martedì 19 agosto 2003

LEONARD COHEN

Ora Leonard Cohen ha ripreso a vivere «a Babilonia», cioè a Los Angeles. Villetta bifamiliare, vicino ai suoi figli. Lo studio di registrazione è dall'altra parte del giardino. Per arrivarci, il mostro sacro attraversa un sentiero costeggiato da fiori e piante di pompelmo. Ci va la mattina presto, non disturba nessuno, è tutto così perfettamente insonorizzato...
Di nuovo in mezzo alla gente. Ma per sei anni, dal ’93 al ’99, Cohen si era ritirato in meditazione al monastero zen di Mount Baldy, sulle colline di Los Angeles. Sei anni a meditare ma anche a prendersi cura dell'anziano maestro Roshi. Poi ha deciso di tornare, pubblicando due anni fa anche un disco, «Ten new songs», un altro di quei suoi titoli semplici che hanno punteggiato quasi quarant’anni di carriera, di vita. Una vita contrassegnata da una costante inquietudine e irrequietezza.
Sì, perchè la carriera di Leonard Cohen è la sua vita. Oggi che il mondo della musica (e della letteratura) pullula di personaggi finti, costruiti a tavolino, inventati da qualche creativo in cerca del colpo grosso, non si può non riguardare al grande ebreo canadese con un misto di ammirazione e nostalgia. Quasi con struggimento.
Nato a Montreal, Canada, nel ’34, a nove anni Leonard rimane orfano di padre. Una perdita che lo segna profondamente. Dopo la laurea va a vivere a New York, attirato da un ambiente culturale più vivace. Pubblica le prime raccolte di poesie e un romanzo, «The Favourite Game» (’63), (auto)ritratto di un giovane ebreo di Montreal con ambizioni artistiche, che lo impongono all'attenzione della critica.
Poi vive per sette anni a Hydra, isola greca, dove nel ’66 scrive «Beautiful losers», opera epica dagli accenti religiosi. Continua a girare il mondo, ma torna sempre a New York. Nel libro di poesie «The Parasites of Heaven» appaiono alcuni testi (tra cui la celebre «Suzanne», ripresa anche da Fabrizio De Andrè) che successivamente diventeranno canzoni.
A questo punto, incoraggiato dall’amica cantautrice Judy Collins, si riavvicina al mondo della musica. Sì, perchè ai tempi dell’università il nostro già suonava in un trio country’n’western, The Buckskin Boys. Stavolta è diverso. Nel ’67, già trentatreenne, Cohen debutta dal vivo al Newport Folk Festival. Nel ’68 esce «Songs of Leonard Cohen». Toni malinconici, sommessi, portati a spasso da quella voce profonda, morbida e al tempo stesso tagliente. Il disco ottiene un immediato e notevole successo, tanto da convincere la casa discografica e il suo stesso autore (che forse pensava a una mera parentesi nell’attività letteraria) a dargli subito un seguito.
L’anno dopo arriva infatti «Songs from a room», che con «Songs of love and hate» (del ’71) confermano Cohen fine cantore del dolore e della solitudine. Nel ’73 esce «Live songs», con quella «Please don't pass me by» che sorprende qualche fan per la lunga improvvisazione blues. Alcuni dicono che la prima parte della carriera di Cohen finisce qui. L’uomo entra infatti in un periodo di crisi personale, dal quale esce con la pubblicazione nel ’74 di «New Skin for the Old Ceremony». Un titolo che fa pensare a una svolta, che forse avviene ma senza che cambi lo stile. «Death of a ladies’ man» (’77), titolo anche di una raccolta di poesie, sorprende per gli arrangiamenti qualche fan affezionato alle ambientazioni spartane «chitarra e voce». Esce anche un «Greatest Hits» con i classici dei primi quattro dischi, premiato da un grande successo di vendite.
«Recent songs», del ’79, si propone come un disco più complesso. Cohen mette da parte i travagliati amori di coppia e comincia a riflettere - anche in forma di canzone - sulle sue lunghe esplorazioni religiose, che lo portano anche a far parte di Scientology, prima di approdare al buddismo.
«Various Position», dell’85, è un ulteriore approfondimento della riflessione religiosa, che partorisce salmi talmente gradevoli da poter essere scambiati per canzoni d'amore. «I’m your man» (’88) riporta Cohen al successo dopo un periodo grigio. L’apocalittico «The future» (’92) è l’ultimo disco prima della scelta di ritirarsi nel monastero buddista californiano di cui si diceva all’inizio.
La meditazione religiosa e filosofica dell’uomo, prim’ancora che dell’artista, è così profonda da isolare Cohen, che sceglie di vivere solo, lontano dalle scene ma anche dal mondo, quasi in esilio, in un silenzio assoluto. Nove anni di silenzio discografico, che la casa discografica rompe con un’antologia e un paio di live, fra cui «Field Commander Cohen», con materiale che risale al tour del ’79. Gli arrangiamenti particolarmente ricchi, quasi rock, donano nuova luce a classici come «Lover, Lover, Lover», «Hey That’s No Way To Say Goodbye», «The Stranger Song», «Memories», «So Long, Marianne»...
Antipasto dell’ennesimo ritorno. Capace di sorprendere e sorprendersi ancora. Nel segno della poesia. Alla vigilia dei settant’anni. «Credo che l’unica vera esperienza dell’essere umano sia la sconfitta», ha detto una volta.

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