Pino Roveredo la racconta da anni, nei suoi libri e su queste colonne,
perché la conosce bene. Possiamo anzi dire che in tempi non lontani l’ha
conosciuta sulla sua pelle. E chissà, forse la sera del 17 settembre, quando
a Venezia il suo libro «Mandami a dire» contenderà agli altri quattro
finalisti il Premio Campiello 2005, quella sera, finalmente ammesso nel
salotto buono della cosiddetta cultura italiana, la sua discesa agli inferi
gli riapparirà come in un flashback. Povere stazioni di un girone dantesco:
l’istituto dei poveri, l’alcol, il manicomio, il carcere...
Roveredo, la scrittura le ha salvato la vita?
Sì, la scrittura è stata fondamentale nella mia vita, perché scrivendo sono
riuscito a comunicare, a evadere dalla mia solitudine, a dire cose che non
avrei mai detto a parole a qualcuno. Ma non parlo solo della scrittura
finalizzata ai libri, ai racconti. C’è anche quella delle lettere: ne ho
sempre scritte e ricevute tante. Anche quand’ero in carcere, le scrivevo per
conto terzi, in cambio di qualche sigaretta...
Dell’alcol cosa ricorda?
Tutto. A tredici anni la prima birra, il primo bicchier di vino, il caffè
corretto... Con un po’ di alcol in corpo ti illudi che il tuo rapporto con
la gente funzioni meglio. Poi ti accorgi che le birre della domenica non
bastano, passi al vino del lunedì, alle grappe del martedì, fino al
bicchiere di aceto pur di placare il bruciore alla stomaco. E ti ritrovi
alcolista senza quasi accorgertene.
Soprattutto a Trieste l’alcol è quasi una droga libera, a disposizione di
tutti...
Sì, è un dramma sociale. La mia fortuna comunque è stata non essere nato
dieci anni dopo. In quel caso sarei probabilmente morto, con tutta l’offerta
di droga sul mercato. Con la mia voglia di eccessi sarei stato sicuramente
un buon cliente dell’eroina.
Invece...
Invece solo qualche canna. Peraltro come tanti ragazzi di buona famiglia, o
come tanti rispettabili professionisti, come tanti politici...
I guai come sono cominciati?
A tredici anni, appena uscito dall’istituto, l’Eca, Ente Comunale Assistenza
- ma noi lo chiamavamo Entrata Cani Affamati, con Uscita Cani Stecchiti... -
fui colpito da improvvisa libertà: le prime sigarette, i giornalini
pornografici, non dover camminare in riga. E l’alcol, che per me è stata una
delle vie più facili per credere di entrare nelle libertà degli altri.
Fino al luogo dove la libertà era negata...
Sì, a diciassette anni sono stato in manicomio, alcolista agitato. Al pronto
soccorso venni bastonato, mi fu messa la camicia di forza. Sapevo di non
esser matto, ma dovevo trovare qualcuno a cui spiegarlo. Chiesi chi era
Basaglia. Mi indicarono un uomo senza camice bianco, che fino a quel giorno
avevo scambiato per un ricoverato. Ricordo la sua cortesia. E una partita a
scacchi, o forse era dama, durante la quale trovai finalmente una persona
che mi stesse ad ascoltare.
Del carcere cosa ricorda?
L’umanità dei compagni. Vi entrai in un giorno tristissimo per Trieste, che
la città ha dimenticato: agosto ’72, erano appena morti tre detenuti dopo
una rivolta al Coroneo. Avevano appiccato il fuoco a dei materassi per
protesta e nel rogo erano finiti bruciati vivi. In carcere ci sarei
rientrato dopo oltre vent’anni, stavolta per parlare dei miei libri e della
mia esperienza...
E dell’infanzia, cosa ricorda?
Il silenzio che c’era in casa, con due genitori sordomuti che ci hanno
insegnato il linguaggio dei gesti. Per vent’anni ho considerato l’essere
figlio di genitori sordomuti come un alibi per il mio disagio. Senza capire
la grande ricchezza affettiva e di pensiero che mi hanno lasciato. Oltre al
linguaggio delle mani, dei gesti, che comporta fantasia, creatività, anche
onestà...
Suo padre che lavoro faceva?
Prima il calzolaio, poi il manovale e infine il magazziniere. E mi diceva
sempre di essere figlio di un conte. Un giorno, pochi anni fa, presentavo un
mio libro al Circolo Menocchio di Montereale Valcellina, il paese vicino
Pordenone da dove veniva lui. Arriva un’anziana signora, mi guarda e dice:
finalmente rivedo un Oldi... Allora mi ricordo di mio padre, di quella che
io consideravo una fantasia, che il nonno era il conte Oldi, che poi era
finito in miseria, perdendo tutto, anche titolo e cognome. Dopo
quell’incontro ho fatto delle ricerche, sembra incredibile ma ho trovato
delle conferme: discendo da una famiglia di nobili...
Come ha conosciuto Claudio Magris?
Nel ’96, avevo appena pubblicato «Capriole in salita», decisi di scrivere a
vari scrittori, a uomini di cultura triestini. Lui fu l’unico a rispondermi
subito, dopo due giorni. Mi telefona e mi dice: ci vediamo fra un’ora al
caffè, ovviamente il San Marco. È stato in incontro di pelle, mi ritengo
fortunato di poterlo considerare un amico.
Grazie a lui è arrivata la ribalta nazionale.
