venerdì 30 maggio 2014

BORGNA: SIAMO UN PAESE "SENZA SINISTRA"

Adesso tutti sul carro del vincitore Matteo Renzi, ma il Pd uscito trionfatore dalle Europee è ancora un partito di sinistra? Domanda che in questi mesi si sono fatti in molti, alcuni finendo per votare i democratici più “in chiave anti Grillo”, o alla solita insegna del meno peggio, che per intima convinzione. Sì, perchè quando nel 1989 Achille Occhetto chiuse la serranda del glorioso Partito Comunista Italiano, logica avrebbe voluto che si ponessero le basi per la creazione di un nuovo raggruppamento politico «non meno ma più di sinistra, non meno ma più radicalmente riformatore». Invece, dopo le tappe declinate (e declinanti) sotto le insegne di Pds e Ds, oggi il Pd griffato Renzi pare sia una formazione in cui «tutto è banale, scontato, uguale a se stesso». Un partito sostanzialmente centrista, che sembra ossessionato dall’idea di andare al governo, «senza nemmeno avere sempre ben chiaro per fare cosa». Analisi lucida e impietosa, quella lasciata ai posteri da Gianni Borgna nel suo ultimo libro, completato pochi giorni prima di morire, nel febbraio scorso, dopo una lunga malattia. Quando numeri come quelli incassati alle Europee dal Pd non erano nemmeno immaginabili. “Senza sinistra” (Castelvecchi, pagg. 120, euro 12) è un saggio breve ma di ampio respiro in cui l’ex assessore alla cultura delle giunte romane Rutelli e Veltroni (ma era stato anche segretario della Fgci di Roma, capogruppo Pci alla Regione Lazio, responsabile nazionale cultura e spettacolo e membro del comitato centrale del Pci/Pds, consigliere della Biennale di Venezia, presidente di Musica per Roma) racconta la sua preoccupazione per un mondo che gli appariva impoverito dalle logiche di mercato e sempre più distante da quegli ideali di equità, giustizia, partecipazione che avevano ispirato la sua esistenza e il suo impegno culturale prim’ancora che politico. Classe 1947, amico di Pasolini, Borgna ha attraversato tutta la storia della sinistra italiana dagli anni Sessanta a oggi. La “svolta della Bolognina” impressa al vecchio Pci in quel 1989 del crollo del Muro di Berlino e della stessa Unione Sovietica viene valutata positivamente nelle intenzioni ma negativamente negli effetti. Nel cambiare nome al più grande partito comunista d’Occidente, Occhetto voleva avviare la costruzione di una nuova formazione politica da un lato più innovativa sul versante delle istituzioni, dall’altro più aperta alle dinamiche di mutamento della società, alle culture diffuse e alle nuove forme di soggettività. Invece, secondo l’autore, da lì è partito il declino della sinistra. In un quadro nel quale hanno prevalso logiche di apparato e di occupazione del potere che hanno trasformato la Cosa postcomunista in un «partito di governo dal profilo essenzialmente moderato». Un’entità tanto subalterna all’ideologia dominante da fare di Palazzo Chigi - secondo la feroce battuta di Guido Rossi sul governo D’Alema - «una merchant bank dove non si parla inglese...».

