Avvengono strani cortocircuiti, quando la realtà bussa alla porta effimera della finzione. Quando i tanti drammi, piccoli e grandi, le tante tragedie del mondo e della vita si insinuano anche nel programma leggero per antonomasia della nostra (pessima) televisione del 2005. Un po’ come quando qualcuno si alza e svela a tutti la vecchia verità: «il re è nudo».
È successo ieri, durante la serata d’apertura della 55.a edizione del Festival della canzone italiana di Sanremo. Quello targato Paolo Bonolis, che - pur affiancato da un’Antonella Clerici imbarazzante da vedere e una Federica Felini imbarazzante da sentire -, con il suo garbo, la sua intelligenza, soprattutto la sua capacità di sdrammatizzare tutto con una battuta, rappresenta l’unica vera novità di un carrozzone altrimenti immutabile quale quello del festivalone.
Dopo due ore e mezzo di solite cose, alle 23.14 Bonolis si è seduto sui gradini della scalinata che sta al centro anche della scenografia di quest’anno e ha cominciato a parlare di cose reali, di un mondo dove spesso accadono cose che non vorremmo, a parlare insomma di guerra, di morti, persino di ossimori come «guerra di religione». Come aveva preannunciato, il conduttore ha anche aggiunto il suo appello ai mille e mille di questi ventisette giorni per la liberazione di Giuliana Sgrena. «Il nostro auspicio - ha detto - è che Giuliana possa tornare presto a casa e ai suoi cari. Il suo rapimento è anche un attentato alla libertà di informazione».
Le immagini di una neonata fortunata perchè nata in Occidente, seguite dalle drammatiche fotografie di una bimba scheletrica nata «nella parte sbagliata del mondo», il collegamento con il Darfur, in Sudan, con l’annuncio di una raccolta di fondi per la costruzione laggiù di un ospedale e di una scuola, hanno fatto il resto.
Tredici minuti di dura realtà incastonati nella finzione. Poteva essere solo «il momento dell’impegno», buono per lavarsi la coscienza e riprendere subito dopo a occuparsi di canzonette, ma dopo l’interruzione pubblicitaria Bonolis ha dato l’annuncio della morte di Alberto Castagna (ne riferiamo nella pagina seguente), e a quel punto emozione si è sommata a emozione. E la serata «leggera» poteva tranquillamente concludersi lì. Come da copione, invece, e forse giustamente, si è andati avanti. Fino a ora tardissima.
Prima, il Festival si era aperto - come annunciato - con l'inno di Mameli suonato dalla chitarra di Paolo Carta: rock ma non troppo, forse per non urtare l’alto e malinteso senso patriottico di qualcuno. L'inconsueta apertura, preceduta da un’astronave in stile «Odissea nello spazio» e da citazioni da Wim Wenders, è stata seguita da un omaggio a Lucio Battisti, Luigi Tenco e Fabrizio De Andrè cantato da tutti i concorrenti della sezione giovani. Atmosfera fra «Amici» della De Filippi e Sanremo Famosi.
Il resto? La sfilata dei venti «big», divisi quest’anno fra classici, uomini, donne e gruppi: da Umberto Tozzi via via a tutti gli altri, con citazione obbligata per l’ottantunenne Nicola Arigliano, salutato da una standing ovation.
Ma cantanti e canzoni in gara sono, come al solito, l’anello debole della questione. E il paragone diventa impietoso quando sbuca Michael Bublè, il nuovo re dello swing, nonostante un microfono che a un certo punto va in tilt. Fa anche uno spiritoso duetto con Bonolis, che sfocia in un omaggio a Renato Carosone e al suo «Tu vuo fà l’americano». Il resto è noia.
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