La ricerca della verità, certo. Ma forse dall’estremo sacrificio di Nicola Calipari, cui già Giuliana Sgrena deve la vita, un giorno potrebbe nascere qualcosa di ancor più importante, che ha a che fare con la pacificazione del nostro Paese.
Se ne parla da anni, a proposito e a sproposito. L’ultima volta solo poche settimane fa, in occasione delle rivelazioni di Achille Lollo sulla strage di Primavalle, nel 1973. Anni in cui in Italia si sparava per le strade, anni in cui ad alcuni sembrava che la lotta politica avesse fra i suoi strumenti la violenza, anni in cui l’avversario politico era spesso considerato un nemico da eliminare con ogni mezzo. Anni di odio, di slogan truci e funerei, che accomunavano tutto e tutti, da una parte e dall’altra. Rossi contro neri, neri contro rossi, rossi e neri contro le forze dell’ordine.
Sì, perchè in quel «mondo a parte» che era diventata l’Italia degli anni Settanta, il nemico era rappresentato anche dalle forze dell’ordine, dagli apparati dello Stato, servizi segreti in primis. C’era stata la stagione delle stragi (cosiddette per l’appunto «di Stato»), a far fiorire sospetti e pregiudizi e risentimenti nei confronti degli uomini dei servizi, deviati e non.
Tanti anni dopo, i fatti del G8 di Genova non hanno fatto che riproporre e rafforzare quelle antiche diffidenze e quelle contrapposizioni dure a morire. Ma il rapimento di Giuliana Sgrena ha permesso nelle scorse settimane per esempio alla famiglia del «Manifesto» («quotidiano comunista», come si legge ancora sotto la testata) di conoscere un uomo dei servizi, di collaborare con lui, di fidarsi di lui e del suo lavoro. E di scoprirsi basiti e sopraffatti dal dolore dopo il tragico, assurdo, incredibile epilogo della vicenda.
Una vicenda che almeno potrebbe servire – più delle parole e della retorica – a rafforzare in tutti il senso dello Stato, dell’appartenenza alla stessa comunità nazionale, del rispetto nei confronti di chi mette a rischio la propria vita per un lavoro al servizio di una collettività.
Attraverso questo percorso, trenta e più anni dopo la stagione dell’odio politico e dei morti nelle strade, forse si potrebbe arrivare anche a quella pacificazione di cui alcuni, periodicamente, si riempiono la bocca. E per ottenere la quale non bastano le amnistie. Ma serve innanzitutto il rispetto per chi fa il proprio dovere, per chi la pensa in maniera diversa, e magari anche la non demonizzazione dell’avversario.
«Credo che Nicola Calipari debba essere considerato un eroe – ha detto il direttore del ”Manifesto” Gabriele Polo, nato a Monfalcone, figlio di operai dei cantieri navali – come tutte le vittime morte mentre stavano facendo una cosa giusta senza tornaconto personale. Era uno dei servizi? Ho imparato che le persone si giudicano non dalla loro divisa, ma dai loro comportamenti...».
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