’attitudine a non compromettere mai la sua visione personale».

Presenza fissa delle ultime edizioni di Umbria Jazz (la sua stella è brillata anche la settimana scorsa, a Perugia), Mehldau ha già suonato nella nostra regione. Nell’estate del 2003 è stato ospite del «No Borders» di Tarvisio. Nel ’99 e nel 2000 ha suonato a Gorizia.

Memorabile soprattutto il concerto per «Gorizia Jazz 2000», con molti spettatori rimasti fuori dall’Auditorium, riempito dalla magia di una serata di piano solo. Uno splendido concerto acustico, in due set, con una prima parte dedicata a brani originali, anche inediti, e la seconda con composizioni di altri autori. E tutti ammaliati dalla raffinatezza dello stile compositivo di Mehldau: idee ritmiche, spunti, citazioni, prestiti dal repertorio classico... La ricetta che con ogni probabilità proporrà stasera, arricchita da altri anni di esperienza e dalla formazione in trio.

lunedì 18 luglio 2005

Non si è ancora spenta la grande eco della megaserata di Mtv in piazza dell’Unità, che il salotto buono cittadino si prepara a cambiare nuovamente il suo solito aspetto. Accogliendo varie migliaia di giovani, attirati da un drappello di protagonisti italiani e stranieri del pop-rock. Venerdì 5 e sabato 6 agosto ritorna infatti a Trieste la carovana del Tim Tour, che aveva già riempito la piazza nell’agosto 2004 e nell’estate 2002.

La prima sera, presentati da Linus, vedremo sul palco i Gemelli Diversi, i Velvet, Marina Rei, Nicky Nicolai con lo Stefano Di Battista Quartet e Niccolò Agliardi. Sabato sera, con la conduzione di Rossella Brescia e Fabio Canino, l’attenzione sarà tutta per Pago, Sean Paul e i redivivi Chic di Nile Rodgers. Insomma un buon cast, se vogliamo anche più popolare di quello proposto dall’«Isle of Mtv», e che dunque incontrerà sicuramente i favori del pubblico. Non dimentichiamo che anche queste due serate sono a ingresso gratuito.

«Torniamo a Trieste - dice Letizia D’Amato, portavoce dell’organizzazione - per la splendida accoglienza che il nostro spettacolo vi ha trovato in passato. La bellezza di piazza Unità, che non scopriamo certo noi, è poi di certo l’elemento in più...».

Per il Tim Tour questa è la quinta edizione. Con i suoi due milioni di spettatori dichiarati dagli organizzatori e distribuiti in varie tappe (quest’anno, oltre a Trieste, la carovana toccherà Cagliari, San Benedetto del Tronto, Lecce, Reggio Calabria, Napoli e Torino), è probabilmente l’appuntamento musicale itinerante più seguito dell’estate.

I Gemelli Diversi tornano in piazza Unità dopo il successo riscosso al Tim Tour dell’estate scorsa. Anche Nicky Nicolai e il quartetto jazz del marito, il sassofonista Stefano Di Battista, erano già stati a Trieste, sempre in piazza Unità, nell’ottobre scorso, per il Barcolana Festival. Pochi mesi prima di diventare, con un terzo posto colto a sorpresa, la rivelazione dell’ultimo Festival di Sanremo. Ma l’attenzione del pubblico meno giovane sarà probabilmente tutta per Nile Rodgers e i suoi Chic - vere icone della musica disco-funk degli anni Ottanta - che sono da poco riapparsi sulla scena musicale nella loro formazione originaria, partecipando anche all’ultimo Umbria Jazz.

Il trentenne giamaicano Sean Paul è considerato uno dei migliori artisti reggae che hanno saputo imporsi sul mercato americano ed europeo. Pago (protagonista con «Parlo di te» di uno dei tormentoni dell’estate, miracolato dallo spot della Citroen) e Niccolò Agliardi sono due giovani di belle spranze. Velvet e Marina Rei sono ormai due realtà della musica italiana.

Del cast Tim Tour di quest’anno fanno parte anche - ma non li vedremo a Trieste, tranne cambiamenti dell’ultima ora - Natalie Imbruglia, Planet Funk, Sugarfree, Paolo Meneguzzi, Luca Dirisio, Max Pezzali, Craig David, Biagio Antonacci, Francesco Renga, Le Vibrazioni, Antonello Venditti, Elisa, Kool & The Gang, Irene Grandi, Alex Britti e Tiromancino.

