martedì 24 luglio 2007

Lucio Dalla? Non si fa mancar nulla. Stasera è a Palermo per accompagnare ancora una volta la sua opera «Tosca, amore disperato», domani arriva nel Friuli Venezia Giulia per un concerto a Grado (alla Diga Nazario Sauro, inizio alle 21.30), sabato va a Cipro, lunedì ad Atene, poi lo aspettano l’8 agosto al San Paolo di Napoli con Gilberto Gil.

Aggiungi che tre settimane fa è uscito il suo nuovo album «Il contrario di me», a quattro anni dal precedente lavoro in studio. Che è tornato da poco da Dublino, dove ha curato la regia di «Pulcinella» e «Arlecchino», dalle rispettive opere di Stravinskij e Busoni. Che nei momenti liberi (ma quali...?) ha ripreso a suonare «seriamente» il jazz. Che sta lavorando al suo allestimento di «Beggar’s Opera», atteso al debutto il 20 marzo 2008 al Comunale di Bologna. E che farà delle colonne sonore per dei film-tv su Raiuno. Insomma, a sessantaquattro anni l’artista bolognese non molla. Anzi...

Dalla, i Beatles con «When I’m sixty-four» identificavano la sua attuale età come quella dei remi in barca...

«Altri tempi. Io ho la fortuna di continuare a fare le cose che mi piacciono, che mi interessano, che mi incuriosiscono. E poi devo confessare che mi guardo allo specchio più adesso di quando avevo vent’anni. E la cosa incredibile è che mi trovo più fico adesso...».

Il nuovo disco com’è nato?

«Nei ritagli di tempo, tra regie teatrali e operistiche, fra concerti pop e lezioni universitarie (Dalla insegna da anni alla facoltà di sociologia a Urbino - ndr), fra colonne sonore e improvvisazioni jazz. Prendendo spunto dal mondo che mi sta attorno, dagli incontri che faccio, ascoltando insomma la gente...».

Qualcuno ha detto che è il disco della semplicità.

«Mi piacerebbe che lo fosse. La semplicità in fondo la troviamo già nel Vangelo. Ho letto il libro di Ratzinger sull’amore, mi è piaciuto, ma l’ho trovato imbarazzante quando cerca di spiegare cose che teologicamente forse non è necessario spiegare, come per esempio le parabole. Il messaggio del cielo è chiaro, l’efficacia del linguaggio che usava Gesù stava proprio nella semplificazione...».

Che tipo di credente è lei?

«Io credo in Dio e nei fuochi artificiali, cioò in tutte le cose che vedo e non vedo. Dio non lo vedo ma lo sento, i fuochi li vedo e li sento. Io sono un credente proprio come caratteristica generale. Sono un credente praticante ma con grande fatica e spesso con grande noia, mi addormento durante la messa, una volta in una chiesa in Sicilia sono anche caduto per terra e mi hanno lasciato dormire fino alla fine della messa...».

Nella canzone «La mela» immagina che Adamo ed Eva si reincontrano.

«Sì, la canzone è nata l’anno scorso, mentre ero in Salento per partecipare alla Notte della taranta. Ho sognato che i due amanti si ritrovano a Gallipoli, rievocano la cacciata dal paradiso terrestre, ricordano ma non stanno a recriminare più di tanto, e poi alla fine di salutano augurandosi buona fortuna, com’è giusto e normale fra persone che si sono amate. Una visione forse poco ratzingeriana, ma tutto sommato molto cristiana.»

Anche «I.N.R.I.» è spirituale sin dal titolo.

«È un dialogo tra un angelo e un diavolo, che sono io. Il primo, volando su New York, tampona un jumbo e cade sulla 42.a strada. Il secondo viene espulso dall’inferno perché qualcuno gli ha sentito dire una frase gentile. Si ritrovano insieme, l’angelo a pregare il Signore, il secondo a pregare l’angelo di rivolgersi per lui a Dio: il demonio in fondo è un’invenzione divina, il bene senza il male mi farebbe quasi paura».

Torniamo alle cose terrene. Dopo Nuvolari e Ayrton Senna, ora canta Valentino Rossi.

