domenica 17 ottobre 2010

DISCHI - PAOLO CONTE

Volgarità e cattivo gusto riempiono ormai talmente il mondo che ci circonda (quello della musica non fa eccezione, anzi), che sembra quasi impossibile prendere metaforicamente il mare e attraccare in un’oasi capace di riconciliarci con valori assoluti quali bellezza, intelligenza, educazione, ironia, cortesia, a tratti genialità.

Le quindici canzoni che compongono ”Nelson” (Universal), il nuovo album di Paolo Conte, che arriva a due anni da ”Psiche”, potrebbero rappresentare quest’oasi. L’avvocato astigiano (74 anni a gennaio) lo dice chiaro e tondo: lui pensa che sia meglio «non parlare della realtà, per non sollecitare brutte abitudini».

Dedicato già nel titolo al suo cane Nelson, che non c’è più e aveva ”orecchie musicali”, ma anche al compianto manager dell’artista Renzo Fantini (che curava anche gli interessi di Francesco Guccini), il disco profuma di nostalgia e non insegue le mode né le innovazioni. Come il pubblico dell’avvocato, che «si somiglia anche all’estero: è abbastanza colto ma non troppo, non è schiavo della moda e libero nei suoi pensieri» (definizione dello stesso Conte alla conferenza stampa di presentazione).

Affreschi musicali che, come per incanto, ci reintroducono nel magico mondo dell’artista tanto amato dai francesi. Colori e aromi forti, melodie d’altri tempi, suoni e storie che hanno nella loro endemica classicità il marchio di fabbrica ma anche l’innegabile marcia in più.

A voler cercare a tutti i costi una novità, questa sta nel variare del lessico. Oltre che ovviamente in italiano, Conte gioca infatti con altre lingue, cantando nel napoletano già amabilmente strapazzato in passato (stavolta il titolo è ”Suonno e' tutt'o suonno”), ma anche in spagnolo, francese e inglese (sempre «chiedendo le circostanze attenuanti - scherza l’artista - al mio pubblico»).

E l’impressione non è che lo faccia per strizzare l’occhio al pubblico internazionale (non dimentichiamo che Conte ha ormai da tempo un suo pubblico fuori dai confini patrii, e non soltanto nella Francia che l’ha adottato più di vent’anni fa, ma anche nell’Europa del Nord e persino negli Stati Uniti...). Si potrebbe dire, ascoltando i vari brani, che la cosa gli venga quasi naturale, che nasca per assecondare l’incedere della musica.

Fra i titoli: ”Tra le tue braccia”, ”Jeeves”, ”Enfant prodige” (pensata inizialmente per un’interprete francese), ”Clown”, ”Nina”, ”Galosce selvagge”, ”Massaggiatrice”, ”Bodyguard for myself”... Piccole elegie malate di malinconica bellezza, che rifuggono l’autobiografia e preferiscono ”raccontare da fuori le persone e il mondo attorno”. E si permettono addirittura il lusso di citare il divertissement e il burlesque.

Tour in partenza il 28 ottobre da Baden Baden, in Germania, e approda a Milano, Teatro degli Arcimboldi, dal 9 al 13 novembre.



LENNON

Meglio godere della ripubblicazione, con la qualità garantita dalle tecnologie di oggi, di autentici capolavori della musica popolare, o crucciarsi per l’eterna speculazione commerciale originata dagli anniversari che il calendario propone?

Sia come sia, accogliamo i dischi ripubblicati per ricordare John Lennon (1940-1980), fra il 9 ottobre di quello che sarebbe stato il suo settantesimo compleanno e il trentennale della sua morte l’8 dicembre. La vedova Yoko Ono - la donna più odiata del rock: a lei viene addebitata la separazione dei Beatles - ha supervisionato tutto e ha messo il timbro. Innanzitutto su ”Gimme some truth”, ristampa di otto album classici della carriera solista di Lennon, rimasterizzati dai mix originali assieme a un team di ingegneri del suono nei leggendari studi londinesi di Abbey Road, ”casa musicale” dei Beatles nonchè titolo di un loro album, e nei newyorkesi Avatar.

«Mi auguro - ha detto Yoko - che questo programma di ripubblicazioni rimasterizzate possa aiutare ad avvicinare un nuovo pubblico più giovane all’incredibile musica di John. Attraverso la rimasterizzazione di 121 tracce che coprono la sua intera carriera solista, spero anche che quelli che hanno già familiarità con le sue opere possano trovare rinnovata ispirazione dalla sua incredibile dote di cantautore, musicista e cantante e dal suo potere di esprimersi sulla condizione umana. I suoi testi sono così importanti oggi, come lo furono allora quando vennero scritti per la prima volta».