Ricordiamo che nel 2002 i protagonisti della tappa triestina del Tim Tour erano stati Edoardo Bennato, Prozac+ e i ragazzi di «Saranno famosi». Lo scorso anno, diluiti in tre serate, avevamo invece visto Piero Pelù, Gemelli Diversi, Haiducii, Db Boulevard, Danny Losito, Irene Grandi, Rio, Roberto Angelini e Kc and the Sunshine Band.

E come sicuramente non hanno dimenticato quanti hanno assistito agli spettacoli dell’estate scorsa e di tre anni fa, l’arrivo del Tim Tour in piazza Unità è accompagnato - nei dintorni della piazza e sulle Rive - da una sorta di supersponsorizzato «villaggio del divertimento».
I Beatles sono musica classica del Novecento. Ormai lo hanno capito in tanti. E fra i tanti ci sono anche le pianiste Mariarosa Pozzi e Rossella Candotto, rispettivamente triestina e friulana, che escono in questi giorni con un cd registrato dal vivo a Lubiana nel dicembre scorso e intitolato «John & Paul - 12 Beatles Songs per due pianoforti» (etichetta Sinfonica, arrangiamenti di Giorgio Tortora).

«Amiamo i Beatles da sempre - spiegano le due concertiste - e avevamo notato che il loro repertorio, riletto e riproposto da tanti e in tante forme, non aveva mai conosciuto la versione per due pianoforti da soli. O perlomeno se c’è stata, noi non ne siamo mai state a conoscenza...».

È nato dunque questo progetto, che ha avuto un primo sbocco dal vivo in occasione del «Jast Kino Time», svoltosi nel dicembre 2004 al Kulturni Dom Atelier della vicina capitale slovena. «Abbiamo deciso di proporre al pubblico la registrazione di quello spettacolo - aggiunge Mariarosa Pozzi - proprio per la particolare atmosfera che si era creata in sala e che spesso è difficile riprodurre in sala d’incisione...».

E forse proprio una certa «artigianalità» della registrazione è l’unica, piccola pecca di questo lavoro, per il resto gradevole e godibilissimo. Il disco - dodici classici in tutto - parte con «The long and winding road», prosegue con «The fool on the hill» e poi ancora con «Strawberry fields forever» e «Let it be». Un arrangiamento molto azzeccato è quello di «Penny Lane», mentre della lennoniana «Imagine» viene regalata una versione molto originale. Conclusione all’altezza delle aspettative, con «Here comes the sun» (uno dei pochi classici beatlesiani firmati da George Harrison) e «With a little help from my friends» (di cui molti ricordano ancora la leggendaria versione di Joe Cocker a Woodstock...). Bella anche l’immagine di copertina, firmata Carla Vlah.

Da segnalare che il 4 agosto, al Palacongressi di Grado, le due pianiste propongono lo stesso repertorio con un organico più ampio: ci saranno anche il Venice Cello Quartet, il serbo Aleksandar Paunovic (basso elettrico) e Giorgio Fritsch (batteria).

venerdì 15 luglio 2005

Ma allora la vera Trieste qual è? Quella viva, giovane, colorata che ieri sera ha mostrato tutta la sua scontrosa grazia in diretta televisiva a mezza Europa, oppure quella grigia, triste, brontolona del «no se pol» e «no se gà mai fato» che da sempre ben conosciamo?

Quella che sopporta con tolleranza rassegnata e tutto sommato un po’ complice l'invasione di tanti giovani ma anche il disagio di una piazza Unità messa sottosopra da più di una settimana, oppure quella delle patetiche «ronde antirumore» pronte a misurare i decibel emessi nelle sere d'estate fuori da bar e locali?

E ancora: quella marpiona (Victoria Cabello dixit...) e caciarona del sindaco Dipiazza oppure quella algida e distaccata del governatore Illy, entrambi accomunati dall’urgenza di mettere il timbro - rispettivamente del Comune e della Regione - sull’evento musicale dell’estate?


