domenica 25 settembre 2011

MILES DAVIS 20 +


Disse una volta di lui Max Roach: «Miles Davis aveva la capacità di trasformare qualsiasi musica in qualcosa di eccezionale». Già, qualsiasi musica. Jazz, rock, classica, persino motivetti di musica pop, come “Time after time” di Cindy Lauper o “Dune mosse” di Zucchero, di cui regalò versioni già passate alla storia.

Sono già trascorsi vent’anni, da quel 28 settembre del 1991 quando la sua tromba tacque. Un silenzio solo momentaneo, e comunque illusorio, se è vero com’è vero che la musica del grande artista non è mai stata spenta in questi anni, e che la sua influenza su jazzisti giovani e meno giovani è sempre rimasta fortissima.

Qualcuno una volta l'ha ammesso: Miles è stato il Beethoven del Novecento. Nonostante le esagerazioni, nonostante i senili capricci da rockstar, nonostante i vezzi da divo vanitoso. Perchè nessuno ha impresso alla musica del ventesimo - e forse ventunesimo - secolo una svolta paragonabile alla sua.

«Il bebop era un cambiamento, un'evoluzione. Non era certo stare immobili, al sicuro», disse una volta. Aggiungendo: «Se uno vuole continuare a creare, deve essere aperto al cambiamento: la vita è un'avventura e una sfida. Quando qualcuno viene da me e mi chiede di suonare una cosa tipo "My funny Valentine", perchè gli ricorda quando ha fatto l'amore con quella meravigliosa ragazza e le splendide emozioni di quel momento, io lo capisco. Ma gli rispondo di andarsi a comprare il disco».

Cambiamento e apertura al nuovo quasi alla stregua di un manifesto programmatico. Già nel '49 di quel suo memorabile “Birth of the cool”, e poi negli anni Cinquanta, il suo verbo era: abbattere gli steccati. Spazzar via ogni divisione fra generi musicali. Coniugare citazioni colte e motivetti leggeri, stilemi afroamericani e arrangiamenti rock.

Era nato ad Alton, Illinois, nel '26. Infanzia a Saint Louis, all'epoca fra i maggiori serbatoi jazz, con New York e New Orleans. A tredici anni il padre, dentista, buona borghesia di colore, gli regala una tromba. Il primo insegnante gli consiglia di suonare senza vibrato: «Tanto, da vecchio comincerai a tremare comunque...».

Nel '41 debutta con il complesso di Eddie Randall. Nel '44 entra nell'orchestra di Billy Eckstine, che all'epoca schierava i migliori giovani rivoluzionari del bop: Charlie Parker (il suo favorito), Dizzy Gillespie, Dexter Gordon... Va a New York, alla Juilliard School of Music, per studiare seriamente, ma passa gran parte del tempo a inseguire Parker nei locali notturni della Cinquantaduesima. Arriva il momento in cui i due salgono sul palco assieme. E la tromba del maestro trova in lui un prezioso contraltare. È solo il primo capitolo di una carriera quarantennale, che troverà Miles Dewey Davis III (questo il nome completo per l'anagrafe) sempre al centro dei cambiamenti della musica.

Ha sempre dialogato e collaborato con tutti: Gil Evans e Gerry Mulligan, Thelonius Monk e Sonny Rollins, mille altri. Lasciando dischi che somigliano a pietre miliari. Fra i tanti: “Miles ahead”, in cui suona solo il flicorno, e “Kind of blue”, considerato uno dei suoi capolavori. Ma anche “In a silent way” e il leggendario “Bitches brew”, che lo allontanarono dal jazz ortodosso.

Nell'aprile dell'89, due anni e mezzo prima di morire, Miles Davis suonò al palasport di Udine. Quando si spensero le luci l'impressione fu quella di essere ammessi al cospetto di un principe guerriero. Una di quelle figure ieratiche che ancor oggi popolano il continente africano. Fra le mani la tromba, dalla quale sgorgava autentico magma incandescente, con cui costruiva percorsi onirici: fraseggi inquieti e quasi nevrotici, che brillavano su intricati tappeti ritmici. Fu una grande serata, ricca di magia e genialità, ma anche dei residui di una rabbia che si poteva ancora intuire dietro quella faccia che avrebbe fatto felice l'arte fotografica di Mapplethorpe.

Quella sera di ventidue anni fa, il palasport friulano era zeppo di giovani e giovanissimi. Accorsi per vedere da vicino il santone del jazz che flirtava con il rock, per ammirare il padre della nuova musica, per rendere omaggio al riconosciuto maestro della metamorfosi.

Si erano trovati dinanzi una splendida faccia enigmatica, uno sguardo malinconico nascosto dai soliti occhialoni scuri, una (triste) parrucca di riccioli neri che tentava senza successo di barare nella partita con il tempo e con l'età.

Pochi anni prima di morire disse: «Gente, io non sarò ancora qui molto a lungo. E devo vivere secondo il mio meglio, non il loro». I suoi resti riposano nel Woodlawn Cemetery nel Bronx di Manhattan.

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