«”Due dita sotto il cielo” è nata il giorno in cui un giornalista giapponese mi chiese cosa pensavo di quel ragazzo marchigiano insignito di una laurea honoris causa in Scienze della comunicazione. Canto Valentino non come campione sportivo ma come campione di umanità. Lui ha il gusto dell’eterna giovinezza, della continua scoperta. È eccezionale nella sua normalità. Non potevo cantarne le vittorie perchè ancora troppo giovane. Così ne ho cantato la giovinezza assoluta, la vita che gli esplode tra le dita: mi ricorda un po’ Alessandro Magno, è un imperatore della comunicazione, mi ha indotto a descrivere uno stato di grazia, quando il cuore è pronto a grandi imprese».

Grandi imprese che il protagonista di «Liam» non conosce.

«Liam è quello del film ”Sweet sixteen” di Ken Loach: un ragazzotto di quel sottoproletariato che nessuna globalizzazione ha cancellato, cui appartenevano anche Anna e Marco, oppure i ragazzi della ”Gomorra” raccontata da Saviano, che per me può essere considerato l’erede della Fallaci. La mamma è in galera, il papà non c’è, il suo sogno è dare una casa alla madre, ma poi finisce per spacciare anche lui. È una storia di subalternità, di classi oppresse. La storia di un uomo solo, che vive la sua vita randagia con serenità, sa che il mondo non lo vuole ma non gliene importa».

La politica? Il partito democratico?

«Stimo Veltroni e forse il partito democratico servirà veramente alla politica italiana, ma in questo momento credo poco nella politica, così separata dalla gente già nel linguaggio. Fossi Veltroni preferirei fare il sindaco di Roma che il segretario di partito. De Andrè parlava della democrazia dei condomini...».

«Spengo il telefono... e ti cancello»: un’altra sua canzone che parla dello strumento che ha cambiato la vita delle persone.

«Io sono uno che subisce il telefono più di quanto lo usi. Certo, ha cambiato i rapporti e anche la vita, ma basta non esserne vittime. È anche uno strumento di congiunzione fra vari stati sociali, se pensiamo che nell’Ottocento le persone si scrivevano ma c’erano delle barriere nella comunicazione. Oggi invece il telefono, con quel che si dice e non si dice al telefono, diventa protagonista anche della vita pubblica».

Il disco è uscito anche in edicola, abbinato a Repubblica e L’Espresso. Una scelta sua o del marketing?

«È stata un’idea mia, nata dal fatto che io stesso sono un lettore e anche a me capita di comprare i dischi in edicola. Di solito abbinate ai giornali escono le raccolte o le ristampe. Io ho voluto proporre un disco di inediti e ciò mi ha consentito di abbassare il prezzo, sia in edicola che in negozio».

Prince ha addirittura regalato il nuovo disco in allegato a un quotidiano inglese...

«Ormai la musica è dappertutto, il sistema di distribuzione sta vivendo un’autentica rivoluzione. I negozi trazionali resistono ancora, ma si può acquistare in rete su i-tunes, in edicola, nei supermercati... La gente compra il disco dove lo trova. E questo è un fatto positivo, che va assecondato».

sabato 21 luglio 2007

TRIESTE Simone Cristicchi arriva oggi per la prima volta a Trieste. Nella città della rivoluzione basagliana, nella città di quei «matti» che lui ha saputo cantare con leggerezza e sensibilità all’ultimo Sanremo, vinto con «Ti regalerò una rosa». Romano, classe ’77, impostosi due anni fa col tormentone «Vorrei cantare come Biagio» e poi secondo a Sanremo Giovani nel 2006, Cristicchi è oggi uno dei nomi nuovi della miglior musica italiana. «Centro di igiene mentale» è il titolo, oltre che dello spettacolo che porta in giro, anche del libro: sottotitolo «Un cantastorie tra i matti».

«Libro e spettacolo - spiega - prendono spunto dall’esperienza che ho fatto, prima come obiettore di coscienza e poi come volontario, in un centro di igiene mentale a Roma. Racconto impressioni, spunti di riflessione nati da quell’esperienza. Personaggi a volte buffi, a volte strampalati, ma sempre ricchi di umanità, che riuscivano a trasmettere nonostante la sofferenza e la malattia».

«È stata un’esperienza che mi ha segnato, da cui ho imparato molto. Tanti di loro erano come bambini. Mi raccontavano le loro storie, la loro vita, spesso caratterizzata dall’emarginazione, ma lo facevano con leggerezza. Mi piace pensare che nello spettacolo me li porto in giro, anche con le lettere che ho ritrovato al manicomio di Volterra, pubblicate nel libro».