Potremmo continuare a lungo, di dualismo in dualismo. La verità è che Trieste - città multietnica e cosmopolita ante litteram - comprende tante cose assieme. È giovane e anziana, vitale e assonnata, creativa e noiosa, colta e bottegaia, intraprendente e piagnona. Tutto e il contrario di tutto. Il «non luogo» per eccellenza. Da sempre e dunque anche in questa occasione.

Poco importa se le previsioni della vigilia si sono rivelate, almeno in quanto a numeri, un po’ troppo ottimistiche (sì, perchè in piazza Unità non si sono visti i settantamila pronosticati da organizzatori e sponsor pubblici locali, ma forse nemmeno i cinquantamila «ufficiali» di ieri sera...). Poco importa se il cast avrebbe potuto e dovuto regalare qualche grande nome in più (e allora sì che sarebbe arrivata anche «l’invasione da tutta Europa» che poi non c’è stata...).

Ciò che interessa in questa circostanza è che, almeno per una sera, Trieste - storicamente tagliata fuori dai grandi tour internazionali, che solo negli ultimi anni ha tentato con alterni successi un’inversione di tendenza - si è quasi magicamente trasformata in una capitale della musica e dei giovani. E ciò grazie soprattutto alle telecamere di Mtv, canale musicale che rappresenta un moderno esperanto capace di mettere in comunicazione milioni di giovani di razze, lingue, culture, abitudini diverse.

Vallo a spiegare, poi, a tutti i ragazzi (ed ex ragazzi) che hanno seguito lo show, che Trieste è una delle città più anziane del pianeta, che da qui i giovani sono sempre scappati appena hanno potuto, e che comunque sono sempre stati costretti a mettersi in viaggio (alla volta di Lubiana, di Monaco, di Milano, di Bologna o anche solo di Veneto e Friuli...) per seguire i protagonisti della propria musica. Vaglielo a spiegare che qui c’è sempre qualcuno pronto a chiamare la polizia, se quattro ragazzi suonano in un locale e magari fuori si sente un po’ di casino.

Ascoltare ieri da piazza dell’Unità la musica di alcuni dei gruppi che compongono la colonna sonora di Mtv, ma anche sentire Enrico Silvestrin e gli altri «vj» condurre lo show in inglese, persino passeggiare fra i ragazzi che hanno presidiato piazza e dintorni fino a notte inoltrata, beh, diciamo che è stata una bella iniezione di vita, giovinezza e ottimismo. Da cui forse anche la città - anziana, assonnata, disincantata... - potrebbe prima o poi ripartire. Anche senza Mtv.

 C’è anche la Trieste della sofferenza, della povertà, dell’emarginazione.
Pino Roveredo la racconta da anni, nei suoi libri e su queste colonne,

perché la conosce bene. Possiamo anzi dire che in tempi non lontani l’ha

conosciuta sulla sua pelle. E chissà, forse la sera del 17 settembre, quando

a Venezia il suo libro «Mandami a dire» contenderà agli altri quattro

finalisti il Premio Campiello 2005, quella sera, finalmente ammesso nel

salotto buono della cosiddetta cultura italiana, la sua discesa agli inferi

gli riapparirà come in un flashback. Povere stazioni di un girone dantesco:

l’istituto dei poveri, l’alcol, il manicomio, il carcere...

Roveredo, la scrittura le ha salvato la vita?

Sì, la scrittura è stata fondamentale nella mia vita, perché scrivendo sono

riuscito a comunicare, a evadere dalla mia solitudine, a dire cose che non

avrei mai detto a parole a qualcuno. Ma non parlo solo della scrittura

finalizzata ai libri, ai racconti. C’è anche quella delle lettere: ne ho

sempre scritte e ricevute tante. Anche quand’ero in carcere, le scrivevo per

conto terzi, in cambio di qualche sigaretta...

Dell’alcol cosa ricorda?

Tutto. A tredici anni la prima birra, il primo bicchier di vino, il caffè

corretto... Con un po’ di alcol in corpo ti illudi che il tuo rapporto con

la gente funzioni meglio. Poi ti accorgi che le birre della domenica non

bastano, passi al vino del lunedì, alle grappe del martedì, fino al

bicchiere di aceto pur di placare il bruciore alla stomaco. E ti ritrovi

alcolista senza quasi accorgertene.