giovedì 29 maggio 2014

2CELLOS ven e sab a trieste, rossetti

Mischiano Vivaldi e gli Ac/Dc. Elton John, prima di volerli con sé in tour, li ha definiti «la cosa più emozionante vista dal vivo dai tempi del concerto londinese di Jimi Hendrix al Marquee Club negli anni Sessanta...». Sono Luka Šulic (sloveno di Maribor, classe 1987) e Stjepan Hauser (croato di Pola, classe 1986), ovvero i 2Cellos: venerdì e sabato suonano a Trieste, al Rossetti. Prima sera già “sold out” da tempo, per la seconda ci sono ancora dei biglietti. Stjepan, come vi siete conosciuti? «Eravamo considerati rivali prima di unirci, c’è sempre stata un po’ di tensione tra di noi, ma anche amicizia. Ci incontravamo da bambini alle gare e alle “masterclass” in Croazia. Sin dal primo momento c’è sempre stata una forte chimica tra di noi. Durante i camp estivi in cui entrambi eravamo presenti dodici anni fa, ognuno di noi usciva e andava a far festa, quando poi stavamo da soli - e magari ci ubriacavamo - iniziavamo subito a duettare. Dopo quelle esperienze era difficile vedersi ma ci seguivamo a distanza e ci confrontavamo sulle rispettive carriera e sul successo». Finchè...? «Dieci anni dopo ci siamo incontrati a Londra e da lì è partito tutto. Noi da sempre avremmo voluto fare qualcosa assieme, ma non c’era mai stata la possibilità, perché abbiamo sempre studiato e vissuto in posti diversi. Quando c’è stata la possibilità di trovarsi nello stesso posto nello stesso momento, abbiamo subito deciso di cambiare il mondo assieme e di fare qualcosa di unico, folle ed eccitante. E il primo video che abbiamo fatto assieme, “Smooth criminal”, ha davvero cambiato le nostre vite». Ricordate qualcosa della guerra nell’ex Jugoslavia? «Eravamo troppo piccoli per essere consapevoli di cosa stesse succedendo. Luka è cresciuto a Maribor e io a Pola, siamo stati fortunati che la guerra non abbia colpito le nostre zone. E oggi siamo come fratelli». Anni fa avreste immaginato un successo planetario? «La nostra carriera è cominciata tre anni fa, mi sembra folle tutto quel che ci è successo in un periodo così breve della vita. Non avremmo mai pensato di poter fare queste esperienze neanche in un periodo dieci volte più lungo». Il ruolo del web? «Non saremmo qua senza internet. È un mezzo democratico, non importa da dove vieni o dove vivi, puoi essere anche nel posto più imbucato del pianeta. Non devi più convincere grandi capi su quel che stai facendo, puoi essere totalmente indipendente e crearti la tua “fan base” online. Tutto ciò che fai è frutto della tua visione, della tua creatività, del tuo talento, della tua originalità e del tuo lavoro». Quando avete deciso di unire rock e classica? «Entrambi da sempre abbiamo cercato di fare cose differenti e rivoluzionarie, ma ciò è successo quando io e Luka ci siamo incontrarti a Londra dopo tanti anni. Io vivevo lì e stavo finendo i miei studi, mentre Luka venne per laurearsi e così ci ritrovammo e nacque tutto. Decidemmo di fare qualcosa di unico, folle ed eccitante che potesse portare l’attenzione delle masse ai violoncelli e alla musica classica». Nell'ultimo video partite con Vivaldi, poi passate agli Ac/Dc. Cosa li accomuna? «Vivaldi era una rockstar, ai suoi tempi... Noi pensiamo che la canzone “Thundestruck” abbia dei momenti perfetti per mescolarsi con degli elemnti barocchi e virtuosi pertanto Vivaldi era la scelta perfetta». Quel complimento di Elton John? «È stato sicuramente il più importante complimento che mai potessimo immaginarci, lui è una leggenda vivente, un’icona, è stato un onore davvero grande». Il tour con lui? «Abbiamo girato il mondo in tour con lui per tre anni: un’esperienza unica. Abbiamo imparato a esibirci davanti a vere folle negli stadi e nelle arene. Abbiamo imparato molto cosa significhi andare in tour, sullo show business e abbiamo avuto l’opportunità di imparare dal migliore». Soddisfatti del docufilm? «A dir la verità non abbiamo ancora avuto il tempo per vederlo». In Asia e Oceania com’è andata? «Magnificamente. Abbiamo appena concluso il tour in Australia, tutti gli show hanno fatto il “sold out” e il pubblico è stato fantastico. L’atmosfera e il calore della gente sono stati qualcosa d’indescrivibile». Conoscete Trieste? «Sì, io molto bene. Vengo da Pola, perciò ci sono stato molte volte. Quand’ero bambino, tantissimi miei concittadini e tantissimi istriani venivano a Trieste ogni weekend a fare shopping. Era normale perché quella volta non c’erano grandi centri commerciali in Croazia. Inoltre mio fratello attualmente studia a Trieste, pertanto io mi sento come fossi a casa. È una città bellissima». Prossimo obbiettivo o progetto? «Stiamo lavorando a un nuovo album e speriamo di fare videoclip ancor più divertenti. Gli obiettivi principali sono sempre quelli di cercare di mantenere la creatività e di fare ancora di più musica nostra...».

