venerdì 27 febbraio 2004

Da anni, la forlives...

Da anni, la forlivese Carla Bissi, in arte Alice, vive buona parte del suo tempo in Friuli. E stasera il suo tour teatrale fa tappa proprio nella sua «regione d’adozione», con un concerto al Teatro Pasolini di Cervignano, che avrà inizio alle 21. Sarà uno spettacolo in buona parte dedicato al nuovo album realizzato dall’interprete di «Per Elisa» (primo posto al Sanremo dell’81), intitolato «Viaggio in Italia» e uscito nell’autunno scorso, a tre anni di distanza dal precedente «Personal juke-box».
Il viaggio in Italia di Alice, citazione di Goethe a parte, è in realtà un percorso emozionale fra alcune canzoni di alcuni dei più grandi autori italiani degli ultimi trenta o quarant’anni: da Fabrizio De André («Un blasfemo») a Ivano Fossati («Lindbergh» e «La bellezza stravagante», scritta apposta per lei ma già uscita in un suo disco), da Giorgio Gaber (la recente «Non insegnate ai bambini») a Francesco De Gregori («Atlantide»), da Francesco Guccini («Auschwitz») a Franco Battiato, fino alla coppia Lucio Battisti-Pasquale Panella («Cosa succederà alla ragazza»). Toccando anche i versi del friulano di Casarsa Pier Paolo Pasolini: «Febbraio» e «Al principe», musicati da Mino De Martino (ex Giganti). E persino del «triestino» James Joyce: «Golden hair», tratta da una poesia dello scrittore irlandese resa a suo tempo «psichedelica» da Syd Barrett. In inglese c’è anche «Islands», versi di Pete Sinfield, magica epopea dei King Crimson di Robert Fripp.
«All’inizio - ha spiegato Alice - volevamo fare un disco composto esclusivamente da canzoni tratte o ispirate da testi poetici, da brani letterari. Con il mio produttore Francesco Messina cercavamo scritti che mettessero in evidenza il valore essenziale della parole. Poi man mano il progetto è cambiato, e abbiamo deciso di concentrarci quasi esclusivamente sulla canzone d’autore italiana».
Ancora Alice: «Ho cercato la poesia nelle parole. Anche quando ascolto un disco, prima devo sentirlo così com’è, aspettando le emozioni che mi provoca. Poi cerco il significato delle parole. E queste canzoni sono quelle che meglio rappresentano, secondo me, la grande canzone italiana degli ultimi quarant’anni».
«L’idea da cui sono partita è che non dovevo emergere io, ma la canzone. Siamo partiti dalla voce, poi abbiamo lavorato sugli arrangiamenti. Ho cantato mettendomi a servizio della canzone, mi sono posta in modo diverso, cercando di entrare nello spirito della canzone stessa».

giovedì 26 febbraio 2004

�Ciao, sono Morandi....

«Ciao, sono Morandi...». Di solito quando vuoi intervistare un cantante, perchè ha fatto un disco nuovo o magari perchè viene in tournèe da queste parti, devi telefonare al suo ufficio stampa, chiedere appuntamenti, ritelefonare, richiedere... E più l’artista è - o crede di essere - famoso e importante, più la trafila può risultare lunga. Nel caso di Gianni Morandi da Monghidoro, Bologna, sessant’anni a dicembre, da una quarantina protagonista di primissimo piano della canzone e dello spettacolo italiani, il metodo è diverso: chiama lui. Semplice, spontaneo, disponibile, quasi amichevole, proprio come da tanto tempo appare al suo pubblico.
«Torno volentieri al Rossetti - dice l’artista, il cui tour fa tappa mercoledì 3 marzo al palasport di Udine, giovedì 4 e venerdì 5 al Politeama Rossetti di Trieste - con uno spettacolo teatrale che richiama un po’ quell’“Immagine Italiana” di quasi vent’anni fa. Poi a Trieste sono tornato altre volte, ma mai ripetendo quella formula, di cui avevo un po’ nostalgia...».
Uno spettacolo acustico?
«Sì, diciamo semiacustico: due soli musicisti in scena, un chitarrista e un tastierista, e in qualche punto una giovane cantante. Un po’ concerto e un po’ recital, con un filo che lega le canzoni: piccoli racconti, episodi, qualche riflessione... Io mi racconto parlando con me stesso attraverso un mio alter ego, Gianluigi, che poi è il mio vero nome, quello scritto sui documenti. Gianni è sempre stato il diminutivo...».
Dopo tanta televisione, torna ai teatri...
«Sì, avevo bisogno di un po’ di disintossicazione. Avevo fatto troppa tivù: “C’era un ragazzo”, Sanremo, lo show della Lotteria Italia... Mi sono imposto di dire no ad altre proposte, sia Rai che Mediaset, dalle Iene alla fiction, dalla conduzione di Sanremo ad altri speciali musicali».
La tv non le piace più?
«No, ne avevo fatta troppa. Poi è un fatto che la televisione generalista è molto cambiata negli ultimi tempi. Ci salva il satellite, le centinaia di canali tematici dove ognuno può trovare quel che vuole. I cantanti, poi, fanno fatica a essere invitati per cantare una canzone: o vai all’“Isola dei famosi” come Pappalardo, o partecipi a uno dei tanti “reality show”, oppure puoi anche stare a casa».
La Pivetti?
«Beh, il suo “Bisturi” è qualcosa che, fino a poco tempo fa, nessuno si sarebbe mai immaginato. L’ex terza carica dello Stato, poi... Incredibile. Il guaio dei “reality show” è che ognuno genera dieci imitazioni, e il livello è sempre più basso. Io me ne sto alla larga...».
Berlusconi?
«Un’ex presidente della Camera presenta operazioni di donne che si rifanno il seno. Un cantante è diventato premier oltre che padrone dei media. Diciamo che la situazione è perlomeno anomala. Mio padre, il vecchio ciabattino comunista di Monghidoro, se si svegliasse direbbe: ma in che mondo viviamo? Ma ne usciamo, ne usciamo...»
Sanremo?
«Non condivido la teoria secondo cui l’hanno fatto fare a Tony Renis perchè è amico di Berlusconi. Prima di lui l’avevano offerto a me, a Dalla e anche a Celentano. Poi organizzare il Festival è difficile, porta più grane che altro, e infatti ci hanno messo due mesi per convincerlo. In mezzo a una bufera giudiziaria, ci voleva un personaggio forte...».
Il suo Festival sarà un’americanata?
«Spero di no. Ha avuto il coraggio di puntare sui giovani, sui nomi nuovi. D’accordo che la Fimi (l’associazione delle maggiori case discografiche - ndr) ha dato forfait, ma ha comunque lasciato fuori alcuni nomi storici del Festival, da Al Bano a Reitano...».
Dunque...
«Dunque speriamo che Sanremo rimanga in piedi. La canzone italiana ne ha comunque bisogno. Noi cantanti dovremmo dire la nostra, mettere da parte gli individualismi, gli interessi di bottega. Per farne una grande vetrina internazionale. Invece ognuno pensa al suo orto».

