Parla un po’ anche di Trieste, del Carso, di Banne e ovviamente del «tram de
Opcina», il nuovo libro di Francesco Guccini. «Cittanòva Blues» (Mondadori,
pagg. 217, euro 15) conclude l’ideale trilogia, lo zibaldone autobiografico
avviato nell’89 con «Cròniche epifaniche» e proseguito nel ’93 con «Vacca
d’un cane». Sì, perchè il lungagnone di Pàvana, appennino tosco-emiliano (ma
lui è nato a Modena, nel 1940), cantautore e da qualche tempo narratore fra
i più amati dal pubblico, quarant’anni fa o giù di lì fece il militare
proprio in una caserma a Banne, sul Carso triestino, a un tiro di schioppo
da Opicina.
E quell’«eskimo innocente dettato solo dalla povertà», cantato in una delle
sue canzoni più applaudite ai concerti, poi sostituito da «un ricco e
imbottito McGregor di velluto a coste», l’aveva comprato proprio a Trieste,
subito dopo il servizio militare, quando il suddetto capo d’abbigliamento
«non aveva ancora quel significato simbolico che avrebbe avuto in seguito».
«A Trieste - aveva raccontato una volta Guccini - facevo il fighetto. Un
signore, altro che. Novantamila lire al mese più altre cinquemila di
frontiera orientale, quindi zona disagiata. In realtà, la zona non era
disagiata per niente. La città era bella, d’inverno tirava la bora ma con la
bella stagione si andava anche al mare. Allora Trieste aveva due caserme in
città, una su in altopiano a Poggioreale del Carso e un’altra ancora a
Banne, molto lontana. Quando ci assegnarono le sedi, pregai di essere
mandato in città o quantomeno di evitare Banne e bestemmiai a lungo quando
mi dissero che, naturalmente, era lì che sarei finito».
Ancora Guccini: «In realtà, già pochi giorni dopo il mio arrivo mi resi
conto che non solo non era una sventura, anzi, mi era andata di lusso. Il
nostro comandante di battaglione, il maggiore Giacchini di Pesaro, non amava
che i suoi soldati girassero per la città in divisa, così quasi ci
costringeva, per la nostra gioia, a uscire in borghese. Solo le ragazze più
belle per i miei ragazzi, diceva. Era un patito delle bisbocce e quindi
organizzava lui stesso spettacolari cene cosiddette ”di calotta”,
associazione nominale che unisce gli ufficiali cosiddetti inferiori -
sottotenenti, tenenti e capitani - di uno stesso gruppo. Erano balle a non
finire, balle nel senso di ubriacature, con il maggiore in testa a dare
l’esempio».
Se «Cròniche epifaniche» raccontava l’infanzia pavanese e «Vacca d’un cane»
l’adolescenza nella Modena degli anni Cinquanta, ora siamo nella Bologna
vivace e curiosa e un po’ alcolica dei Sessanta. Anzi, per l’esattezza,
dalla fine degli anni Cinquanta ai primissimi Settanta. I ragazzi e le
ragazze di allora, i loro luoghi, le passioni, i sogni. Ecco la prima
Cinquecento, le immancabili osterie, la mitica chitarra Carmelo Catania, i
primi complessi (che non si chiamavano ancora gruppi e tantomeno band...),
il sesso assai parlato e pochissimo praticato. Sullo sfondo, i primi vagiti
della contestazione. Dietro l’angolo, sempre, l’eterno sogno americano. E
poi la naia, a Lecce, a Roma e infine a Trieste. E poi ancora, al ritorno,
la ripresa degli studi universitari. E le canzoni.
Quasi un romanzo di formazione, insomma, in una prosa caratterizzata e in
qualche modo impreziosita da gerghi dialettali e preziosismi letterari. Il
gergo di Guccini, che sa imprimere anche alle pagine un ritmo quasi
musicale. Per cantare in prosa la sua città e l’epoca dei suoi vent’anni
(«perché a vent'anni è tutto ancora intero, perché a vent'anni è tutto chi
lo sa, a vent'anni si è stupidi davvero, quante balle si ha in testa a
quell’età...»: «Eskimo», appunto). Per cantare la provincia italiana degli
anni Sessanta, diversa ma simile sotto ogni latitudine.
I primi due capitoli della trilogia erano usciti per Feltrinelli. Ora il
passaggio a Mondadori. Dopo un decennio di «pausa autobiografica», occupato
dalla collaborazione con il giallista Loriano Macchiavelli, foriera del
libro «Macaroni» (uscito nel ’97) e di altri tre titoli.
«Cittanòva Blues» (in coda c’è anche un utile glossarietto, eredità di
un’altra pubblicazione del nostro: il Dizionario del dialetto di Pàvana,
curato e pubblicato nel ’98) conclude la trilogia dei ricordi. Dopo la
quale, ha detto Guccini in un’intervista, «ho pronte cinque canzoni per un
nuovo album, ma so che non bastano. Sto anche pensando a una specie di saga
familiare sulla storia d’Italia: dalla seconda metà dell’Ottocento ai giorni
nostri».
«Poi vorrei parlare di mondi lontani, luoghi visitati come turista per caso.
Ho già pronti tre racconti, ambientati rispettivamente in Argentina, Brasile
e Sicilia. E ne ho in mente uno sulle isole Mauritius. Dovrò trovare una
lingua unica, uno stile in grado di omologare realtà così diverse...».
Insomma, sempre più scrittore, sempre meno cantautore.
Ma torniamo ancora per un attimo al soldato Guccini nella caserma di Banne.
«Io ero inoltre coccolato da tutti - aveva raccontato il cantautore - perchè
sapevo suonare uno strumento. E quando arriva una chitarra in caserma, tutti
fanno festa. Il maggiore Giacchini divenne il mio primo fan. Alle cene di
calotta, quando era oramai prossimo a crollare riverso sul tavolo, si
rivolgeva a me ad alta voce: Guccini, una bottiglia di cognac per il tuo
tavolo se ti ricordi questa canzone. Io magari non la sapevo, ma al mio
tavolo per una bottiglia di cognac l’avrebbero anche scritta lì sul momento,
la canzone...».
Nessun commento:
Posta un commento