DIRE STRAITS LEGENDS (LUN 26) al Rossetti, trieste

Hanno cominciato il loro tour italiano una decina di giorni fa, con un grande successo di pubblico a Bari. Lunedì sera sono a Trieste, al Rossetti, per la tappa conclusiva della loro tournée 2014. Loro sono i Dire Straits Legends, sorta di tributo alle musiche del leggendario gruppo inglese ma senza l’indiscusso cantante, chitarrista e leader Mark Knopfler. Sul palco, il pubblico triestino e regionale (ma molti arriveranno anche da Slovenia e Croazia) troverà il bassista e co-fondatore John Illsley (basso) assieme a una band di musicisti quali gli ex Phil Palmer (chitarre), Danny Cummings (percussioni) e Mel Collins (sax), con l’aggiunta di Steve Ferrone (già batterista di Eric Clapton, Tom Petty e Duran Duran) e degli italiani Marco Caviglia (voce e chitarra) e Primiano Di Biase (tastiere). Come e quando è nato il progetto? «È nato - risponde John Illsley - a inizio del 2013 da un’idea di Phil Palmer: a distanza di tanti anni abbiamo voluto suonare di nuovo assieme. La band si è sentita, la cosa è piaciuta e così è nato questo progetto che ha l’obiettivo di rendere omaggio a quei due grandi decenni musicali e alla musica dei Dire Strait, un gesto che rispetta i principi originali e il pubblico che ha amato quella musica». Lei è entrato solo quest’anno: perchè? «Sì, mi sono unito solo quest’anno per un motivo molto semplice: ero impegnatissimo con i miei progetti solisti, in particolare con l’uscita del disco “Testing the water”, che proprio in quel periodo stavo promuovendo». Com’è suonare assieme dopo tanti anni? «Mi fa, ci fa un enorme piacere. Lo era quella volta e lo è adesso. Le canzoni dei Dire Straits sono immortali. Suonarle, sia per me che per gli altri componenti del progetto, è un vero divertimento. È bello poter riprodurre ancora questa musica, che il pubblico apprezza sempre con lo stesso grande entusiasmo». Cosa è cambiato dagli esordi con i Dire Straits? «Ovviamente sono cambiate molte cose da quella volta, è normale. I Dire Straits erano una band di quattro fantastici musicisti, con un approccio semplice, discreto. Tutti cambiano e così anche noi. La musica in sé è molto cambiata rispetto a quegli anni». Come conobbe Mark Knopfler? «In maniera abbastanza casuale. David, il fratello di Mark, era mio compagno di stanza nel 1976. Conobbi Mark grazie a questa situazione, ci piacque suonare insieme e così in breve tempo fondammo la band». Perchè è finita l'avventura dei Dire Straits? Pensa a una possibile reunion? «È difficile dire se ci sarà una reunion della band, ovviamente dipende da tanti fattori. Finimmo la nostra esperienza insieme nel 1992, il motivo fu sostanzialmente che tutti noi pensavamo di aver dato tutto quello che potevamo. Come tutti i percorsi anche il nostro ebbe una fine». Conosce la scena musicale italiana? Conosce qualche artista? «Mi dispiace, non sono un grande conoscitore della musica italiana». Che musica ascolta attualmente? «Da sempre amo la musica dei grandi autori popolari, come Bob Dylan, Leonard Cohen, Van Morrison e J.J Cale. Li ascolto sempre, sono dei grandi». Quali sono i progetti dei Dire Strait Legends dopo questo tour? «Viviamo questo progetto passo dopo passo, al momento non abbiamo idea di cosa potremo fare in futuro con i Dire Straits Legends, per ora ci divertiamo suonando la musica che ci piace». E i suoi progetti da solista? «Per quanto riguarda i miei progetti solisti, ce ne sono molti, per primo il già citato disco “Testing the water”, che porterò in giro per il mondo nei prossimi mesi». Lunedì al Rossetti, fra i venti brani in scaletta, anche classici come “Tunnel of love”, “Money for nothing”, “You and your friends”...

mercoledì 21 maggio 2014

MANNARINO, al monte

ALESSANDRO MANNARINO “AL MONTE” (Universal) Terzo album per il cantautore romano lanciato anni fa dal programma tv di Serena Dandini “Parla con me”, dove si è guadagnato con merito una ribalta nazionale. Dopo “Bar della rabbia” e “Supersantos”, l’artista trentacinquenne ritorna al suo pubblico dopo aver rafforzato dal vivo le sue potenzialità narrative. «Al monte ci vanno i santi e i briganti, i rivoluzionari e gli asceti perchè è un luogo libero da recinti e da bandiere...», canta il nostro. Nove canzoni - “Malamor”, “Le stelle”, “Gli animali”, “L’impero”, “Scendi giù”... - che profumano di originalità, sempre in bilico fra canzone d’autore e tradizioni popolari. «Ho immaginato un viaggio - dice - con partenza dalla città e termine su un monte ipotetico che rappresenta un punto d’arrivo dopo tanto camminare...». Riferimenti a Dante e Petrarca, ma anche a Fellini e Pasolini. Con l’onestà di chi non si prende mai troppo sul serio.

COLDPLAY, ghost stories

Mediaticamente coperto dalla chiacchieratissima separazione fra il loro cantante e leader Chris Martin e la bella Gwyneth Paltrow, è uscito il sesto album dei Coldplay. In un mondo in cui ormai il gossip la fa da padrone in (quasi) tutti i settori, purtroppo dobbiamo fare questa premessa, se è vero com’è vero che giornali, siti e notiziari radio e tv hanno nelle ultime settimane dato molto più spazio all’addio fra i due belli che al nuovo lavoro di uno dei gruppi più importanti del panorama pop inglese degli ultimi anni. Ma siamo qui, nel nostro piccolo, per rimediare. Diciamo subito che “Ghost stories” (Warner) è un altro buon album all’interno di una discografia composta tutta di lavori che meritano di sopravvivere alla stretta attualità, essendo godibili anche a distanza di anni. Che poi è la differenza fra la buona musica e quella “usa e getta”. A due anni e mezzo da “Mylo xyloto”, considerato da molti come l’album più leggero della band, queste “storie fantasma” confermano Martin e compagni come degli ottimi artigiani della musica contemporanea. Non hanno puntato in passato, né cominciano a farlo adesso, alle rivoluzioni e ai grandi, epocali cambiamenti. Nei loro brani trovi esattamente quello che ti aspetti: un mainstream del pop costruito con gusto ed eleganza, sempre attento alle nuove tendenze che si sviluppano sulla scena musicale contemporanea, ma con la saggia (e furba) attenzione a non lasciarsi travolgere dall’innamoramento di un minuto per una nuova moda. Album in qualche modo omogeneo, sicuramente più del precedente “Mylo xyloto”. Secondo alcuni con un certo approccio minimalista, che a nostro avviso è soltanto la capacità di scrivere e suonare e cantare musiche semplici ma assolutamente non per questo banali. Forse la vera forza dei Coldplay, quella che ha permesso loro di scalare in pochi anni classifiche di vendite e di gradimento, sta proprio qui: arrivare al cuore della gente con melodie lineari e armonie mai complesse. L’unica band classica, l’unica affiancabile agli artisti e gruppi che la classicità se la sono guadagnata sul campo e dopo molti anni, fra quelli emersi nel nuovo millennio. “Always in my head” apre le danze, fra cori quasi angelici e chitarre beat. “Midnight”, “True love” e “A sky full of stars” potrebbero entrare fra i classici della casa. In copertina un disegno di Mila Fürstová, che nello streaming su iTunes si trasforma in un video animato con la regia di Alasdair + Jock della Trunk Animation. Il disegno raffigura due ali stilizzate, che a guardarle con altro intento potrebbero anche rappresentare un cuore spezzato, anci, “a broken heart”. E torniamo alla notazione iniziale...