mercoledì 25 febbraio 2004

L�Irlanda delle orig...

L’Irlanda delle origini, poi i Balcani, il Maghreb, il Sudafrica, ora il Chiapas e il Guatemala. I Modena City Ramblers - che venerdì alle 21.30 suonano al Deposito Giordani, a Pordenone - proseguono il loro viaggio che è anche un percorso musicale, e viceversa. «Viva la vida, muera la muerte» è il titolo del loro nuovo album.
«Quel titolo - spiega il cantante e chitarrista Stefano ”Cisco” Bellotti - è la frase con cui i rappresentanti delle comunità zapatiste del Chiapas chiudevano, un anno fa, quando eravamo laggiù, i loro formali e serissimi discorsi pubblici di benvenuto nei nostri riguardi. Una rivendicazione che dice già tutto: si nasce, si lavora e si lotta per la vita».
È un disco zapatista?
«No. A noi piace pensare che i cambiamenti possano avvenire senza rivoluzioni violente. Lì abbiamo imparato che al di là dei discorsi, delle professioni di militanza, degli slogan, contano i fatti e le utopie che hanno contribuito a realizzarli. Solo mettendosi in gioco per migliorare un poco la vita (propria e di chi vive con noi) si riuscirà a sconfiggere, per così dire, la morte».
Dall’Irlanda al Chiapas.
«Seguendo sempre il nostro percorso. Nel ’91 alcuni di noi erano delusi dalla propria storia musicale. In Irlanda avevamo scoperto un nuovo mondo, un modello di vita e di divertimento lontano anni luce dal nostro: musica acustica suonata ovunque, per strada, nei pub, di giorno e di notte... Lì c’erano i Dublin City Ramblers, i Cork City Ramblers... Al ritorno, noi abbiamo fatto i Modena City Ramblers».
Molti concerti, all’inizio...
«L’intensa attività dal vivo è sempre rimasta una costante. Il primo album arrivò nel ’94, ”Riportando tutto a casa”, che seguì all’ormai storico demotape ”Combat folk”, etichetta che è stata usata spesso per definirci: mischiavamo folk, appunto, a punk e canti della Resistenza italiana. Siamo sempre stati fieri delle nostre origini, fieri di portare la nostra emilianità, la nostra identità meticcia, mezza irlandese e mezza emiliana, in giro per il mondo».
Nell’Italia del 2004 vivete bene?
«Diciamo che si potrebbe star meglio. Abbiamo fiducia che, una volta toccato il fondo, non si possa far altro che risalire, anche se il vecchio Freak Antoni diceva che a quel punto c’è il rischio anche di doversi mettere a scavare... Noi siamo un gruppo resistente. Abbiamo sempre fatto quello in cui crediamo».
Sanremo?
«Ci hanno invitato un paio di volte, ma non ci andremo mai: è un baraccone ridicolo, sopravvalutato e al quale si dà troppa importanza. La vera musica italiana è altrove. E poi ogni anno, del Festival, non ricordi più di una o due canzoni. Abbiamo invece accettato di andare a Mantova, quando ci hanno spiegato che la rassegna non vuol essere soltanto un ControSanremo: saremo lì il 2 marzo, alla serata del Tora Tora Festival itinerante...».

martedì 24 febbraio 2004

...speriamo almeno c...

...speriamo almeno che vinca lo scudetto e perda le elezioni; il dramma sarebbe che avvenisse il contrario...

sabato 21 febbraio 2004

...come si può aver ...

...come si può aver fiducia in uno stato che dice di dar la caccia ai mafiosi, ma non si accorge nemmeno di pagare ogni mese, dal 1982, una pensione di invalidità a uno dei più temuti capobastone...

...berlusconi sente ...

...berlusconi sente che sul piano della politica sta perdendo la partita, e allora ora si ributta sull'antipolitica; non è stato capace di parlare al cervello e nemmeno al portafogli della gente, e allora si rivolge di nuovo alla pancia, rispolverando l'eterno argomento dei politici che sono tutti ladri...

Si presenta così: �M...