Soprattutto a Trieste l’alcol è quasi una droga libera, a disposizione di

tutti...

Sì, è un dramma sociale. La mia fortuna comunque è stata non essere nato

dieci anni dopo. In quel caso sarei probabilmente morto, con tutta l’offerta

di droga sul mercato. Con la mia voglia di eccessi sarei stato sicuramente

un buon cliente dell’eroina.

Invece...

Invece solo qualche canna. Peraltro come tanti ragazzi di buona famiglia, o

come tanti rispettabili professionisti, come tanti politici...

I guai come sono cominciati?

A tredici anni, appena uscito dall’istituto, l’Eca, Ente Comunale Assistenza

- ma noi lo chiamavamo Entrata Cani Affamati, con Uscita Cani Stecchiti... -

fui colpito da improvvisa libertà: le prime sigarette, i giornalini

pornografici, non dover camminare in riga. E l’alcol, che per me è stata una

delle vie più facili per credere di entrare nelle libertà degli altri.

Fino al luogo dove la libertà era negata...

Sì, a diciassette anni sono stato in manicomio, alcolista agitato. Al pronto

soccorso venni bastonato, mi fu messa la camicia di forza. Sapevo di non

esser matto, ma dovevo trovare qualcuno a cui spiegarlo. Chiesi chi era

Basaglia. Mi indicarono un uomo senza camice bianco, che fino a quel giorno

avevo scambiato per un ricoverato. Ricordo la sua cortesia. E una partita a

scacchi, o forse era dama, durante la quale trovai finalmente una persona

che mi stesse ad ascoltare.

Del carcere cosa ricorda?

L’umanità dei compagni. Vi entrai in un giorno tristissimo per Trieste, che

la città ha dimenticato: agosto ’72, erano appena morti tre detenuti dopo

una rivolta al Coroneo. Avevano appiccato il fuoco a dei materassi per

protesta e nel rogo erano finiti bruciati vivi. In carcere ci sarei

rientrato dopo oltre vent’anni, stavolta per parlare dei miei libri e della

mia esperienza...

E dell’infanzia, cosa ricorda?

Il silenzio che c’era in casa, con due genitori sordomuti che ci hanno

insegnato il linguaggio dei gesti. Per vent’anni ho considerato l’essere

figlio di genitori sordomuti come un alibi per il mio disagio. Senza capire

la grande ricchezza affettiva e di pensiero che mi hanno lasciato. Oltre al

linguaggio delle mani, dei gesti, che comporta fantasia, creatività, anche

onestà...

Suo padre che lavoro faceva?

Prima il calzolaio, poi il manovale e infine il magazziniere. E mi diceva

sempre di essere figlio di un conte. Un giorno, pochi anni fa, presentavo un

mio libro al Circolo Menocchio di Montereale Valcellina, il paese vicino

Pordenone da dove veniva lui. Arriva un’anziana signora, mi guarda e dice:

finalmente rivedo un Oldi... Allora mi ricordo di mio padre, di quella che

io consideravo una fantasia, che il nonno era il conte Oldi, che poi era

finito in miseria, perdendo tutto, anche titolo e cognome. Dopo

quell’incontro ho fatto delle ricerche, sembra incredibile ma ho trovato

delle conferme: discendo da una famiglia di nobili...

Come ha conosciuto Claudio Magris?

Nel ’96, avevo appena pubblicato «Capriole in salita», decisi di scrivere a

vari scrittori, a uomini di cultura triestini. Lui fu l’unico a rispondermi

subito, dopo due giorni. Mi telefona e mi dice: ci vediamo fra un’ora al

caffè, ovviamente il San Marco. È stato in incontro di pelle, mi ritengo

fortunato di poterlo considerare un amico.

Grazie a lui è arrivata la ribalta nazionale.

Sì, il suo aiuto è stato fondamentale. Dopo un articolo sul Corriere della

Sera mi ha cercato Elisabetta Sgarbi e tramite lei è arrivato il contratto

con Bompiani, per cui è uscito «Mandami a dire». Ma di una frase pronunciata

da Magris sono orgoglioso: sappi - mi ha detto - che se non avessi

considerato i tuoi libri di qualità, non avrei mosso un dito...