«A che mi ispiro? A Giorgio Gaber - ammette Simone Cristicchi, che oggi pomeriggio farà visita all’ex manicomio di San Giovanni, ricevuto da Peppe Dell’Acqua -, al suo teatro canzone, con tutta l’umiltà possibile. Nei monologhi che si alternano alle canzoni dello spettacolo parlo di tutto, sempre con ironia, mettendo in luce il lato scanzonato delle cose...».

Ca.m.

RUBRICA DISCHI lun 25-6-07


Preparatevi. Questo sarà il disco italiano dell’estate 2007. Quello che sentirete ovunque. Alla radio, sulla spiaggia, nei locali, da quell’auto che passa con i finestrini abbassati e il volume a palla... Stiamo parlando del nuovo album dei Negramaro, «La finestra» (Sugar), appena uscito e già primo in classifica. Ricordate? A Sanremo Giovani 2005 vinsero il Premio della Critica ma vennero eliminati senza troppi complimenti. Pochi mesi dopo, sull’onda del clamoroso successo riscosso nel frattempo da «Mentre tutto scorre» (album e tour), il Festivalbar li incoronò «rivelazione dell’anno». Loro, i salentini che hanno rubato il nome a un buon vino delle loro terre, dopo la consacrazione a nuovo gruppo di culto dei giovani hanno lasciato il Sud per avere una base operativa in un casale di campagna vicino Parma.


Lì è nata la metà del loro nuovo disco, il terzo, mentre l’altra metà ha visto la luce nientemeno che negli Stati Uniti, vicino San Francisco, negli studi del napoletano ormai americano d’adozione Corrado Rustici, con successiva masterizzazione in quel di New York. Dalla loro «finestra» i sei Negramaro - che sono Giuliano Sangiorgi voce e chitarre, Emanuele Spedicato chitarre, Ermanno Carlà basso, Danilo Tasco batteria, Andrea Mariano pianoforte e sintetizzatori, Andrea De Rocco campionatore - continuano a mischiare rock ed elettronica, pop ed elementi etnici, senza mai dimenticare la melodia. Anche nella lontana «west coast» statunitense.

L'idea di recarsi in America è nata dopo che il gruppo ha deciso di affidarsi a Rustici. «Abbiamo lavorato per quattro mesi - spiega Sangiorgi - in un posto fantastico. Avevamo una casa che dava sulla Bay Area, a pochi passi dal Golden Bridge di San Francisco. Giravamo in macchina, stavamo in mezzo alla gente. Ci siamo comprati anche un bel po' di strumenti vintage e quando è stato il momento di doverli spedire in Italia ci siamo accorti, visti i prezzi, che non era proprio il massimo della convenienza».

L’album - la cui uscita è stata anticipata dal singolo «Parlami d’amore», già candidata a prossimo tormentone dell’estate... - comprende quattordici canzoni inedite (fra cui una «traccia fantasma») e vede la partecipazione di Lorenzo «Jovanotti» Cherubini nel brano «Cade la pioggia», del Coro dell'Accademia del Teatro di Santa Cecilia di Roma e del Solis String Quartet. La registrazione è stata fatta in versione analogica, come avveniva nelle produzioni degli anni Settanta.

«Abbiamo fatto tutto su bobina soprattutto per sottolineare e catturare il nostro approccio spontaneo e immediato alla musica - spiega Sangiorgi -. Avevamo ogni volta a disposizione solo tre possibilità. Così, obbligati a suonare con dei vincoli, cercando sempre di catturare ogni brano come se fosse "buona la prima e via", ci abbiamo dato dentro con il massimo della nostra energia e vitalità. Ne è venuto fuori un disco fatto tutto di pancia, carico di emozioni e buone vibrazioni».

Il disco si apre con «La distrazione», che risente un po’ (troppo...) del clima americano in cui è nato il lavoro, ma per fortuna non rinuncia nel suo prosieguo al marchio di fabbrica che ha fatto grandi i Negramaro. Ed episodi come «Un passo indietro» e «Quel posto che non c’è» (più ancora de «L’immenso», che richiama fin troppo da vicino «Mentre tutto scorre»...) ci riportano ai fasti del disco precedente, tanto amato dal pubblico.