L'iniziativa include una compilation di successi (cd e cd+dvd) intitolata ”Power to the people: the hits», che raccoglie quindici delle più popolari canzoni di John. ”John Lennon signature box” è invece un cofanetto di 11 cd in edizione limitata con gli otto album rimasterizzati (venduti anche singolarmente), un disco di brani rari e mai pubblicati e un ”ep” coi singoli mai inclusi su album.

Torna anche ”Double fantasy” in versione remixata. E i dubbi citati all’inizio scompaiono: questa è davvero musica per le orecchie e la mente...



NEIL YOUNG

Il rock deve tornare in cantina, recuperare i valori essenziali. Sembra il messaggio che il grande Neil Young affida al nuovo album. Che è un po’ il ritratto dell'atteggiamento da eroe solitario che da tempo l’artista ha nei confronti della musica e del mondo. Disco registrato in solitudine: otto brani, un paio acustici, tanta chitarra elettrica. La produzione è di Daniel Lanois, che lo ha convinto a rinunciare al progetto di un album acustico e a imbracciare l’elettrica. Ne è nato un distillato dell'idea che Young ha della musica: prima di tutto c'è la sua chitarra che lui suona in modo furibondo ovunque e comunque. Poi c'è la sfida ormai ultradecennale ad ampliare il confine tra suono e rumore (noise, appunto). «Questo disco - ha detto - mi ha dato la possibilità di esprimermi in un modo più diretto e personale rispetto a quando si lavora in modo tradizionale». Non a caso l’artista canadese è da almeno vent’anni un guru della scena alternativa, oltre che uno dei padrini riconosciuti del grunge.



ROBBIE WILLIAMS

Mentre per il 23 novembre è atteso l’album della ”reunion” con i Take That (s’intitolerà ”Progress”), Robbie Williams non si fa mancar nulla ed esce con questo doppio cd - sottotitolo ”Greatest hits 1990-2010” - che celebra vent’anni di carriera. Un piccolo monumento a se stesso, da parte di un interprete che ha venduto oltre 57 milioni di album, a cui vanno aggiunti undici milioni di singoli. Numeri che ne vanno il solista più venduto nella storia della musica inglese. L'uscita del disco è stata anticipata alla radio dal singolo ”Shame”, che vede la partecipazione di Gary Barlow, l'ex Take That con cui Robbie Williams non collaborava dal 1995, presente anche nel video che nella trama e nei luoghi ricorda il film ”Brokeback mountain”: la riconciliazione fra due amici, che è anche una provocazione di un artista che gioca sempre sull'ambiguità. La raccolta è pubblicata in versione standard (due cd), e deluxe (due cd più un cd con ”b-sides” e rarità). Fra i titoli: ”You know me”, ”Bodies”, ”Morning sun”, ”Lovelight”, ”Sin Sin Sin”, ”She’s the one”...

 
DORINA LEKA

Quando nel settembre del ’99 l’allora tredicenne Dorina Leka vinceva a mani basse il concorso ”Saranno famosi”, in piazza dell’Unità, sotto l’ala protettiva del padre Giorgio Argentin, pronosticarle un futuro di successo era esercizio sin troppo facile. La sorpresa, piuttosto, è che la ragazza ci abbia messo tanto tempo per far parlare di sé fuori dall’ambito locale.

L’occasione è arrivata con ”X Factor”, e anche la sua eliminazione, martedì notte, alla sesta puntata del ”talent show” di Raidue, non inficia le possibilità della talentuosa cantante triestina di origine albanese, con una bella famiglia di musicisti alle spalle, di afferrare il pezzo di successo che merita. Anzi.

Dei tre vincitori dell’edizione italiana di ”X Factor” (Aram Quartet, Matteo Beccucci, Marco Mengoni), finora solo quest’ultimo è stato premiato dal pubblico anche fuori dal loft. Ma è andata altrettanto bene anche a Giusy Ferreri, seconda nella prima edizione, e a Noemi, che nella seconda edizione non era arrivata nemmeno in finale. Proprio com’è successo quest’anno a Dorina. Che in sei serate, spaziando fra Tina Turner e Mia Martini, Gossip e Donna Summer, ha dimostrato un’indubbia grinta rock ma anche un’anima di interprete sensibile. Essere affidata ad Anna Tatangelo, personaggio musicalmente ai suoi antipodi, una volta superate le scintille iniziali, forse ha avuto persino un effetto positivo. Facendo tirar fuori alla ragazza l’immagine da interprete completa e la sensibilità nascosta dietro le boccacce rock delle prime puntate.