Si presenta così: «Mi chiamo Michele Salvemini e sono del Sud, di Molfetta per la precisione, e dal dialetto del mio paese ho preso spunto per il mio nome d'arte: Caparezza in molfettese significa infatti "testa riccia"...».
Il panorama della musica italiana in fondo è strano. Se il suo elettroencefalogramma non è ancora completamente piatto, popolato da cantautori che scrivono e cantano da oltre trent’anni sempre la stessa canzone (a volte più riuscita, a volte meno riuscita), beh, lo si deve proprio a personaggi folli e in qualche modo geniali come Caparezza, il cui tour fa tappa domani alle 21 al Deposito Giordani di Pordenone.
Caparezza è la prima, grande novità italiana del 2004. Che poi, novità... Nel ’97 con il nome di Miki Mix partecipò a un Sanremo Giovani: un insulso spaghetti-rap che non gli spalancò le porte del sole. E poi questo suo secondo disco, «Verità supposte», con il tormentone «Fuori dal tunnel», in realtà è uscito nel giugno dell’anno scorso: nei primi mesi ha venduto diecimila copie con il passaparola, è esploso solo a cavallo fra l’anno vecchio e l’anno nuovo, e ora è a quota sessantamila.
Ma andiamo per ordine. «Dopo Sanremo ero destinato a essere dimenticato in fretta - racconta Caparezza, classe 1973 - come peraltro il novanta per cento di quelli che vanno al Festival. La mia unica convinzione era di poter arrivare un giorno a fare ciò che volevo. Certi figuri della discografia mi avevano insegnato la politica del compromesso: un giorno potrai fare quello che vuoi, dicevano...».
Il giorno in cui poter fare quello che voleva, Michele Salvemini non l’ha aspettato nella Milano dove si era trasferito inizialmente per studiare da pubblicitario e dove un giorno si era trovato con un microfono in mano, introdotto nelle anticamere dello show business. No, se l’è andato a cercare nella sua Molfetta, dove per due anni ha fatto altro che credere ai discografici: si è fatto crescere i capelli (la «capa rezza»...), ha lavorato come animatorei nei villaggi turistici, continuando però sempre a scrivere canzoni.
«Il mio percorso artistico - spiega - si divide in tre fasi: quella inconsapevole, nella quale realizzavo dei demo ma li tenevo nascosti, quella consapevole, in cui ho fatto girare questi demo e sono finito a Sanremo come Miki Mix, quella del riposo che è stato anche frustrazione. Me ne ero tornato al paese ma non volevo lasciare al pubblico quell’immagine che non era la mia...».
«Volevo essere libero, libero di comporre, di esprimermi. La libertà è oggi la mia forza e nel contempo la mia debolezza, perché mi spinge al di fuori dei generi, delle correnti, dei movimenti. Io fatico a stare dietro alle cose, a comprenderle. È per questo che scrivo, per fissare dei punti a cui ancorarmi, per non perdermi. Tutto ciò che faccio mi rappresenta, soprattutto gli errori commessi in passato, poiché da questi proviene la spinta che mi incoraggia quotidianamente».
Ecco allora nel ’99 i demo «Ricomincio da capa» e «Zappa» («inteso come attrezzo - precisa - Zappa il musicista, il genio incontrastato e inarrivabile, l’ho approfondito solo recentemente...»), la trasformazione in Caparezza, il contratto con la Extra Labels che pubblica il suo primo album, intitolato «?!». Il resto è storia di queste ultime settimane, con il secondo album esploso... a scoppio ritardato.
«L’album - dice Caparezza - è una raccolta di paradossi. E la mia speranza è quella di non finire vittima proprio di questi paradossi. Mi spiego. In ”Fuori dal tunnel” critico il divertimento a tutti i costi, dico ”quando esco di casa e mi annoio, sono molto contento...”. Ecco, io critico certo modo di divertirsi, certi ambienti, che poi sono quelli che hanno spinto il disco e l’hanno portato al successo. Forse equivocandone, o solo non comprendendone il significato. A volte mi sento come l’autore di una canzone che viene usata al congresso di un partito di tutt’altra parte politica...».
«Lo spettacolo che stiamo portando in giro - conclude Caparezza -, fra l’altro con musicisti tutti di Molfetta, è molto teatrale, molto energico. C’è molto Sud nella mia musica, in me stesso. Io vedo tutto dall’osservatorio di Molfetta, dove sono tornato a vivere: una cittadina di sessantamila abitanti, dalla quale è più facile notare i paradossi...».

giovedì 19 febbraio 2004

La storia siamo noi,...