lunedì 19 maggio 2014

PAZIENZA, libro di Gabriella Caramore

C’era una volta il caporedattore di un giornale, che il pomeriggio dell’11 settembre 2001 si accorse a un certo punto di una strana animazione fra i suoi colleghi. Era un tipo flemmatico e continuò con il suo lavoro senza badare alle voci e ai volti via via sempre più preoccupati. Fino a che un collega gli si avvicinò e gli disse: «Guarda che hanno buttato giù le Torri gemelle...». Lui rispose serafico: «Pazienza...». Realtà o leggenda metropolitana, di quelle che girano anche nei giornali? Non si sa. Ma l’episodio ci è tornato in mente leggendo il libro di Gabriella Caramore intitolato per l’appunto “Pazienza” (il Mulino, pagg. 136, euro 12), appena presentato al Salone del libro di Torino. Viviamo il tempo della velocità, della fretta, dell’impazienza. E i risultati sono sotto gli occhi di chiunque li voglia vedere: superficialità, errori, stress, infelicità. Allora - suggerisce l’autrice, veneziana, classe 1945, conduttrice radiofonica e saggista - forse è arrivato il momento di rallentare se non addirittura fermarsi, fare una pausa, tornare a essere pazienti. Perchè «la pazienza reclama che il tempo ordinario sospenda il suo corso, smetta di fluire, entri in un vigile sonno. È capace di questo la nostra epoca convulsa, distratta, frettolosa, in cui ognuno di noi si sente spinto a fare presto, procedere spedito, agire in simultanea su fronti diversi, dare inizio a un procedimento senza attenderne l’esito? In cui troppa vastità di saperi rende difficoltoso il conoscere, il cui troppa facilità di connessione rende arduo l’incontro, in cui troppo mondo, affacciato sulle nostre vite, mette in affanno le relazioni?» Viene il sospetto - risponde Caramore - che «il nostro tempo sia radicalmente inospitale verso la pazienza. Forse neppure ne avvertiamo il bisogno. E forse, davvero, “pazienza” è parola inattuale, antica, in disarmo...». Eppure, la pazienza è tutto, come scriveva Rilke. Il libro va a pescare nel passato, dai Vangeli a Ulisse, dalla cosiddetta “pazienza di Giobbe” a Kafka, per supportare questa verità. Tutta la vicenda umana è un lento esercizio di pazienza, come quello dell’uomo per costruire, del bambino per crescere, degli amanti per incontrarsi, dei vecchi per morire, della natura per dare il frutto, della parola per prendere forma. La pazienza è sempre stata considerata una virtù, anche se in posizione defilata - quasi un completamento - rispetto a quelle classiche, come sapienza, giustizia, forza, temperanza, ma anche fede, speranza e amore. Oggi prevale la concitazione dei gesti, e nel rapido susseguirsi degli eventi, in questa nostra “età dell’impazienza”, la virtù ormai fuori moda potrebbe trasformarsi in filosofia, in modo di vivere, in qualità morale da chiamare “cura”. Una cura verso l’altro, verso le cose, in definitiva verso se stessi. Una cura che potrebbe ribaltare la scala dei valori e delle priorità del nostro vivere quotidiano.