La scrittura quando è diventata una cosa seria?

Nel ’91 scrissi a Maurizio Costanzo per denunciare le storture burocratiche

in cui ero incappato per alcuni problemi sanitari dei miei figli. Lui invece

rimase colpito dal modo in cui era scritta la lettera. Mi ricordo che mi

disse: lei deve scrivere... E fu dietro suo stimolo che ho cominciato a

scrivere «Capriole in salita», uscito nel ’96, grazie a Valerio Fiandra, che

era appena entrato alla Lint...

Lei ama l’estate?

Ho un rapporto di odio e amore, non amo le spiagge affollate. Ci andavo per

far contenti i miei tre figli, che ora sono grandi e vanno al mare con gli

amici. Io continuo ad andare a Marina Julia, dove trovo qualche angolo di

tranquillità. E dove magari posso anche scrivere, cosa che faccio comunque

in tutte le stagioni.

La sua estate più bella?

L’unico Ferragosto che passai con mio padre, io e lui da soli, fra le sue

montagne attorno a Montereale Valcellina. Sarà stato il ’68, avevo

quattordici anni. Prima non avevo potuto farlo perché ero in istituto, poi

perché cominciò la mia parabola discendente...

La più brutta?

Quell’agosto del ’72 di cui parlavamo prima. Il primo arresto. Avevo rubato

un’auto con un amico. Rimasi al Coroneo per tre mesi.

Diceva dei suoi figli...

Alessandro ha 26 anni ed è vicino alla laurea in ingegneria, Marco ne ha 21

ed è anche lui iscritto a ingegneria, Andrea ne ha 17 ed è studente al

Galvani: fu lui, anni fa, che mi prese un po’ in giro scrivendo «Capriole

insalata»...

Sua moglie?

Senza di lei non ne sarei mai uscito. L’ho conosciuta al Paradiso nel ’77.

Nella balera di via Flavia avevo il mio posto fisso al banco, non sono mai

stato un grande ballerino. Ci siamo sposati sei mesi dopo il primo incontro,

ero disoccupato ma dicemmo ai suoi genitori che facevo il saldatore alla

Grandi Motori.

Quando è cominciata la sua rinascita?

Nel ’90, ero ricoverato nella sezione alcologia, per ripulirmi per

l’ennesima volta il sangue. Venne a trovarmi mia moglie, con il nostro

figlio più piccolo, che aveva due anni. Lo guardai e mi misi a piangere,

senza riuscire a smettere. Da lì cominciò il cambiamento. Disoccupato, nella

sezione alcologia, con tre figli e una moglie lavoratrice precaria...

Poi cosa accadde?

Uscito dall’ospedale ebbi la fortuna di trovare un lavoro in una fabbrica di

tappi per bottiglia: sembrava quasi una nemesi... Il primo giorno di lavoro

non avevo neanche i soldi per il bus: avevo centocinquanta lire e due

sigarette in tasca, ma anche una famiglia che mi aspettava a casa. Andai a

piedi da Valmaura, dove abitavamo, fino in zona industriale. Da lì sono

ripartito...

Cosa ricorda della fabbrica?

Ho molti ricordi di quegli anni. Sono stato testimone del cambiamento del

lavoro in fabbrica: non si tornava più a casa con le ossa stanche ma molto

annoiati, il pulsante aveva sostituito la pressa. Avevamo sbadigli che si

mangiavano le lancette, perché il tempo non passava mai. Molti miei racconti

sono nati lì, li ho scritti in fabbrica...

Lei scrive in una maniera che molti giudicano strana...

Non so scrivere in un’altra maniera. Gli accostamenti inusuali di parole,

che colpiscono chi legge, a volte sono spontanei, altre volte li cerco per

creare immagini nuove. Forse sono eredità del linguaggio coi gesti

dell’infanzia, o forse ci sono dentro anche tanti anni di ascolto dei

cantautori...

I suoi preferiti?

De Gregori, Guccini, il primo Vecchioni... Al bar, negli anni Settanta, ero

l’unico che nel jukebox gettonava le canzoni del «professore». Quando scrivo

ascolto i dischi di Gabriella Ferri, morta di solitudine...