Sì, il suo aiuto è stato fondamentale. Dopo un articolo sul Corriere della
Sera mi ha cercato Elisabetta Sgarbi e tramite lei è arrivato il contratto
con Bompiani, per cui è uscito «Mandami a dire». Ma di una frase pronunciata
da Magris sono orgoglioso: sappi - mi ha detto - che se non avessi
considerato i tuoi libri di qualità, non avrei mosso un dito...
La scrittura quando è diventata una cosa seria?
Nel ’91 scrissi a Maurizio Costanzo per denunciare le storture burocratiche
in cui ero incappato per alcuni problemi sanitari dei miei figli. Lui invece
rimase colpito dal modo in cui era scritta la lettera. Mi ricordo che mi
disse: lei deve scrivere... E fu dietro suo stimolo che ho cominciato a
scrivere «Capriole in salita», uscito nel ’96, grazie a Valerio Fiandra, che
era appena entrato alla Lint...
Lei ama l’estate?
Ho un rapporto di odio e amore, non amo le spiagge affollate. Ci andavo per
far contenti i miei tre figli, che ora sono grandi e vanno al mare con gli
amici. Io continuo ad andare a Marina Julia, dove trovo qualche angolo di
tranquillità. E dove magari posso anche scrivere, cosa che faccio comunque
in tutte le stagioni.
La sua estate più bella?
L’unico Ferragosto che passai con mio padre, io e lui da soli, fra le sue
montagne attorno a Montereale Valcellina. Sarà stato il ’68, avevo
quattordici anni. Prima non avevo potuto farlo perché ero in istituto, poi
perché cominciò la mia parabola discendente...
La più brutta?
Quell’agosto del ’72 di cui parlavamo prima. Il primo arresto. Avevo rubato
un’auto con un amico. Rimasi al Coroneo per tre mesi.
Diceva dei suoi figli...
Alessandro ha 26 anni ed è vicino alla laurea in ingegneria, Marco ne ha 21
ed è anche lui iscritto a ingegneria, Andrea ne ha 17 ed è studente al
Galvani: fu lui, anni fa, che mi prese un po’ in giro scrivendo «Capriole
insalata»...
Sua moglie?
Senza di lei non ne sarei mai uscito. L’ho conosciuta al Paradiso nel ’77.
Nella balera di via Flavia avevo il mio posto fisso al banco, non sono mai
stato un grande ballerino. Ci siamo sposati sei mesi dopo il primo incontro,
ero disoccupato ma dicemmo ai suoi genitori che facevo il saldatore alla
Grandi Motori.
Quando è cominciata la sua rinascita?
Nel ’90, ero ricoverato nella sezione alcologia, per ripulirmi per
l’ennesima volta il sangue. Venne a trovarmi mia moglie, con il nostro
figlio più piccolo, che aveva due anni. Lo guardai e mi misi a piangere,
senza riuscire a smettere. Da lì cominciò il cambiamento. Disoccupato, nella
sezione alcologia, con tre figli e una moglie lavoratrice precaria...
Poi cosa accadde?
Uscito dall’ospedale ebbi la fortuna di trovare un lavoro in una fabbrica di
tappi per bottiglia: sembrava quasi una nemesi... Il primo giorno di lavoro
non avevo neanche i soldi per il bus: avevo centocinquanta lire e due
sigarette in tasca, ma anche una famiglia che mi aspettava a casa. Andai a
piedi da Valmaura, dove abitavamo, fino in zona industriale. Da lì sono
ripartito...
Cosa ricorda della fabbrica?
Ho molti ricordi di quegli anni. Sono stato testimone del cambiamento del
lavoro in fabbrica: non si tornava più a casa con le ossa stanche ma molto
annoiati, il pulsante aveva sostituito la pressa. Avevamo sbadigli che si
mangiavano le lancette, perché il tempo non passava mai. Molti miei racconti
sono nati lì, li ho scritti in fabbrica...
Lei scrive in una maniera che molti giudicano strana...
Non so scrivere in un’altra maniera. Gli accostamenti inusuali di parole,
che colpiscono chi legge, a volte sono spontanei, altre volte li cerco per
creare immagini nuove. Forse sono eredità del linguaggio coi gesti
dell’infanzia, o forse ci sono dentro anche tanti anni di ascolto dei
cantautori...
I suoi preferiti?
De Gregori, Guccini, il primo Vecchioni... Al bar, negli anni Settanta, ero
l’unico che nel jukebox gettonava le canzoni del «professore». Quando scrivo
ascolto i dischi di Gabriella Ferri, morta di solitudine...
Come Mia Martini, come Luigi Tenco, come Dalida: il successo a volte uccide?
Probabilmente sì, almeno i più deboli, i più tristi, i più malinconici.
Quelli che spesso ricorrono all’aiuto, si fa per dire, dell’alcol, della
droga...
Da sei anni lei ha un dialogo con la città attraverso questo giornale.
È un grande impegno, che mi ha permesso di capire meglio Trieste, la sua
gente. Prima rispondendo alle lettere, ora con la mia «finestra» del sabato,
ho conosciuto tante persone semplici, le loro storie, ciò che pensano...
Molti mi fermano per la strada, o mi telefonano, per dire magari che si
erano identificati in quello che avevo scritto. Ed è la soddisfazione più
grande.
E Trieste?
Trieste è sempre molto impegnata a farsi bella, a rifarsi il guardaroba. Ma
se sbottoni un po’ la giacca trovi un tremendo allarme sociale, fatto di
dolore, di miseria, di disagio, non solo giovanile. Per il sociale si spende
troppo poco. E uno come Don Mario Vatta fa i salti mortali, ma da solo non
basta...
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