La storia siamo noi, nessuno si senta escluso... Il verso di De Gregori starebbe bene a mo’ di sigla della «Storia fotografica della società italiana», diretta da Giovanni De Luca e Diego Mormorio, attraverso la quale gli Editori Riuniti hanno inteso ripercorrere per immagini - ma non solo - il periodo tra il 1848 e il 1998, come dire dal Risorgimento ai giorni nostri.
Gli ultimi tre volumi sono dedicati agli anni del nostro passato più recente: «Gli anni ribelli 1968-1980» di Tano D’Amico, «Il mito del benessere 1981-1989» di Manuela Fugenzi, «L’Italia di fine secolo 1990-1998» di Dario Lanzardo.
Fotografie rigorosamente in bianco e nero, persone, volti, espressioni, guardando le quali la storia italiana dell’ultima parte di Novecento ci scorre davanti, come in un film, come in un servizio giornalistico della Rai del tempo che fu. E ci parla di un Paese che è cambiato al punto da essere ormai quasi irriconoscibile. Una storia che prende forma attraverso fatti politici, vicende sociali, mutamenti del costume, quotidianità solo apparentemente minore. La storia siamo noi, appunto...
Il primo volume parte - per parole e per immagini - dal rapporto fra la generazione dei '68 e la politica. «La generazione del '68 - scrive Giovanni De Luna nell’introduzione ”Interpretazioni della rivolta” - legò la propria concezione della politica e la propria identità collettiva a due elementi specifici: la crucialità del conflitto come ambito della propria legittimazione; la definizione del proprio apparato concettuale esclusivamente sul terreno della pratica».
Ecco un’immagine degli storici scontri fra polizia e studenti a Valle Giulia, nel ’68. Nello stesso anno la contestazione alla Biennale d’Arte, con Ungaretti che saluta i contestatori in piazza San Marco (scatti di Gianni Berengo Gardin). E poi le tante manifestazioni studentesche, le prime lotte delle donne a Roma, nel ’70. L’Università di Roma occupata nel ’77. Una manifestazione operaia a Torino nell’80... E poi le femministe, i raduni pop, gli indiani metropolitani, gli autonomi, la pitrentotto... Ma anche braccianti, operai, emigranti, manicomi (anche quello di Gorizia), povera gente.
La politica è presente con i volti di Nenni, Fanfani, Leone, Saragat, Berlinguer, Pertini... E Moro, di cui non può mancare la storica, agghiacciante, pietosa immagine della Renault rossa. Via Caetani. Nove maggio 1978, dopo cinquantaquattro giorni di prigionia seguiti all’agguato di via Fani...
Il secondo volume è dedicato agli anni Ottanta, quelli del «rampantismo», dell’edonismo, dei soldi facili, della corruzione diffusa. Craxi in mille salse, De Mita con le gemelle triestine Gessi in versione ragazze-sandwich della Democrazia Cristiana, Raffaella Carrà in un salotto televisivo con l’eterno Andreotti, Benigni che prende in braccio Berlinguer, De Michelis che sgomita in discoteca... Ma anche Cossiga presidente, un giovane Bossi a un raduno della Lega a Pontida, Calvi, Sindona con tazzina di caffè, Gelli, le stragi di mafia, i processi per terrorismo, Maradona a Napoli, il caso Tortora, la droga...
Con «L’Italia di fine secolo» siamo a ieri. «Nell’ultimo decennio del ventesimo secolo - scrive Dario Lanzardo - la società italiana ha registrato cambiamenti nel campo della politica e dell’economia superiori, per quantià e qualità, a quelli avvenuti nei quarant’anni successivi alle prime elezioni democratiche del ’48...».
Sfilano allora Berlusconi e Prodi, Di Pietro e Mario Chiesa, Scalfaro e Ciampi, D’Alema e di nuovo Bossi. E poi la televisione, il disagio sociale, l’emarginazione, il volontariato, l’euro... Neanche a farlo apposta, una delle ultime immagini del volume - e dunque dell’opera - ritrae Marco Pantani che taglia da vincitore il traguardo del Tour de France nel ’98. Storia d’Italia anche lui, da declinare al passato.

sabato 14 febbraio 2004

E' vero che dalle fi...

E' vero che dalle finestre
non riusciamo a vedere la luce
perché la notte vince sempre sul giorno
e la notte sangue non ne produce,
è vero che la nostra aria
diventa sempre più ragazzina
e si fa correre dietro
lungo le strade senza uscita,
è vero che non riusciamo a parlare
e che parliamo sempre troppo.

E' vero che sputiamo per terra
quando vediamo passare un gobbo,
un tredici o un ubriaco
o quando non vogliamo incrinare
il meraviglioso equilibrio
di un'obesità senza fine,
di una felicità senza peso.
E' vero che non vogliamo pagare
la colpa di non avere colpe
e che preferiamo morire
piuttosto che abbassare la faccia, è vero
cerchiamo l'amore sempre
nelle braccia sbagliate.

E' vero che non vogliamo cambiare
il nostro inverno in estate,
è vero che i poeti ci fanno paura
perché i poeti accarezzano troppo le gobbe,
amano l'odore delle armi
e odiano la fine della giornata.
Perché i poeti aprono sempre la loro finestra
anche se noi diciamo che è
una finestra sbagliata.

E' vero che non ci capiamo,
che non parliamo mai
in due la stessa lingua,
e abbiamo paura del buio e anche della luce, è vero
che abbiamo tanto da fare
e non facciamo mai niente.
E' vero che spesso la strada ci sembra un inferno
e una voce in cui non riusciamo a stare insieme,
dove non riconosciamo mai i nostri fratelli,
è vero che beviamo il sangue dei nostri padri,
che odiamo tutte le nostre donne
e tutti i nostri amici.

Ma ho visto anche degli zingari felici
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

Ma HO VISTO ANCHE DEGLI ZINGARI FELICI
corrersi dietro, far l'amore
e rotolarsi per terra,
ho visto anche degli zingari felici
in Piazza Maggiore
ubriacarsi di luna, di vendetta e di guerra.

(claudiololli, 1976)

venerdì 13 febbraio 2004

Quindici musicisti, ...

