domenica 30 novembre 2003

IVANO FOSSATI ALLA TRIPCOVICH

È un Ivano Fossati nuovo, diverso, inedito, quello visto ieri sera alla Sala Tripcovich, nella tappa triestina del suo tour teatrale. Un Fossati che parla, scherza, ride, si prende addirittura bonariamente in giro. Un Fossati che a mezzanotte, dopo due ore e mezzo di grande musica, all’ennesimo bis lascia tutti a bocca aperta tirando fuori dal cilindro una versione un po’ blues e un po’ jazzata de «Il ragazzo della via Gluck». Roba di Adriano Celentano, roba del ’67, canzone geniale a suo avviso, che nessuno avrebbe mai creduto di sentirgli un giorno cantare dal vivo.
Cose che succedono in questo mondo. Un mondo, ti viene in mente vedendo il cinquantaduenne artista genovese illustrare le caratteristiche di una mandola orientale, nel quale a Oriente non c’è soltanto il presunto nemico dell’Occidente. C’è anche la culla della civiltà da cui discendiamo tutti. Verità cui non sembra pensare più nessuno. Dall’«altipiano barocco d’Oriente, sagrato immenso» arrivano oggi donne e uomini in cerca di un futuro fatto anche di «Pane e coraggio», titolo del brano che ha aperto la serata. Canzone intensa, struggente, figlia di «Italiani d’Argentina», di quando gli emigranti eravamo noi. Canzone popolata di anime salve, immigrati dagli occhi neri, che «ci vuole coraggio a trascinare le nostre suole da una terra che ci odia a un’altra che non ci vuole».
Man mano che prosegue la serata, al posto del solito Fossati, intellettuale impegnato (quasi) a tutti i costi, a volte difficile da seguire, si scopre un artista nuovo. Che non rinuncia all’impegno da poeta civile, ma sembra aver per la prima volta dopo tanto tempo recuperato una certa qual leggerezza, una nuova semplicità, quasi una gioia di vivere. Non sta per tutta la sera nascosto dietro al pianoforte, parla con il pubblico, ricorda episodi del passato più o meno lontano, la sua infanzia, l’amore per i burattini. Si prende insomma anche la libertà di sorridere. E lo fa all’interno di uno spettacolo acustico, rinunciando quasi interamente alla tecnologia: strumenti veri, lui e la sua maiuscola band (col figlio Claudio alla batteria), come se fossero in una bottega artigiana ricca di idee, circondati da oggetti quotidiani che si trasformano in macchine sonore. Ecco allora - in una scenografia assolutamente teatrale, con quattro enormi abat-jour di tulle - una ruota di bicicletta che «suona» come si faceva da ragazzini infilando un cartoncino fra i raggi, ecco i bicchieri di cristallo da suonare con le bacchette, ecco una vecchia radio a valvole che gracchia.
Dopo «Pane e coraggio», che sta nell’ultimo «Lampo viaggiatore», un salto indietro di oltre dieci anni, per ripescare da «Lindbergh» un brano come «La barca di legno e di rosa». E poi subito l’omaggio a De Andrè, con «Smisurata preghiera», e quello a Chico Buarque de Hollanda (e alla saudade sudamericana cui il nostro è sempre stato sensibile), con «Oh che sarà».
Il viaggio nella memoria, in bilico fra tempo perduto e presente, sceglie poi i toni minimalisti di «C’è tempo» (dal nuovo disco), le suggestioni di «L’uomo coi capelli da ragazzo», i ricordi bambini di «La casa», la magia di «Una notte in Italia», l’allegria contagiosa di «Buontempo». Geografia dell’anima, percorsa con sguardo emozionato e attento alle ragioni del cuore e della mente.
Secondo tempo. Subito gli afrori forti de «La pianta del tè», e poi un gioiello sentimentale come «Il bacio sulla bocca» («la mia unica canzone d’amore a lieto fine...»), e ancora la raffinata semplicità di «Cartolina». Prima del crescendo finale che veste gli abiti sgargianti di «Discanto», di «Mio fratello che guardi il mondo» («e il mondo non somiglia a te...»), di «Terra dove andare».
I bis, stavolta, non sono una formalità. E fra i bis, aperti da «I treni a vapore», arriva la citata sorpresa del «Ragazzo della via Gluck». E ancora «La musica che gira attorno». Con Fossati che imbraccia ridendo la chitarra. Roba da non credere. A chiusura di un concerto assolutamente trionfale.

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