Come Mia Martini, come Luigi Tenco, come Dalida: il successo a volte uccide?

Probabilmente sì, almeno i più deboli, i più tristi, i più malinconici.

Quelli che spesso ricorrono all’aiuto, si fa per dire, dell’alcol, della

droga...

Da sei anni lei ha un dialogo con la città attraverso questo giornale.

È un grande impegno, che mi ha permesso di capire meglio Trieste, la sua

gente. Prima rispondendo alle lettere, ora con la mia «finestra» del sabato,

ho conosciuto tante persone semplici, le loro storie, ciò che pensano...

Molti mi fermano per la strada, o mi telefonano, per dire magari che si

erano identificati in quello che avevo scritto. Ed è la soddisfazione più

grande.

E Trieste?

Trieste è sempre molto impegnata a farsi bella, a rifarsi il guardaroba. Ma

se sbottoni un po’ la giacca trovi un tremendo allarme sociale, fatto di

dolore, di miseria, di disagio, non solo giovanile. Per il sociale si spende

troppo poco. E uno come Don Mario Vatta fa i salti mortali, ma da solo non

basta...

 

sabato 2 luglio 2005

di Carlo Muscatello


C’è qualcosa che chiaramente non funziona, in un mondo nel quale sono i cantanti a doversi occupare dei destini del pianeta. Loro a parlare di cancellazione del debito ai paesi poveri, a ricordare le emergenze di vita e di morte di milioni di persone, a dettar quasi l’agenda delle priorità ai padroni della terra, che mercoledì al G8 di Edimburgo discutono di Africa e Aids. Diamo pure per scontata la buona fede e magari anche il disinteresse di Bob Geldof, di Bono e delle altre popstar che ieri hanno infiammato il villaggio globale da Roma, Londra, Parigi, Berlino, Philadelphia, Tokyo, Toronto, Johannesburg. Facciamo anche finta di credere che almeno a una parte dei milioni di giovani e meno giovani che hanno seguito la maratona, dal vivo o in diretta tivù, importi qualcosa dei bambini che in questo momento muoiono di fame nel continente africano e la cui vita forse sarebbe salvata dal costo di una nostra cena al ristorante. Rimane comunque stridente il contrasto fra un Occidente ricco, capace di unirsi solo per esportare la democrazia con le bombe e far la guerra a qualche dittatore scelto non a caso, un Terzo mondo povero che non ce la fa a sopravvivere, e queste adunate oceaniche di ragazzi ipnotizzati da star della canzone folgorate per una sera sulla via di Damasco.

</IP><IP9>Quello fra rock e beneficenza è sodalizio di vecchia data, figlio di ideali e utopie sessantottine (cambiamo il mondo, la fantasia al potere...), che periodicamente riacquista lustro. Ricordiamo fra i tanti George Harrison e Ravi Shankar, che nell’agosto ’71 riempirono il Madison Square Garden di New York con l’intento di raccogliere fondi per il Bangladesh. I Rolling Stones che due anni suonarono per il Nicaragua terremotato. La parata di «No Nukes», nel ’79, con Springsteen, Jackson Browne, James Taylor e tanti altri mobilitati contro le centrali nucleari. E poi il Live Aid - preceduto dal singolo «We are the world» - del luglio ’85, a Londra e Philadelphia, regista già allora Bob Geldof.

Nell’agosto dell’89 ci capitò di incontrarlo in Calabria, dov’era stato invitato per ricevere un qualche premio di basso cabotaggio. La regina lo aveva nominato «sir», ma la sua popolarità era già tornata al livello «pre Live Aid», quand’era solo il cantante dei mediocri Boomtown Rats. In quell’occasione, durante una partita a calciobalilla sulla spiaggia, disse che non si sarebbe più occupato di beneficenza. Evidentemente ci ha ripensato. Ammette che il Live Aid ha fatto vendere dei dischi a qualcuno «ma non ha cambiato le carriere». Sarà. Ma grazie al Live 8, per esempio, oggi anche i giovani del 2005, dopo quelli di vent’anni fa, sanno chi è Bob Geldof. Che ieri ha pure cantato, nonostante avesse quasi promesso di non farlo. Il resto è chiacchiera.