Quindici musicisti, undici paesi, tre continenti, otto lingue. È l’Orchestra di Piazza Vittorio, che stasera alle 21 suona al Teatro Miela, a Trieste, nell’ambito della rassegna «S/paesati». La dirige Mario Tronco, pianista e tastierista degli Avion Travel, che da un anno e mezzo si è buttato anima e corpo in questo nuovo progetto.
«Tutto è cominciato - spiega Tronco - quando mi sono trasferito in piazza Vittorio, nel rione Esquilino, che è il rione di Roma che ha il maggior numero di extracomunitari residenti. Lì ho scoperto che molte di queste persone suonavano qualche strumento. Con gli amici di Apollo 11, un’associazione di quartiere nata originariamente per salvare il vecchio Cinema Apollo che rischiava di diventare una sala bingo, pensavamo in un primo tempo a un censimento. Ma era una cosa difficile, e forse lo dovrebbe fare il Comune, e allora abbiamo pensato a un’orchestra».
«L’idea - prosegue Mario Tronco, che nell’orchestra ha tenuto per sé direzione e arrangiamenti - è stata accolta con un certo entusiasmo. Abbiamo debuttato nel novembre del 2002 al RomaEuropa Festival, riscuotendo interesse e successo. L’estate scorsa abbiamo fatto quaranta concerti, che è decisamente tanto, non avendo un disco o una promozione di una casa discografica. Il disco comunque è in arrivo: esce ad aprile. Mischierà musiche originali e brani delle tradizione popolare dei paesi dei vari componenti dell’orchestra, che via via si fondono. Lo stesso repertorio dei nostri concerti...».
La formazione merita di essere presentata: Houcine Ataa (Tunisia, voce), Rahis Bahrti/Amrit Hussain (India, tabla), Mohammed Bilal (India, armonium, castagnette, voce), Peppe D’Argenzio (Italia, sax), Omar Lopez Valle (Cuba, tromba), John Maida (Stati Uniti, violino), Abdel Majid Karam (Marocco, violino Andaluso, gambrì), Gaia Orsoni (Italia, viola), Carlos Paz (Ecuador, flauto andino, chitarra, voce), Pino Pecorelli (Italia, contrabasso), Eszter Nagypal (Ungheria, violoncello), Raul Scebba (Argentina, percussioni), Marian Serban (Romania, cymbalon), El Hadji Yeri Samb (Senegal, percussioni), Ziad Trabelsi (Tunisia, oud, voce).
«I cortili sono sempre stati una mia passione - racconta ancora Tronco - il rumore dei piatti all'ora di cena, le risate dei bambini, i pianti dei neonati, i desolanti colpi di tosse dei vecchi, le irriverenti radio delle ragazzine, e per fortuna a volte anche il silenzio... Ma c'è una cosa che rende unico, almeno per Roma, il suono del mio cortile. L'Esquilino è forse l'unico quartiere della città dove gli italiani sono minoranza etnica, tutto il mondo attraversa e vive la piazza. L'unicità del suono del mio cortile è la sua lingua. Dalla voglia di riprodurre in forma di concerto questo suono è nata l'idea di un’orchestra multiculturale».
Musicisti come testimonianza di musiche, culture e religioni diverse. Musica come strumento di integrazione. In un quartiere di immigrati. A Roma. Per un esempio da seguire.

giovedì 12 febbraio 2004

Lui si chiama France...

Lui si chiama Francesco Di Gesù, ha trentacinque anni, è nato a Torino ma è cresciuto fra Caserta e Città di Castello e da qualche anno vive a Cremona. Per tutti è Frankie Hi-Nrg Mc, laddove Hi sta per alta (high), Nrg significa energia (energy), mentre Mc è la sigla che identifica i «parolieri» del rap. Con «Ero un autarchico», il disco pubblicato nell’ottobre scorso, che sta portando in giro nel tour che domani alle 21 fa tappa a Pordenone, al Deposito Giordani, ha rotto un silenzio discografico che durava da sei anni. «La morte dei miracoli», il suo secondo album, era infatti uscito nel ’97, vendendo oltre 150 mila copie.
«Il disco - spiega Frankie - è nato nell’ultimo anno e mezzo, ma raccoglie esperienze fatte in un periodo più lungo. È un lavoro che si avvicina di più al mio primo album (”Verba manent”, pubblicato nel ’92, dopo il debutto avvenuto l’anno precedente con il singolo ”Fight da Faida” - ndr), che al secondo, caratterizzato da una certa pesantezza che credo di essermi lasciato alle spalle».
«Una pesantezza, una negatività personale che riflettevano analoghe situazioni sociali. Io scrivo più volentieri quando sono di buon umore, non credo tanto allo stereotipo dell’artista che dà il meglio quando soffre, quando si macera. Una certa leggerezza d’animo mi permette anche di avere quello sguardo ironico-sarcastico che è la chiave di lettura che preferisco, quando faccio musica».
«Perchè autarchico? Attraverso la citazione del vecchio film di Nanni Moretti ho espresso quella che per me è una vera e propria esigenza di vita: poter cioè interpretare le cose che accadono, che vedo, che penso, un po’ come voglio io...».
Tre dischi in dodici anni di carriera possono sembrar pochi. Ma in questo periodo Frankie Hi-Nrg Mc ha fatto un sacco di cose. Autore, produttore, persino regista di video per gente come Elisa, Tiromancino, Pacifico, Franco Califano, Banda Osiris, Flaminio Maphia... Aggiungi alla lista le ormai «antiche» collaborazioni con Vittorio Gassman (colonna sonora dello spettacolo «Camper», nel ’93) e Michael Brecker («La cattura», nel ’95), e hai la percezione del ruolo di questo artista nel panorama musicale italiano.
«Il problema - prosegue Frankie - è che l’industria discografica tende ormai sempre più ad abbandonare i progetti di qualità, che stentano dunque a trovare una propria collocazione. Si sceglie in virtù di non so quale saggezza e spesso di scelgono, promuovendole e pubblicandole, cose brutte. Perchè è vero che a volte i prodotti di scarsa qualità vendono, ma è anche vero che sempre più spesso certe cose, oltre a esser brutte, non riescono nemmeno a vendere. Si va a mode, quella delle boy band, quella dell’artista dance di un certo tipo... Non c’è più la libertà di sperimentare».
«L’hip hop italiano? Esiste, ci sono realtà nuove che prima o poi emergeranno, come i friulani Amari: originali, pieni di idee... Sanremo? Non ci andrei mai perchè non sopporto che la mia musica sia in competizione. Ma sono contento che quest’anno ci siano i miei amici Pacifico e Paola Cortellesi. Il Festival - conclude - rimane un’opportunità per farsi conoscere da milioni di persone. E grazie al boicottaggio della Fimi, quest’anno tale opportunità verrà data ad alcuni nomi giovani o comunque fuori dal solito giro...».

martedì 10 febbraio 2004

Nella lista dei vinc...