JOHNNY WINTER domani a Udine

È una delle ultime leggende del blues-rock. Il settantenne chitarrista texano Johnny Winter torna domani nel Friuli Venezia Giulia, per un concerto al “Nuovo” di Udine che è l’unico nel Nordest di questo suo breve tour italiano (le altre tappe a Roma e Milano), nell’ambito del tour mondiale cominciato a gennaio nel Kentucky. Winter, due incontri, mezzo secolo fa, le hanno cambiato - e indirizzato - la vita... «Sì, l’incontro con BB King nel 1962 fu incredibile. Avevo diciassette anni, andai in un club molto frequentato dalla gente di colore. Ho insistito a più riprese chiedendogli di poter suonare, fino a quando mi permise di farlo. Ricordo che suonai “Lucille” e il pubblico mi riservò una standing ovation. Ho ancora i brividi quando ci penso». E l’incontro con Muddy Waters? «L’ho incontrato quando la mia band ha aperto un suo concerto al Vulcan Gas Company. Dopo avermi sentito suonare mi disse che secondo lui ero uno dei migliori chitarristi che avesse mai visto. Successivamente, ho prodotto, suonato e vinto tre Grammy Award con lui. Sento molto la sua mancanza. Mi chiamava il suo “figlio adottivo”...». Quand’era ragazzo quali erano gli altri suoi miti? «Assolutamente Chuck Berry, Ray Charles, Robert Johnson. Ho cominciato a studiare la musica di Chet Atkins fin da giovane. Tutti dei grandi esempi per me». Cosa ricorda di Woodstock? «Ho volato su un elicottero. Era tarda notte. Stavo dormendo su un sacco di immondizia perché ero molto stanco, ed era l’unico posto dove ho potuto riposare un po’: sembra strano ma era comodo e fuori del mondo. Sono stato svegliato dal promotor, il quale mi chiese di andare avanti e suonare come tutta la mia band. Cinque minuti dopo ero sul palco davanti a centinaia di migliaia di persone. Sapevo che sarebbe stato uno spettacolo storico ed è andata proprio così. È stata un’esperienza assolutamente incredibile». Quali sono le differenze che vede tra la scena musicale degli anni Settanta e la musica di oggi? «Non sono la persona giusta per rispondere a questa domanda, il mio decennio preferito è quello degli anni Cinquanta, che è il miglior decennio di sempre per il blues». Rispetto al passato, cosa significa oggi suonare blues? «Suonare blues oggi per me significa divertirmi, così era un tempo e così è ancora. Sono un uomo che ha il blues nel sangue, sarà così fino al mio ultimo giorno». Quali sono le differenze tra il pubblico americano e quello europeo? «A mio modo di vedere il pubblico europeo guarda di più all’aspetto emotivo della musica rispetto agli americani: voi siete più interessati a ciò che la musica trasmette». Come ha festeggiato, a febbraio, il suo settantesimo compleanno? «Ho fatto uno show al “BB King”, a New York, con la mia band e un sacco di ospiti speciali, tra cui Joe Louis Walker, Debbie Davies, Popa Chubby e altri. Ho ricevuto una torta da parte del club ed è stato un grande momento: il fatto di stare su un palco con la mia band e i miei amici mi è sembrato un ottimo modo per festeggiare i settant’anni. E poi nello stesso periodo sono usciti il mio cd quadruplo “True to the blues” e il docufilm “Johnny Winter: down and dirty”. Insomma, ho tanti motivi per essere soddisfatto...». Dopo questo tour? «Non ho assolutamente voglia di fermarmi. Il nuovo album si intitola “Step back” (passo indietro - ndr) e sarà pronto per agosto. Collaboreranno musicisti e amici di assoluto livello come Eric Clapton, Brian Setzer, Joe Perry, Leslie West e molti altri. È un grande album e penso che i miei fan lo ameranno». Dunque il seguito di “Roots” - l’album del 2011 che conteneva undici classici del blues eseguiti da Winter assieme a vecchi amici come Sonny Landreth, Vince Gill, Warren Haynes, John Popper e tanti altri -, inizialmente annunciato per il mese prossimo, slitta ad agosto e non si intitolerà “Roots 2”, come lo stesso chitarrista aveva lasciato intendere tempo fa. Di certo, visti lo stato di forma del nostro e il parterre di ospiti, sarà anche questo un grande disco. Che andrà ad aggiungersi a una discografia il cui primo capitolo è datato addirittura 1969, giusto quarantacinque anni fa: s’intitolava semplicemente “Johnny Winter”, era pubblicato dalla storica etichetta Columbia, e molti ricordano ancora la sensazione di star assistendo alla nascita di una leggenda. La leggenda di un chitarrista albino di nome Johnny Winter.