Da segnalare infine che è appena uscito «Storia di 6 ragazzi», libro di Lucio Palazzo (Aliberti Editore) dedicato ai Negramaro.


Lei si chiama Maria Pierantoni Giua, ha ventiquattro anni, ed è una delle migliori nuove cantautrici italiane. Negli ultimi anni ha fatto incetta di premi in tutte le manifestazioni a cui ha partecipato (da Castrocaro a Recanati), tanto da far lievitare l’attesa per la sua prima prova discografica. Che è arrivata e conferma quanto di buono si era sentito su colei che, in arte, si fa chiamare semplicemente Giua. L’album omomino (Camion Records/Sony Bmg) propone dieci canzoni con le musiche scritte da lei e i testi realizzati in collaborazione con Gianluca Martinelli (Mina, Vanoni, Carlo Fava...). Arrangiamenti acustici, chitarra, percussioni, la voce della cantante sono i protagonisti di un disco ben scritto, ben cantato e ben suonato. Fra gli ospiti anche Fausto Mesolella degli Avion Travel, la cui chitarra impreziosisce il brano di apertura «Si abbassa la luna» («Conosco il tempo della memoria e l’amore, l’ironia dei pensieri scombinati e leggeri quando siamo lontano...») e «Ortiche». Ma sono «Streghe» e «Terra e rivoluzione» gli episodi che sembrano meglio riusciti.



Da un’esordiente a una star. L’irlandese Sinead O’Connor, detta «la cantautrice calva», che fece scandalo nel ’92 per aver bruciato una foto del papa in diretta tv, esce con un nuovo album doppio dal titolo «Theology» (Radiofandango). Nel primo disco, «Dublin Session» (prodotto da Steve Cooney), propone i brani in versione acustica; nel secondo, «London Session» (prodotto da Ron Tom), arrangiamento con la band al completo. I brani sono otto inediti e tre cover: una versione soul di «We people who are darker than blue» di Curtis Mayfield, il tradizionale spiritual reggae «Rivers of Babylon» con il testo riscritto da Sinead e un’interpretazione feroce di «I don't know how to love him» (da «Jesus Christ Superstar», 1970).

«”Theology” è un tentativo di creare un posto di pace in tempo di guerra - afferma Sinead – ed è la mia risposta personale a quello che è successo e che influenza la vita di tutti in tutto il mondo dall’11 settembre 2001».


«W Ivan» è un ritratto di Ivan Graziani a dieci anni dalla morte, firmato da Maria Laura Giulietti e nato dalla collaborazione di Rai Trade con SonyBmg. C’è la prima apparizione televisiva del cantautore e gran chitarrista abruzzese, giovanissimo, con i suoi Anonima Sound al Cantagiro del ’68 e con la canzone «Parla tu» (ultimo posto in classifica...). E poi altri sedici momenti per altrettante canzoni, in ordine cronologico, nell’arco di circa quindici anni: «E sei così bella», «Agnese», «Pigro», «Monna Lisa», «Firenze», «Lugano addio»... Ma anche le interviste, la galleria fotografica, i testi, i contenuti extra... Nel cd, oltre ai brani del dvd, l'aggiunta di un diciottesimo brano, «Cleo», dall'album «Seni e coseni» dell’81.


La scuola è noiosa, dice Daniele Luttazzi, che di questa convinzione ha fatto il titolo del suo secondo cd, dopo il «Money for dope» di tre anni fa. E spiega: «I giovani oggi fanno molte cose contemporaneamente e risulta difficile ottenere la loro attenzione. Si tratta di un problema educativo. E poi la scuola italiana è ferma all'Ottocento. Dà l'idea della fabbrica con gli studenti che entrano come gli operai in un edificio...». Le sue canzoni sono ironiche, dissacranti e sarcastiche come i suoi spettacoli. Canta (in inglese, e neanche male) di disagio esistenziale e di aborto, della fine di una storia d’amore e del tentato suicidio di un'amica, della perdita dell’innocenza e di sesso estremo... Sorprendente.





RED HOT CHILI PEPPERS

PIccolo Illustrato

sabato 23 giugno 07

Di una cosa potete star (quasi) certi. Giovedì 28 giugno allo Stadio Friuli di Udine, nel loro unico concerto italiano del 2007, che poi è anche l’evento per eccellenza dell’estate musicale del Friuli Venezia Giulia, quegli ex «ragazzacci» dei Red Hot Chili Peppers non faranno come nelle prime esibizioni dal vivo della loro fulminante carriera, quando all’inizio degli anni Ottanta, nella loro assolata California, spesso si presentavano davanti al pubblico nudi e coi calzini infilati sui genitali... Roba da metter in serio imbarazzo l’America che si era appena affidata alle cure del presidente Reagan. Roba che oggi non potrebbero più permettersi.