Dorina poteva tranquillamente vincere ”X Factor”, se i risultati non fossero affidati al meccanismo discutibilissimo ma onnipresente del televoto. Aveva - e ha - la personalità e le doti musicali e canore per mettere in fila i cantanti che sono rimasti in gara ma che fra un anno rischiano di essere dimenticati. Lei, la nostra triestina nata a Tirana, ha oggi tutte le carte in regola per non essere una meteora. E regalare finalmente alla città una protagonista della scena musicale nazionale.

domenica 10 ottobre 2010

SOLOMON BURKE +
"Tutti abbiamo bisogno di qualcuno da amare. Quando incontrate qualcuno, amate quella persona, tenetela stretta a voi...". Versi che sembrano un manifesto di vita, che Solomon Burke - morto ieri a settant’anni, ad Amsterdam - scrisse nella sua ”Everybody needs somebody to love”.
Brano del 1964, che molti conoscono nella versione esplosiva che ne diedero i Blues Brothers nell’omonimo film del 1980 (come dimenticare la scena finale con Elwood e Jake, ovvero Dan Aykroyd e John Belushi, che ballano e cantano davanti ai poliziotti...), ma del quale esistono anche versioni precedenti firmate da Wilson Pickett e persino dai Rolling Stones. Che non a caso hanno sempre detto di considerare Burke fra i propri modelli.
”The king of rock’n’soul” - così amava farsi chiamare, e nei concerti da tempo cantava seduto su una sorta di trono, anche a causa della mole notevole - era nato a Philadelphia il 21 marzo del 1940 (la leggenda vuole che il lieto evento fosse avvenuto al piano di sopra di una chiesa...), anche se alcune fonti spostano indietro di due o addirittura quattro anni l’anno di nascita. Come tanti artisti di colore, comincia la sua carriera come predicatore e cantante di gospel. Il suo primo pubblico fu dunque quello dei fedeli che ogni domenica affollavano la chiesa del suo quartiere anche per sentire la sua voce.
E come tanti cantanti gospel, il ragazzo comincia presto a flirtare con generi cosiddetti profani quali il soul, il blues, il rhythm’n’blues. La scalata al successo è lunga e faticosa. Nel ’65 Otis Redding canta la sua ”Down in the valley”. Nel ’66 è lo stesso Solomon che pubblica per l’Atlantic Records ”Just out of reach (Of my two open arms)”. In quegli anni firma altri successi, come ”Cry to me” e ”Don't give up on me”. Ciononostante, rimane sempre - diciamo così - in seconda fila rispetto a mostri sacri della musica nera come Ray Charles, Aretha Franklin, James Brown, Stevie Wonder, lo stesso Otis Redding.
La consacrazione arriva tardi. Nel 2001 viene ammesso alla Rock and Roll Home of Fame. Nel 2003 vince un Grammy per l’album «Don't give up on me», comprendente brani scritti appositamente per lui da Bob Dylan, Brian Wilson, Van Morrison, Elvis Costello e Tom Waits, che una volta lo definì ”uno degli architetti della musica americana”. Due anni fa aveva pubblicato ”Like a fire”, con brani fra gli altri di Eric Clapton e Ben Harper.
Solomon Burke lascia la bellezza di ventuno figli e novanta nipoti. Ha suonato fino all’ultimo, se è vero com’è vero che la morte lo ha colto all’aeroporto Schiphol di Amsterdam. Dove era atteso per un concerto domani sera, nell’ambito del suo tour europeo. In Italia era di casa, nella varie rassegne dedicate alla musica nera (Porretta, Pistoia, Umbria Jazz...), ma anche nei Concerti di Natale in Vaticano. Aveva duettato con Zucchero nel brano ”Diavolo in me”, compreso nel recente disco di duetti del cantante italiano. Una curiosità: quando non si dedicava alla musica, gestiva una ditta di pompe funebri. Era rimasto sempre molto religioso.