martedì 13 maggio 2014

CANTANTI SCRITTORI

L’ultimo arrivato è l’imbarazzante rocker Piero Pelù, alla disperata ricerca di nuova visibilità dopo gli ormai lontani fasti con i Litfiba. Fra una puntata di “The Voice” su Raidue, dove molti ragazzetti cantano meglio di lui, e uno scomposto insulto al concittadino Matteo Renzi, colpevole di avergli sottratto, anni fa da sindaco, l’incarico di patron dell’estate musicale fiorentina, il mefistofelico cinquantaduenne toscano debutta come scrittore. Del libro, “Identikit di un ribelle” (Rcs), c’è da scommettere che non rimarrà traccia. Ma al Salone del libro di Torino, fra una presentazione e un report sul perdurante crollo delle vendite dei libri, l’altro giorno firmava autografi e distillava perle di saggezza. Del tipo: il linguaggio della musica non è poi così distante da quello della leteratura. Oppure: non mi sento nè uno scrittore nè un poeta, ma parto sempre dalla mia esperienza personale, parlo di quello che vedo dal punto di vista del mondo, di quello che succede dentro e fuori di me. Finale in crescendo: ascolto le mie percezioni e ho continuamente bisogno di stimoli a cui ispirarmi. Ma quello di Pelù non è un caso isolato. Vabbè che con la crisi bisogna arrangiarsi, ma che sta succedendo? I cantanti, cantautori, rocker e musicanti vari che mettono - chi temporaneamente, chi stabilmente - da parte il microfono e la chitarra, e si dedicano alla scrittura non più di canzoni ma di libri, ormai non si contano più. E la cosa che può sorprendere solo quanti non conoscono le regole dello show business, e la crisi nerissima che attanaglia l’editoria quasi più che la discografia, è che questi libri, libelli, libretti si vendono come il pane. Anzi, come i dischi, quando i dischi per l’appunto si vendevano come il pane... Francesco Guccini e Gino Paoli, Ivano Fossati e Nada, Ligabue e Jovanotti, Vinicio Capossela e Francesco Bianconi dei Baustelli, Vasco Brondi e Davide Van De Sfroos... La lista è lunga e potrebbe continuare a lungo. Vediamo di conoscere qualche dettaglio e magari di capire l’origine del fenomeno. Cominciamo da “Cròniche Epafàniche”, mandato in libreria da Feltrinelli in tempi non sospetti, nel lontano 1989, sono passati giusto venticinque anni. E quel primo romanzo di Guccini, nel quale il cantautore emiliano racconta della sua infanzia a Pavana, e al quale sono seguiti in questo quarto di secolo altri capitoli della “Guccineide” (“Vacca d’un cane” nel 2002, “Cittanova Blues” nel 2004, “Non so che viso avesse” nel 2010...), può oggi essere ricordato come l’apripista di un fenomeno ormai dilagante: quello dei cantanti - e cantautori, e rocker, e comunque musicisti - che a un certo punto della loro storia, chi prima e chi poi, diventano anche scrittori. Ligabue ha esordito nel 1997 con il libro di racconti “Fuori e dentro il Borgo”, nel 2004 ha fato alle stampe il primo romanzo “La neve se ne frega”, due anni dopo è arrivata la raccolta di poesie “Lettere d’amore nel frigo”. Lorenzo Cherubini in arte Jovanotti ha messo assieme nel 1995 racconti, rime, riflessioni e fotografie dei suoi viaggi in giro per il mondo nel volume “Cherubini”, tre anni dopo ha ricordato ne “Il grande boh!” i suoi giri in bicicletta fra Africa e Patagonia, più recentemente ha dato alle stampe “Viva tutto” (2010), un libro nato dalla corrispondenza via e-mail fra il rapper e il suo amico filosofo Franco Bolelli. Nel caso di Roberto Vecchioni, l’attività di cantautore si è sempre intrecciata con quella di scrittore. Già nel 1983, allegato a un’edizione limitata dell’album “Il grande sogno”, usciì un volume omonimo edito da Milano Libri: poesie, racconti, testi per canzoni. Per Einaudi pubblica nel ’96 la raccolta di racconti “Viaggi del tempo immobile”, nel 2000 il suo primo romanzo “Le parole non le portano le cicogne”, nel 2004 il volume “Il libraio di Selinunte”. E ancora “Diario di un gatto con gli stivali”, la raccolta di poesie “Volevo. Ed erano voli”, la raccolta di racconti “Scacco a Dio”... L’anno scorso, a settembre, si diffonde la notizia che l'Accademia Svedese lo avrebbe candidato al Premio Nobel per la letteratura insieme a Bob Dylan e Leonard Cohen. Non si è mai capito se si trattasse di realtà o autentica bufala, visto anche che l’Accademia non rivela i nomi dei candidati non vincitori prima che siano passati cinquant’anni, né interviene per smentire voci infondate... Gino Paoli, cantautore storico nonchè presidente della Siae, è appena arrivato in libreria con “I semafori rossi non sono Dio”. Anche questo appena presentato al Salone del libro di Torino. È la storia dei suoi ottant’anni, dagli amici della “mafia genovese” (Luigi Tenco, Paolo Villaggio, Fabrizio De Andrè, Renzo Piano, Beppe Grillo...) agli amori per Stefania Sandrelli e Ornella Vanoni, passando anche per la politica (Paoli fu eletto alla Camera, come indipendente di sinistra, alla fine degli anni Ottanta). Ivano Fossati ha pubblicato da poco “Tretrecinque”, che non è un prefisso telefonico ma il nome di una leggendaria chitarra Gibson. Vinicio Capossela ha scritto dieci anni fa “Non si muore tutte le mattine”, un insieme di racconti con uno sfondo comune: il paesaggio milanese. Anche Francesco Bianconi, il cantante e leader dei Baustelle, ha ambientato il suo romanzo “Il regno animale” - pubblicato nel 2011 - nella Milano che l’ha accolto anni fa dalla natia Montepulciano e appunto sull’esperienza, di vita prim’ancora che di lavoro, di un giovane toscano di belle speranze nella metropoli lombarda. Restiamo fra i protagonisti della nuova musica italiana. Il trentenne ferrarese Vasco Brondi, quello che si cela dietro il nome Le luci della centrale elettrica, ha pubblicato nel 2009 “Cosa racconteremo di questi cazzo di anni zero”: titolo mutuato da un verso di una sua canzone (manca solo “ai figli che non avremo”...) e testo che raccoglie soprattutto i post del suo blog. Poi ci ha preso gusto e ha pubblicato anche la graphic novel “Come le strisce che lasciano gli aerei”, in collaborazione con Andrea Bruno. Potremmo aggiungere Nada, che ha firmato nel 2003 di “Le mie madri”, nel 2008 “Il mio cuore umano”, più recentemente “La grande casa”. E Simone Lenzi (frontman dei Virginiana Miller), il cui libro “La generazione” è diventato materia per il film di Paolo Virzì “Tutti i santi giorni”. E ancora Giuliano Sangiorni, cantante dei Negramaro, autore de “Lo spacciatore di carne”. E le opere non sempre fondamentali di Enrico Ruggeri, Davide Van de Sfroos, Francesco Renga, Giovanni Lindo Ferretti, Giulio Casale, Cristiano Godano dei Marlene Kuntz, Manuel Agnelli degli Afterhours... Insomma, un’epidemia. Tutta colpa della crisi, che come si diceva costringe a diversificare? Oppure il sacro fuoco dell’artista che deve e vuole sempre creare, non importa dove e non importa come? O ancora: il fatto che un personaggio noto come un cantante o un rocker (stesso discorso vale ovviamente per i protagonisti della televisione) sposta numeri che l’editoria ormai se li può sognare? Difficile dare una risposta valida sempre. Bisognerebbe distinguere da caso a caso. Alcune pubblicazioni sono chiaramente tentativi velleitari di sfruttare la notorietà conquistata altrove. Ma certo non mancano, a partire proprio da Guccini e Vecchioni, casi di artisti che usano legittimamente più linguaggi. E di certo non rischiano di restare senza editore...