Nella lista dei vincitori dei Grammy, gli Oscar della musica, potete trovar di tutto. Persino, com’è avvenuto quest'anno, i nomi di Sophia Loren, Bill Clinton e Mikhail Gorbaciov (per un'edizione di «Pierino e il lupo» di Prokofiev, miglior album per bambini con voci narranti). Non pretendete però di trovare la miglior musica del pianeta...
Alla stessa maniera in cui gli Oscar veri, quelli del cinema, raramente premiano i migliori film dell’anno, catalizzando piuttosto nomination e statuette sulle «più importanti operazioni cinematografiche della stagione», anche questi premi - che col passar degli anni si sono ritagliati uno spazio importante nel panorama dello show business innanzitutto americano - il più delle volte regalano onori e visibilità ai prodotti su cui punta la disastrata industria discografica anglosassone.
Esistono le eccezioni. Come quella che l’anno scorso ha incoronato la giovanissima e talentuosa Norah Jones. Ma due eccezioni di fila rischiano di diventare regola, dunque... Dunque quest’anno si vola più basso, con ori e onori soprattutto a Beyoncé e agli OutKast. L’ex Destiny Child ha ventidue anni, è bella e sexy come una top model, ha una voce di tutto rispetto, canta cosine facili facili che facilmente restano in testa: insomma, il prodotto giusto - secondo i cervelloni della major - per portare a casa dollari a palate. Funziona, come funziona lo scatenato duo del cantante Andre 3000 che mischia rap, ironia e ritornelli accattivanti. Ma non c’è paragone col pop di Coldplay ed Evanescence. Premiati forse in rappresentanza dei tanti artisti di razza, vecchi e nuovi, che ai Grammy non arriveranno mai...

sabato 7 febbraio 2004

...è in corso una mi...

...è in corso una micidiale guerra fra chi non fa governare e chi non sa fare opposizione... (vignetta di giuliano - repubblica)

Ripartire, quasi rin...

Ripartire, quasi rinascere, di certo riscoprire la vita e i suoi valori andando in Africa. È successo a Roberto Vecchioni, cantautore storico con una trentina di album alle spalle, di cui esce oggi il nuovo disco intitolato «Rotary Club of Malindi».
«Il titolo nasce dall’immagine che ho fatto riprodurre in copertina - spiega il cantautore, milanese di origini napoletane, sessantuno anni - di una incredibile fermata d’autobus che ho visto in Kenya: quella scritta faceva a pugni con la realtà fatiscente che vi stava attorno, con la povera gente del luogo che aspettava l’autobus, con il degrado della zona...».
Vecchioni è stato in Africa quattro volte, a partire dal dicembre 2002. Era reduce da un periodo molto negativo, un periodo nero seguito a un’operazione chirurgica che fortunatamente era andata bene ma che lo aveva lasciato quasi tramortito. Senza più voglia di far nulla. Nemmeno scrivere. E lì, a contatto con un mondo ancora poverissimo, ha riscoperto il valore delle piccole cose e anche la voglia di scrivere nuove canzoni.
«La forbice fra il ricco mondo occidentale e la povertà del terzo mondo - dice l’artista - si è purtroppo allargata negli ultimi anni. L’Occidente sta vivendo una sorta di deflagrazione interna: abbiamo perso il senso dei valori, dell’amicizia, delle parole, dell’amore vero, che è innanzitutto l’amore verso gli altri. La prima volta che sono andato in Africa mi sono sentito una piccola banalità di questo Occidente senza più anima. Vivendo per dei periodi laggiù, viaggiando, parlando con le persone, mi sono accorto di nuovo dell’importanza delle cose che contano. Ho riso delle mie paturnie occidentali di uomo senza più voglie né stimoli. Diciamo che ho quasi rifatto amicizia con il mio mondo e il mio tempo».
L’Africa è dunque l'ispirazione primaria di questo nuovo lavoro, un viaggio che diventa una sorta di percorso interiore e che approda così «a un senso ritrovato, a un mistero finalmente svelato dalle parole sagge di un vecchio pescatore: che niente conta, né gli scogli, né le barche, né i delfini, né le luci dalla riva, né le stelle e nemmeno per assurdo i pensieri. Conta solo il mare».
Dinanzi a questa «semplice rivelazione», risultano quasi comici «tutti i sogni di potere, di sopraffazione, di superiorità civile del mondo occidentale e sempre più risibili gli affarucci italioti e tutte le minute avventure di chi si prende troppo sul serio».
Un brano del disco che farà discutere è «Marika», la confessione di una terrorista che sta per farsi saltare in aria. «Non è una canzone politica - spiega l’autore - volevo solo raccontare la storia di una donna, la sua disperazione divisa fra due fuochi: la voglia di vivere e l’amore per la sua terra, rappresentato dall’incoraggiamento dei compagni che la spingono a quel gesto».
A Watamu, un paesino a quaranta chilometri da Malindi («che è un posto orribile»), in Kenya, Vecchioni ha anche appena comprato una piccola casa. Approfittando forse del suo nuovo status di pensionato. «Sì, sono in pensione dal primo gennaio, anche se già da tre anni avevo abbandonato il liceo dove ho insegnato per tanto tempo per un incarico che avevo alla facoltà di Scienze della comunicazione, a Torino. Ma state tranquilli: non ho nessuna voglia di fare il pensionato. Insegnare mi piace troppo. Ho già avuto almeno quattro proposte interessanti da altrettante università e almeno una, probabilmente quella che mi è arrivata da Teramo, penso di accettarla».
«Rotary Club of Malindi» è prodotto da Mauro Pagani e si avvale della collaborazione di Max Gabanizza al basso, Joe Damiani alla batteria e percussioni, Giorgio Cordini alla chitarra, Mauro di Domenico alla chitarra classica, Eros Cristiani alle tastiere, Claudio Pascoli al sax, Marco Brioschi alla tromba e Edodea Ensable agli archi. Dal 9 marzo Vecchioni sarà di nuovo in tour (con tappa anche a Trieste, il 5 aprile al Rossetti, e il 7 a Udine, al «Nuovo»).
L’8 aprile esce invece per Einaudi «Il libraio di Selinunte», un racconto breve che ha lo stesso titolo di una canzone del disco: «È la stessa storia - conclude Vecchioni - che avevo voglia di sviluppare. La canzone è completa nella sua forma. Ma avevo voglia di raccontarla meglio. Ne è venuto fuori un racconto di settanta pagine».