sabato 2 ottobre 2010

JANIS JOPLIN 40
Janis Joplin  fu la prima rockstar donna. E anche per questo il mondo la ricorda oggi, a quarant’anni dalla morte, avvenuta nella notte fra il 3 e il 4 ottobre 1970 in una stanza del Landmark Motor Hotel di Hollywood, California. Overdose. Mentre il mondo del rock stava ancora piangendo la morte di Jimi Hendrix, avvenuta due settimane prima a Londra.
L’ultima cosa che la cantante disse a un reporter, tale Al Aronwitz, fu che non amava più quel nome. «Sono stanca e stufa del nome Janis: chiamatemi Pearl». Che sarebbe diventato il titolo dell’album a cui stava lavorando in quell’inizio d’autunno di quarant’anni fa. Album che l’ex ragazza grassottella e brufolosa nata a Port Arthur, Texas («la mia prigione natale»), il 19 gennaio 1943, non avrebbe fatto in tempo a veder pubblicato. Perchè l’eroina se la portò via, in quella stanza d’albergo, consegnandola direttamente al mito. Forever young, per sempre giovane. Come tanti, troppi altri.
Per capire la sua importanza nella storia della musica popolare del Novecento, bisogna tornare a quella che era la scena musicale degli anni Sessanta. Una scena quasi completamente maschile, e se vogliamo pure maschilista, nella quale alle donne era sempre riservato un ruolo da comprimarie. Se non addirittura di ”groupies”, le disponibili fan che seguivano le tournèe dei loro idoli e ne allietavano i momenti liberi.
Pochissime le eccezioni. Joan Baez, Joni Mitchell, Carole King, Tina Turner (per la verità ancora impegnata a sfuggire alle grinfie e alle botte del marito-padrone Ike...), Grace Slick. E Janis Joplin, che ha vent’anni, quando nel ’63 molla la famiglia borghese e il Sud noioso e perbenista nel quale stava stretta e approda nella San Francisco della Beat Generation, del ”flower power”, del nascente nuovo rock americano. Fa in tempo a vedersi sfilare accanto la prima rivolta studentesca guidata dal mitico Mario Savio: 14 settembre del 1964, Berkeley, dicono che tutto sia cominciato da lì. Primi fuochi di un incendio che di lì a poco sarebbe divampato e avrebbe sconvolto il mondo.
Ma Janis ama la musica. La sua grande voce sporca di blues, assieme alla forte personalità, la pone subito su un gradino superiore rispetto agli altri. Il suo primo gruppo ”serio” è Big Brother and the Holding Company. Il primo album all’inizio non fa sfracelli e dovrà attendere il successo di là da venire per essere riscoperto e rivalutato.
Ma non bisogna attendere molto. In quello stesso Monterey Pop (tre giorni di festival nel giugno ’67) che consacra Jimi Hendrix, il popolo del rock si accorge anche di quella ragazza bianca, non bella, ma con la miglior voce nera che una bianca avesse mai osato esibire. Canta ”Ball and chain”, di Big Mama Thornton, e la versione che regala fa subito dimenticare l’originale.
Nel ’68 pubblica l’album ”Cheap thrill” (che comprende quella ”Piece of my heart” rimasta un classico del suo repertorio, ma anche un’intensa cover di "Summertime" di George Gershwin), lascia i Big Brother, forma la Kozmic Blues Band. Con cui nell’estate ’69 va a Woodstock, urla ”Try (just a little bit harder)” e diventa uno dei simboli della leggendaria ”tre giorni”.
Dicono che Woodstock fu l’inizio della fine di un movimento nato come opposizione alle logiche del consumismo e del capitalismo, che da quel momento fu fagogitato dalle stesse logiche, le stesse dinamiche, lo stesso sistema.
Di quel sistema Janis ormai è una star. Alternativa, ma pur sempre star. E sempre più inquieta. Alcol e droga diventano compagni abituali nella solitudine nella quale il successo tante volte spinge le personalità più fragili. Il suo acquisito status di ”prima rockstar al femminile” le permette anche di scrollarsi di dosso - a modo suo - i complessi maturati quando da ragazza, grassottella e brufolosa, come si diceva, non se la filava nessuno. E mentre il Village Voice la definisce ”un sex symbol in una brutta confezione”, lei in un’intervista confessa di aver fatto sesso sessantacinque volte, con partner diversi, durante un tour durato appena una settimana...
Cambia anche gli uomini del gruppo. La sua nuova formazione è The Full Tilt Boogie Band. Con loro, nel settembre del ’70, lavora a quel ”Pearl” di cui si diceva all’inizio. Album lasciato incompleto da Janis, pubblicato postumo nel ’71, il più venduto della sua carriera. Con dentro le classicissime ”Me and Bobby McGee”, di Kris Kristofferson, e ”Mercedes Benz”.
Dopo quella morte tragica e per tanti versi annunciata, Janis viene cremata al cimitero del Westwood Village Memorial Park di Westwood, California. Le ceneri vengono sparse lungo la costa di Maryn County, sull’Oceano Atlantico.
La musica, la voce, i dischi ma anche la personalità di Janis Joplin vengono invece consegnati direttamente al mito. E a distanza di quarant’anni dalla scomparsa, l’artista è tuttora un punto di riferimento imprescindibile per tutte le donne che cantano e suonano il rock.
Il cinema ha raccontato la sua storia già nel ’79, con quel ”The rose” che valse a Bette Midler una nomination all'Oscar per la miglior protagonista femminile. Una decina di anni fa il musical ”Love, Janis”, partito come produzione off, ben presto diventa un successo clamoroso, in cartellone a Broadway per diverse stagioni. E per il 2012 è annunciato un nuovo film: ci sono già il titolo, ”The gospel according to Janis”, e il nome della protagonista, la giovane Zooey Deschanel.
Chissà se a lei, a Pearl, tutto quel che è venuto dopo sarebbe piaciuto. O forse aveva ragione ancora una volta John Lennon, che proprio in quel 1970 cantava ”the dream is over”. Il sogno è finito. Appunto.