sabato 2 luglio 2005

di Carlo Muscatello


C’è qualcosa che chiaramente non funziona, in un mondo nel quale sono i cantanti a doversi occupare dei destini del pianeta. Loro a parlare di cancellazione del debito ai paesi poveri, a ricordare le emergenze di vita e di morte di milioni di persone, a dettar quasi l’agenda delle priorità ai padroni della terra, che mercoledì al G8 di Edimburgo discutono di Africa e Aids. Diamo pure per scontata la buona fede e magari anche il disinteresse di Bob Geldof, di Bono e delle altre popstar che ieri hanno infiammato il villaggio globale da Roma, Londra, Parigi, Berlino, Philadelphia, Tokyo, Toronto, Johannesburg. Facciamo anche finta di credere che almeno a una parte dei milioni di giovani e meno giovani che hanno seguito la maratona, dal vivo o in diretta tivù, importi qualcosa dei bambini che in questo momento muoiono di fame nel continente africano e la cui vita forse sarebbe salvata dal costo di una nostra cena al ristorante. Rimane comunque stridente il contrasto fra un Occidente ricco, capace di unirsi solo per esportare la democrazia con le bombe e far la guerra a qualche dittatore scelto non a caso, un Terzo mondo povero che non ce la fa a sopravvivere, e queste adunate oceaniche di ragazzi ipnotizzati da star della canzone folgorate per una sera sulla via di Damasco.

</IP><IP9>Quello fra rock e beneficenza è sodalizio di vecchia data, figlio di ideali e utopie sessantottine (cambiamo il mondo, la fantasia al potere...), che periodicamente riacquista lustro. Ricordiamo fra i tanti George Harrison e Ravi Shankar, che nell’agosto ’71 riempirono il Madison Square Garden di New York con l’intento di raccogliere fondi per il Bangladesh. I Rolling Stones che due anni suonarono per il Nicaragua terremotato. La parata di «No Nukes», nel ’79, con Springsteen, Jackson Browne, James Taylor e tanti altri mobilitati contro le centrali nucleari. E poi il Live Aid - preceduto dal singolo «We are the world» - del luglio ’85, a Londra e Philadelphia, regista già allora Bob Geldof.

Nell’agosto dell’89 ci capitò di incontrarlo in Calabria, dov’era stato invitato per ricevere un qualche premio di basso cabotaggio. La regina lo aveva nominato «sir», ma la sua popolarità era già tornata al livello «pre Live Aid», quand’era solo il cantante dei mediocri Boomtown Rats. In quell’occasione, durante una partita a calciobalilla sulla spiaggia, disse che non si sarebbe più occupato di beneficenza. Evidentemente ci ha ripensato. Ammette che il Live Aid ha fatto vendere dei dischi a qualcuno «ma non ha cambiato le carriere». Sarà. Ma grazie al Live 8, per esempio, oggi anche i giovani del 2005, dopo quelli di vent’anni fa, sanno chi è Bob Geldof. Che ieri ha pure cantato, nonostante avesse quasi promesso di non farlo. Il resto è chiacchiera.

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