All'età di 64 anni è...

All'età di 64 anni è morto a Milano Ricky Maiocchi, che negli anni Sessanta portò al successo con i Camaleonti ma anche come solista numerose canzoni. Da qualche tempo era ammalato, l’altro ieri è stato colto da una crisi ed è morto al Policlinico di Milano assistito dalla moglie Rosanna.

Era il ’66. Dall’Inghilterra arrivava l’eco del successo planetario di Beatles e Rolling Stones. Che da noi aveva generato il fenomeno Rokes, il cosiddetto beat italiano, le cover (anche se allora non si chiamavano ancora così...) di successi inglesi e americani cantati nella nostra lingua. Quell’anno Mogol e Battisti scrissero per Ricky Maiocchi «Uno in più», che divenne - oltre che un immediato, grande successo - una sorta di inno dei giovani dell’epoca. E che rimane tuttora la canzone più rappresentativa della sua carriera.
Che però non si è limitata a quel brano. Milanese, classe 1940, Riccardo Maiocchi debutta poco più che adolescente suonando la chitarra e cantando al Santa Tecla (storico locale meneghino) e nelle balere lombarde e piemontesi. Nel ’64 debutto discografico con «La tua vera personalità», che però passa quasi inosservata. L’anno dopo va al Cantagiro con «Non dite a mia madre», versione italiana della leggendaria «The house of the rising sun». Lì incontra i Camaleonti, che si erano appena formati e cercavano un cantante. Entra nell’organico ma vi rimane poco, sostituito da Tonino Cripezzi. Fa in tempo comunque a firmare due successi: «Sha-la-la-la-la» (versione del quasi omonimo brano degli Small Faces) e «Chiedi chiedi».
Un anno dopo la citata affermazione da solista con «Uno in più», Maiocchi è a Sanremo - in coppia con Marianne Faithfull, allora fidanzata di Mick Jagger - con un altro brano di Mogol e Battisti, «C’è chi spera»: non arriva in finale ma incontra ancora il favore dei giovanissimi. Non c’è due senza tre: nel ’67, sempre firmato dalla «premiata ditta», arriva il brano «Prendi fra le mani la testa». In quegli anni conosce a Londra anche Ritchie Blackmore dei Deep Purple e Jimi Hendrix.
Fino a quel momento il «capellone» Maiocchi è considerato quasi un uomo-simbolo della contestazione giovanile allora nascente. Mal consigliato, e forse soggetto al ricatto di chi gli garantisce ingaggi discografici e di serate dal vivo, accetta una specie di «svolta melodica». Prima con una discutibile versione di «Ma l’amore no» (disertata sia dai giovani che dal pubblico adulto) e poi, nel ’68, con un brano intitolato «Il re della solitudine».
A quel punto la storia di Ricky Maiocchi può considerarsi conclusa. Negli anni Settanta incide altri dischi che non lasciano traccia. Negli anni Ottanta lo ritroviamo in qualche programma televisivo sul revival degli anni Sessanta. Poi eviterà anche quelli. Fino alla malattia che se l’è portato via ancora giovane.

mercoledì 4 febbraio 2004

�Per anni, persone s...

