Si conclude con «A hard rain’s a-gonna fall», di Bob Dylan, il nuovo spettacolo di Moni Ovadia «Es iz Amerike!», che ha debuttato l’altra sera al Rossetti. Una «Hard rain» alla maniera di Tom Waits: voce roca, lacerata, grattata, piena di buchi e ragni. Una «Hard rain» più che mai attuale e profetica, oggi che l’America, terra di libertà nell’immaginario collettivo del Novecento, si propone come gendarme del mondo e si scopre stretta fra guerre preventive e rovinosi uragani.
Lo spettacolo dell’ebreo bulgaro/milanese Ovadia, presentato l’estate scorsa al Mittelfest, parte da un dato di fatto: la storia dello spettacolo e della cultura americani non può prescindere dalla linfa portata dagli ebrei. Da Al Johnson ai primi produttori di Hollywood, dai fratelli Marx a George Gershwin (vero nome Jakob Gershowitz), da Leonard Bernstein a Woody Allen, da Fred Astaire (che di cognome faceva Austerlitz) a Irving Berlin, da Allen Ginsberg appunto fino a Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan.
Le scene rilanciano i grattacieli di New York, entra Moni e attacca con piglio swing «Rotchild». Poi il grande affabulatore comincia un altro capitolo del suo eterno racconto. Dice che la storia comincia oltre un secolo fa, quando due milioni di ebrei orientali, cioè russi, polacchi, ucraini, bielorussi, decisero di abbandonare le loro terre. Vita dura sotto lo zar: i ricchi diventavano più ricchi, i poveri sempre più poveri. Metà della popolazione era composta da «luftmench», uomini d'aria, i disoccupati di oggi, e vivevano di elemosina.
Ma le tempeste rivoluzionarie dell'Europa occidentale cominciavano a toccare anche quei territori. Molti giovani lasciavano i villaggi, le casupole di legno, le strade di fango, partivano per Varsavia, Minsk, Bialistok. Operai nelle prime manifatture. Scriveva il pro-pro-pro cugino Moyshele (classico personaggio delle storie di Ovadia) alla mamma: «Si lavora dalle sette di mattina alle undici di sera. A volte tutta la notte. Questo vuole il padrone».
Prime idee rivoluzionarie. Ebrei in prima fila. Repressione durissima. E la decisione: andare oltreoceano, in quel grande e mitico paese che erano gli Stati Uniti. Con la maledizione degli anziani: «Quel paese è una dannazione. Vi faranno mangiare cibi impuri. E dimenticherete lo Shabbat, la nostra festa...».
Il racconto procede alla maniera di Ovadia, fra canzoni e aneddoti e storielle che strappano il sorriso, anche quando è sorriso amaro. Il viaggio, l’arrivo a Ellis Island, le visite mediche, il villaggio che risorge, le prime attività, i piccoli commerci, gli affari: la tradizione ebraica accanto alla modernità di Manhattan. E la sinagoga, dove il canto straziante del cantore accende la nostalgia.
Alcuni di quei cantori diventarono star dell'opera, come Ian Pierce e Richard Tucker. Le avanguardie dei tanti americani ebrei di cui si diceva all’inizio, e che hanno segnato la storia dello spettacolo americano e di tutto il mondo.
«Es iz Amerike!» - che si replica fino a domenica - ha la preziosa capacità, tipica di Moni Ovadia, di raccontare storie e trattare temi serissimi e spesso tragici con leggerezza, col sorriso sulle labbra ma il cervello sempre ben collegato. Sempre più sorprendente lui, attempato ma irresistibile showman. Non perde un colpo la Stage Orchestra diretta con piglio da primus inter pares da Emilio Vallorani. E Lee Colbert (che regala una «Funny girl» da antologia e una «Summertime» che in yiddish diventa «Zummertsait») è la rossa ciliegina su una torta gustosissima e nobilmente meticciata.
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