Nessuno avrebbe immaginato allora, dinanzi a quelle prime e forse ingenue provocazioni, che quei quattro ragazzi della Fairfax High School di Los Angeles (il bassista Michael «Flea» Balzary, il cantante Anthony Kiedis, il batterista Jack Irons e il chitarrista Hillel Slovak: all’inizio si facevano chiamare Tony Flow and the Miraculously Majestic Masters of Mayhem) sarebbero diventati di lì a poco una della band più celebrate del pianeta.

Di più: oggi i Red Hot Chili Peppers sono considerati la miglior rock band degli ultimi vent’anni (forse soltanto gli U2 insidiano il loro primato) e affascinano milioni di giovani in tutto il mondo grazie alla loro miscela trasversale ed esplosiva fatta di rap e punk, funk e rock, pop e melodia. Rabbia e passione possono essere considerate il loro marchio di fabbrica, la loro cifra stilistica.

Come si diceva la band si è formata a Los Angeles nei primissimi anni Ottanta, diventando in breve un gruppo di culto grazie soprattutto alle loro trasgressive performance dal vivo. Il primo album, intitolato semplicemente «Red Hot Chili Peppers» e non baciato da particolare successo, esce nell’84. Seguono «Freaky Styley» (’85), «The Uplift Mofo Party Plan» (’87) e il minialbum «Abbey Road» (’88), con copertina-parodia dell’omonimo album dei Beatles.

Una tragica pausa, seguita alla morte per overdose di Slovak. Irons lascia. Kiedis e Flea incontrano allora il chitarrista John Frusciante e il batterista Chad Smith (quest’ultimo trovato grazie a un annuncio su un giornale...) e l’avventura riparte. Nell’89 esce «Mother's Milk», album di inediti seguito da un lungo tour. E nel ’91 il contratto con la Warner, l’uscita di «Blood Sugar Sex Magik» (un milione di copie vendute), e la fama del gruppo arriva anche in Europa.

L’energia del loro rock, la miscela fra rap e funky, la rilettura attualizzata di stilemi del rock anni Settanta fanno schizzare il gruppo - che ormai ha sviluppato uno stile proprio - ai vertici delle classifiche e del gradimento dei giovani di mezzo mondo.

Il resto è praticamente storia di ieri, diremmo quasi di oggi. Anche l’uscita dal gruppo di John Frusciante nel ’92 (sostituito prima da Jack Marshall e poi da Dave Navarro, ex Jane’s Addiction) non cambia poi di molto la situazione. Nel ’95 esce «One Hot Minute», nel ’98 esce Navarro e rientra Frusciante, il ’99 è l’anno di «Californication» (primo nell’hit parade italiana per ben nove settimane di fila), che con i suoi quindici milioni di copie è il loro album più venduto.

Siamo all’estate 2002. Il nuovo album s’intitola «By the way», un lavoro introspettivo, di grande intensità. E dopo le due vendutissime raccolte («The greatest hits» nel 2003, «Live in Hyde Park» nel 2004), l’anno scorso è arrivato finalmente «Stadium Arcadium», nono album in studio della band, considerato da molti il miglior disco del 2006 e premiato nel febbraio scorso con ben cinque Grammy Awards, gli Oscar della musica.

Comprende ventotto canzoni nuove distribuite in due cd, intitolati rispettivamente «Jupiter» e «Mars», e trainate dal singolo «Dani California». In origine le canzoni dovevano essere trentotto, contenute in tre album separati, usciti a sei mesi di distanza l’uno dall’altro. Poi è stata fatta una scelta diversa. Con risultati di tutto rispetto, visto che il disco è stato il primo del gruppo a debuttare al numero uno delle classifiche statunitensi e di altri 26 paesi, fra cui l’Italia. E solo nella prima settimana ha venduto più di un milione di copie. Attualmente il disco ha superato quota sei milioni, che portano il totale in carriera a superare le sessanta milioni di copie vendute.