«Per anni, persone sconosciute che incrociavo mi hanno chiesto perchè non mi
vestissi più di bianco e che fine avesse fatto Flavio Giurato», scrive Carlo
Massarini, oltre vent’anni fa conduttore di «Mister Fantasy», nella
prefazione del libro+cd «Il tuffatore» (collana Contagi, edizioni No Reply).
Lo stesso titolo del disco più bello e geniale del cinquantacinquenne
cantautore romano, fratello minore dell’insostenibile Luca, pubblicato nel
lontano 1982. Con «Per futili motivi» e «Marco Polo», all’epoca completava
una trilogia sufficiente a far diventare Flavio Giurato un artista di culto
per una ristretta ma fedelissima schiera di estimatori, insufficiente per
regalare all’artista il posto che meritava - e forse tuttora merita - nel
mondo della nostra miglior canzone d’autore.
Sul crinale perigliosissimo che divide genialità creativa e follia
visionaria, Giurato ha scritto quella volta canzoni bellissime e struggenti,
non riconducibili a nessun filone, a nessuna scuola musicale né
cantautorale, e forse proprio per questo capaci di mantenere tuttora intatta
una loro attualità fuori del tempo e ovviamente delle mode. Canzoni ricche
di piccole frasi indimenticabili.
Le delusioni sono unite dalla ferrovia. Una donna alta non è mai banale,
sarà per lo sguardo necessariamente superiore. Tu sei nel mio cuore dal
torneo di Orbetello, quando ha libecciato e non si è giocato. Io dico che le
spade te le lasciano per strada, non per maleducazione ma per farti
ricordare il fratello di un amico. La mia discutibile malinconia ha bisogno
di musica e poesia. Figliola non andare coi cantautori, che poi finisci
nelle canzoni. Fino al capolavoro: Volevo essere un tuffatore, per rinascere
ogni volta dall’acqua all’aria.
In tutti questi anni Flavio Giurato è sparito, ha fatto altre cose. Ma ha
scritto anche nuove canzoni, ogni tanto ha tenuto qualche concerto. Ora
torna, dopo il riconoscimento alla carriera all’ultimo Premio Ciampi, con
questo libro - che esce il 15 febbraio - fatto di racconti, opinioni,
divagazioni, piccole storie su di lui e sul suo mondo scritti da Aldo Nove,
Tiziano Scarpa e altra, molto varia umanità.
Allegato anche uno spartanissimo cd, registrato dal vivo, rigorosamente
chitarra e voce, che comprende misconosciuti capolavori di ieri
(«Valterchiari», «Simone», «Marcia nuziale», «Mauro», «Aquile e corvi», «Il
tuffatore»...) e cose più recenti («Il caso Nesta», «L’ufficialino», «Silvia
Baraldini»...).
Ascoltandolo, o visitando il sito www.flaviogiurato.3000.it (dove si possono
ascoltare «L’ufficialino» e l’inedita «Ustica»), si ha la conferma della
geniale follia di Giurato. Ma anche della miopia dell’industria discografica
italiana. Oggi forse è troppo tardi, ma vent’anni fa questo spilungone nato
nel ’49, mezzo cantautore e mezzo atleta, aveva probabilmente tutte le carte
in regola per scrivere altre pagine originali e importanti della miglior
canzone d’autore di casa nostra.
Se non è successo, lo si deve sicuramente alle caratteristiche di un
personaggio difficilissimo da imbrigliare, «generalmente antidivo e
naturalmente antimercato», come scrive Massarini, ma anche all’incapacità
della discografia di uscire dai rassicuranti binari del già sentito e di
esplorare il nuovo.

domenica 1 febbraio 2004

Di Sanremo dice che ...

Di Sanremo dice che «non va maltrattato, perchè ha un ruolo importante nella storia della musica italiana: dunque non va ridotto a una passerella promozionale». Di questo suo nuovo disco, intitolato «Stato di calma apparente», sottolinea che «non si tratta del solito ’best’: non ho messo tutte le mie canzoni più popolari, ma quelle che hanno segnato maggiormente la mia storia». Di Adriano Sofri, cui è ispirato il brano «Il gigante» (uno dei due inediti del cd), ricorda «la grande dignità e intelligenza, quasi la luce che emana dalla sua persona, e che rende radioso anche un luogo lugubre come la sua cella in carcere».
Paola Turci - dolce e grintosa, romantica e a tratti quasi rabbiosa - parla a ruota libera, in occasione della pubblicazione del suo nuovo disco, «registrato in presa diretta, dal 10 al 12 dicembre scorsi, al Forum Music Village di Roma, per restituire anche a chi ascolta parte dell’energia e dell’intensità di un concerto dal vivo».
«Il titolo che ho scelto per la raccolta - prosegue la Turci, nata a Roma nel ’64 - è lo stesso di una mia canzone di una decina d’anni fa. Una canzone e un titolo che resistono al tempo, anche perchè la calma è una dote che è sempre bene mantenere, ma è indubbio che in tempi come questi finisce per mascherare qualcosa che spesso rimane sotto la superficie: preoccupazione, indignazione, voglia di dire no...».
«Sofri? L’ho conosciuto nel ’91 a Roma, in un locale, a una manifestazione organizzata mentre lui era ancora in attesa di una sentenza. Ci siamo messi a parlare, poi siamo rimasti in contatto, sono andata a trovarlo qualche volta nel carcere di Pisa. Vederlo lì da un lato mi ha fatto star male, dall’altro devo dire che è proprio la sua estrema dignità che consola il suo interlocutore. Adriano, che fra l’altro ho scoperto essere nato a Trieste, conserva una grande capacità di rimanere sempre e comunque e dovunque una persona libera. Libera dentro. Anche dinanzi a chi abusa del potere».
Dopo alcuni anni trascorsi a Milano, Paola Turci è tornata da poco a vivere nella sua Roma. Qui, nelle atmosfere e nei luoghi e fra le persone a lei più familiari, ha pensato e realizzato questo disco, che giunge alla vigilia del ventennale della sua carriera. Carriera cominciata proprio a Sanremo, nell’86, con «L’uomo di ieri», canzone bocciata dalle giurie e premiata dalla critica.
«Rimango legata al Festival - conclude Paola Turci - al quale devo molto e dove sono tornata sempre volentieri. Per questo rimango perplessa dinanzi a operazioni che rischiano di stravolgerlo. A Sanremo si sono fatti conoscere, per restare agli anni recenti, artisti come Vasco Rossi, Eros Ramazzotti, Carmen Consoli, lo stesso Daniele Silvestri: non si può ridurre a un’operazione per fare promozione o raccogliere pubblicità...».