domenica 11 maggio 2014

GIARDINO LUCHETTA OTA D'ANGELO HROVATIN / da sito ARTICOLO 21

da sito ARTICOLO 21: di Carlo Muscatello* Da lunedì 12 maggio, i bambini di Trieste andranno a giocare in un bellissimo giardino comunale intitolato a quattro colleghi scomparsi drammaticamente vent'anni fa: Marco Luchetta, Alessandro "Sasa" Ota, Dario D'Angelo e Miran Hrovatin. Quattro nomi, due tragedie che ci riportano a un momento buio, quando in poco meno di due mesi, fra il 28 gennaio e il 20 marzo 1994, a Mostar e a Mogadiscio morirono cinque giornalisti e operatori dell'informazione italiana: quattro di loro erano triestini, la quinta era Ilaria Alpi. A Mostar, città della Bosnia, drammatico teatro degli assedi delle forze serbe ma anche croate nella guerra che segnò la fine della Jugoslavia, la troupe della Rai regionale del Friuli Venezia Giulia era andata per girare un servizio per il Tg1 sui "bambini senza nome", nati dagli stupri etnici o figli di genitori dispersi. I nostri quattro colleghi furono squarciati da una granata proveniente dalla parte Ovest della città, quella croata, mentre si trovavano in un quartiere musulmano nella parte Est. Con i loro corpi fecero da scudo a un bambino, Zlatko, che oggi è un giovane uomo e che è stato il primo assistito della Fondazione Luchetta Ota D'Angelo Hrovatin che assiste a Trieste i bambini vittime delle guerre. Fondazione che dal 2003 organizza con la Rai un premio giornalistico riservato ai reportage giornalistici dedicati a guerre e conflitti etnici. A Mogadiscio, in terra somala, quella di Ilaria e Miran fu una vera e propria esecuzione, sulla quale a distanza di vent'anni permane il mistero. Un mistero che puzza di veleni, traffico d'armi, rifiuti tossici e radioattivi, tangenti. Un mistero non più sopportabile, sul quale la recente decisione di desecretare gli atti della Commissione d'inchiesta potrebbe finalmente togliere a breve il velo. Lunedì alle 12, a Trieste, in piazzale Rosmini, verrà intitolato ai nostri colleghi un Giardino Comunale non lontano dal centro, dove bambini e ragazzi vanno ogni giorno a giocare mentre gli anziani chiacchierano seduti sulle panchine. Ci saranno i familiari, gli amici, i colleghi, il sindaco Roberto Cosolini e la vicesindaca e collega Fabiana Martini, i rappresentanti dell'Assostampa del Friuli Venezia Giulia e dell'Ordine regionale, che hanno fatto al Comune la proposta dell'intitolazione, prontamente accolta dall'amministrazione di centrosinistra che da tre anni amministra il capoluogo giuliano. Ci saranno anche Franco Siddi e Giovanni Rossi, segretario generale e presidente della Fnsi, che nel pomeriggio parteciperanno all'assemblea annuale del sindacato regionale dei giornalisti. In Corso Italia 13, "casa dei giornalisti" triestini e del Friuli Venezia Giulia, dove una targa già da tempo ricorda i quattro colleghi scomparsi ma anche tutti i giornalisti italiani uccisi dalle guerre, dalla mafia, dal terrorismo. Per non dimenticare. *giornalista del "Piccolo" di Trieste, presidente Assostampa Fvg

PEARL JAM, serata tributo (sabato 10)

