venerdì 29 agosto 2003

BRITTI AL TEATRO ROMANO

TRIESTE Il successo somiglia al potere: spesso rovina le persone, le trasforma, rendendole peggiori di com’erano «prima». Alex Britti - il cui tour ha fatto tappa l’altra sera a Trieste, al Teatro Romano - per ora ha evitato questo destino. Sarà che il successo, nel suo caso, non si è ancora presentato in dosi letali: un paio di affermazioni a Sanremo (primo fra i giovani nel ’99, secondo quest’anno fra i big), qualche disco in classifica, tre o quattro canzoni di quelle che la gente ricorda.
O sarà forse che il cantautore e bluesman romano è giunto al sospirato appuntamento dopo aver passato i trent’anni (ne ha compiuti trentacinque la settimana scorsa), dunque sufficientemente rodato da anni di gavetta. Trascorsi suonando la chitarra - da par suo - all’ombra di mostri sacri come Buddy Miles e Billy Preston, Ray Charles e Joe Cocker... Fatto sta che a vederlo e sentirlo, anche quando si perde un po’ presentando i brani, odora ancora di genuinità e onestà, doti sempre più rare fra i suoi colleghi. E la scelta di girare quest’estate in tour da solo, «Voce kitarra e piede», come recita il titolo dei concerti, accentua quest’impressione.
L’altra sera, nella «bomboniera» del Teatro Romano, Britti ha attaccato puntualissimo, viste le nuvole che non promettevano nulla di buono. E l’ha fatto con «Gelido», che nel ’98 apriva «It.Pop», l’album del debutto. La pedaliera schierata dinanzi allo sgabello dimostra subito di essere protagonista dello show, assieme alla voce e alla chitarra del nostro: gli permette infatti di tirar fuori dalle corde della fidata acustica urli elettrici degni della miglior Fender. Un po’ più tardi (dopo «Come chiedi scusa» ancora dal primo disco, «La vita sognata» e «Sei la fine del mondo», dal recente «3»), il nostro darà anche una piccola dimostrazione delle meraviglie che si possono ottenere, anche dal vivo, con quel campionatore che sta al centro della pedaliera: per esempio registrare un breve tema ritmico con le corde basse della chitarra, poi lasciarlo proseguire, e su quel tappeto sonoro continuare a suonare...
Eccola, la differenza fra presente e passato, per un uomo solo sul palco. Ai tempi di Edoardo Bennato (idolo di Britti quand’era bambino), «one man band» significava una chitarra, un tamburello azionato col piede e un’armonica. Oggi, anche senza ricorrere a basi preregistrate, un abile strumentista - quale il riccioluto romano senz’altro è - può trasformare una chitarra in un’orchestra. Proprio come sognava «Da piccolo», altro brano della serata triestina.
Serata, come si diceva, fatta di afa («non sapevo facesse così caldo, qui al Sud...») ma anche di nuvole. E infatti dopo qualche ballata («Lo zingaro felice», «Una su 1.000.000», «Mi piaci»...) e la strumentale «3 kitarre», arriva nel momento meno opportuno lo scroscio di pioggia atteso tutta l’estate. Smette-non smette? Riprende-non riprende? Il tiraemolla e l’attesa durano mezz’oretta, poi il nostro si fa coraggio, torna in campo e - cambiata la maglietta «fracica» - cala gli ultimi, immancabili assi: «Oggi sono io» e «7000 caffè», «La vasca» e «Solo una volta». Poi ringrazia e saluta. Lasciandosi alle spalle quell’impressione positiva di cui si diceva all’inizio.

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