L’appuntamento del 28 giugno con i Red Hot Chili Peppers assume per il Friuli Venezia Giulia un significato molto importante. È la prima volta infatti che la nostra regione ospita l’unica tappa italiana del tour mondiale di un artista o gruppo di fama planetaria quali sono da anni la band californiana. Di solito, quando il concerto italiano è uno solo, la città prescelta è Milano, Roma, al massimo Torino, Bologna, Verona... Stavolta tocca a Udine, Nordest italiano, e gli spettatori arriveranno da mezza Europa, oltre che dal resto della penisola.

Quello che arriva il 28 giugno a Udine è la ripresa di un tour biennale, che nel 2006 ha toccato gli Stati Uniti e l’Europa (con doppia tappa anche a Milano, a novembre) e nella seconda metà di quest’anno punterà anche su Giappone e Australia. Insomma, la leggenda planetaria del «peperoncino piccante» prosegue...

Diceva un tale: «Se i peperoncini sono per voi un sentimento, una sensazione o una forma di energia, avete indovinato...». Sottinteso: la formula vincente della band californiana.



ESTATE MUSICALE TRIESTINA

Estate musicale senza grandi appuntamenti, quella triestina. A meno di sorprese dell’ultima ora, sempre possibili ma a questo punto improbabili. Niente carrozzoni tipo Festivalbar (estate 2006), niente adunate oceaniche tipo Isle of Mtv (estate 2005), niente grandi nomi e grandi numeri... Appassionati pronti a mettersi in viaggio, allora, come da consolidata tradizione locale. Anche se qualcosa ovviamente c’è, nell’ambito della piccola provincia triestina.

Nel programma di «SerEstate» brillano il concerto dei Finley (30 luglio in piazza Unità) e la rassegna «TriesteLovesJazz» (in collaborazione con la Casa della Musica).

I Finley sono quattro ragazzi milanesi (residenti per la precisione a Legnano), tutti classe 1985, che hanno preso il nome da Michael Finley, giocatore di basket nell'Nba. Amati dai giovanissimi, sono esplosi lo scorso anno con il singolo «Diventerai una star», cui quest’anno sono seguiti i brani «Scegli me», «Niente da perdere» e «Adrenalina».

«TriesteLovesJazz» si terrà invece dal 17 luglio al 14 agosto, con tutta una serie di concerti di artisti italiani e internazionali. Fra questi Al Foster, già battterista di Miles Davis (17 luglio, piazza Verdi), il duo Tuck & Patti (19 luglio, piazza Verdi), il bluesman rivelazione Michael Powers (28 luglio, piazza Verdi), l’orchestra Mercadonegro (9 agosto).

Nell’ambito della rassegna, da segnalare la sezione «Mitteljazz», frutto del lavoro che la Casa della musica porta avanti da anni con il suo coordinatore Gabriele Centis: propone il chitarrista praghese ma newyorkese d’adozione Rudy Linka (20 luglio, piazza Verdi), gli sloveni Jure Pukl and the Jazzon Ensemble e gli austriaci Baritone Orchestra (10 agosto, piazza Hortis). E ancora la sezione «Made in Trieste», con il meglio della scena jazz locale in piazza Hortis (24 luglio Stefano Franco, Trieste Ragtime Band, Quintetto di Trieste, Alessandra Chiurco & Giorgio Pacorig; 29 luglio Mario Cogno Quartet, Blue Gate, Leo Zanier, Riccesi Quartet; 30 luglio Joplin Ragtime Orchestra, Andrea Massaria Trio, Martina Feri; 14 agosto Fabio Mini Quartet, Adriana Vasques, Magris Jegher Quartet).

Altri due appuntamenti importanti sono fissati per il 21 e 22 luglio in piazza Unità. La prima sera viene registrata la serata finale del Premio giornalistico intitolato a Marco Luchetta, «I nostri angeli», che poi verrà trasmessa in seconda serata su Raiuno il 24 luglio. Fra gli ospiti musicali della serata, presentata da Franco Di Mare e Eleonora Daniele, ci saranno il vincitore dell’ultimo Sanremo Simone Cristicchi e la band degli Stadio.

Il 22 luglio, sempre in piazza Unità, la rassegna itinerante Folkest (che porta anche degli appuntamenti di minor richiamo a Sgonico e Muggia) propone un gruppo storico del folk-rock inglese: i Fairport Convention.