Per la serata-tributo a Springsteen, due settimane fa, sono arrivati anche da fuori regione e dalla vicina Slovenia. Ora si replica con un’analoga iniziativa dedicata ai Pearl Jam, che il 22 giugno riempiranno lo Stadio Rocco (oltre 29mila biglietti già venduti su una capienza totale concessa di 30mila presenze). Sabato alle 20.30, sempre al Macaki di viale XX Settembre, l’associazione Trieste is rock presenta infatti “Jammerfest”, serata dedicata ai fan del gruppo di Seattle, con la partecipazione della “tribute band” No Habits PJ Tribute (il loro set è previsto alle 22.30) e di vari artisti e gruppi locali. Insomma, una “marcia di avvicinamento” in piena regola, per preparare i palati alla seratona del mese prossimo. Vediamo allora gli ingredienti di questa serata-tributo. Si comincia subito a scaldare i motori con la Andrea “Cipo” Belgrado Band, Black Pope, Cherry Caroline, One Time Band, Roy Force One. Sarà poi il turno di due band “create per l’occasione”: i Thin Air 2.0 (ovvero Alessandra Calza, Giulio Roselli, Enrico Pettarosso, Andrea Vittori) e i Just One Jam (che schierano Maurizio Bonfiglio, Dario Calandra, Francesco Foti, Christian Zacchigna, Davide Angiolini e Daniele Prada). Ma l’attesa degli appassionati sarà soprattutto per i milanesi No Habits PJ Tribute. Cinque ragazzi (Massimo Venneri, Giuseppe Caputo, Matteo Borbonese, Luca Sorrentino, Alberto Pietrapertosa) che quattro anni fa hanno cominciato la loro avventura quasi per gioco, seguendo la passione per la band capitanata da Eddie Vedder (nella foto) e diventando in breve una bella realtà della musica italiana. Nelle loro performance ripropongono, con l’entusiasmo e lo spirito originario dei Pearl Jam, classici come “Black”, “Immortality”, “I got shit”, ma anche “Alive”, “Rearview mirror”, “Animal”, “State of love and trust”... Una scaletta, quella che propongono dal vivo, puntata soprattutto sui primi cinque album della band di Seattle, con particolare attenzione a brani come “Ten”, “Versus”, “Vitalogy”.

martedì 6 maggio 2014

DANA FUCHS domani a trieste

È arrivato il momento di Dana Fuchs. La splendida “Sadie” del film di Julie Taymor “Across the universe” arriva infatti domani a Trieste, per un concerto che si terrà ai Macaki di viale XX Settembre, a cura dell’associazione Trieste is rock. Chi ha visto il film del 2007, impreziosito dalla colonna sonora composta dai classici dei Beatles e intitolato proprio come un classico dei Fab Four, sa di che tipo di grande interprete stiamo parlando. E il pubblico triestino che ha assistito alla sua “prima volta” triestina, nell’estate 2011 in piazza Unità, lo sa doppiamente. Ha scritto di lei la rivista Stereophile Magazine: «Immaginate un’appassionata e ancor più emozionante Janis Joplin, sostenuta da un energia superiore a quella dei primi Rolling Stones... Il rock’n’roll non potrebbe offrire niente di meglio». Nata nel ’76 nel New Jersey, ma cresciuta in un piccolo centro della Florida, Dana Fuchs ha sempre alternato l’attività di interprete e di cantautrice a quella di attrice, dopo un’adolescenza tutta nel segno della musica. A dodici anni entra nel First Baptist Gospel Choir, a sedici in una band locale, a diciannove parte per New York «per cantare il blues». Lo fa nei club e nei localini della Grande mela, dove incontra Jon Diamond (già con Joan Osborne e Debbie Davies), con cui forma la Dana Fuchs Band. Il gruppo cresce di notorietà, suona nei locali più importanti, divide il palco con gente del calibro di Taj Mahal, John Popper e James Cotton. Poi la ragazza sceglie la strada solista, cantando anche con Etta James (fra le interpreti che l’hanno ispirata, con Otis Redding e Aretha Franklin) e Marianne Faithfull. “Lonely for a lifetime” è il suo primo album, pubblicato nel 2003. In anni più recenti sono usciti anche “Love to beg” (2011) e “Bliss Avenue” (2013). In mezzo, il film che le ha regalato una grande popolarità fra gli amanti del blues e del pop/rock. A quel film - nel quale interpretava con grinta rock blues brani come “Helter Skelter”, “Oh! Darling”, “Why don’t we do it in the road?”... - l’artista americana è arrivata dopo il successo personale ottenuto nel musical “Love, Janis”, dedicato ovviamente alla grande Janis Joplin, da lei fatta rivivere sulle scene di Broadway con grande maestria e passione. Dopo averla vista dal vivo in quel musical, la regista Julie Taymor (quella del film ”Frida”) l’ha scelta per il ruolo di Sadie in “Across the Universe”. Dana Fuchs è particolarmente legata all’Italia. A vent’anni, zaino in spalla e tanto entusiasmo nel cuore, venne infatti per un periodo nel nostro Paese. «L’Italia - ha detto infatti l’artista agli amici di Trieste is rock, in occasione del concerto in piazza Unità di tre anni fa - è il primo paese in cui sono stata. Mi ero appena trasferita a New York, avevo circa vent’anni. Non mi ero mai mossa dagli Stati Uniti e stavo risparmiando, dato che avevo un lavoro regolare. Così a un certo punto mi son detta: devo andare in Italia. Era la prima della lista e ci sono venuta da sola, con lo zaino in spalla, è stata un’esperienza incredibile. Ormai non ricordo quante volte ci sono tornata, nei vari in tour, ma ne vale sempre la pena...». Dana Fuchs torna a Trieste nell’ambito del tour, prima negli Stati Uniti e ora in Europa, seguito alla pubblicazione dell’album “Bliss Avenue”. Aprono la serata i triestini Wind. Informazioni su www.triesteisrock.it