sabato 11 aprile 2009

35 ANNI FA ORNETTE COLEMAN ALL'OPP


Torna Ornette Coleman, e il pensiero schizza indietro di trentacinque anni. Una vita, sì. E un mondo diverso. La libertà entrò nel manicomio triestino di San Giovanni il 15 maggio 1974, vestita di una splendida giacca patchwork. Pezzetti di velluto cuciti l'uno con l'altro. Di tutti i colori: rosso, giallo, verde, marrone, blu, viola... Quasi la rappresentazione visiva della musica che usciva a scatti nervosi dal sax di quel signore che vestiva la giacca in questione.

Lui era proprio Ornette Coleman, classe 1930, americano del Texas, nero, uno dei maggiori innovatori della musica jazz degli anni Sessanta e Settanta. Il profeta del "free", quella forma di jazz che era nata fra New York e Chicago, quasi parallelamente alle grandi battaglie razziali di Martin Luther King e di Malcom X. E in quel maggio del '74, in una Trieste che viveva un'altra grande battaglia di libertà e di dignità delle persone, e che negli anni precedenti aveva al massimo assistito ai primi vagiti del nascente pop italiano (la Premiata Forneria Marconi, le Orme, il Banco del Mutuo Soccorso...), il concerto di Coleman fu il primo di una serie abbastanza lunga che contribuì non poco ad abbattere il cancello che separava il vecchio frenocomio aperto nel 1908 dal rione di San Giovanni e dalla città di Trieste. E a dar corpo all'unica rivoluzione, quella basagliana, che la città ha visto nascere e compiersi.

In quella calda sera di maggio il jazzista statunitense propose con il suo quartetto una musica assolutamente libera, fuori dagli schemi conosciuti, basata quasi interamente sull'improvvisazione. Seguiva l'estro del momento. Ispirato da una situazione circostante che vedeva diverse centinaia di giovani appassionati di musica, attirati dal grande nome, mischiati a qualche decina di pazienti. I cosiddetti matti, a tratti divertiti ma forse più spesso spaesati dinanzi a quel che stava accadendo attorno a loro. In quel campetto di calcio che anni dopo lasciò il posto a una brutta costruzione ma quella sera era un luogo di libertà. Dove i presunti normali stavano fianco a fianco ai presunti matti.

Di più. Nei momenti in cui la frammentazione e l'irregolarità del ritmo e della metrica venivano portate alle estreme conseguenze, in una cavalcata musicale condotta da un sax quasi impazzito e supportata da una solida sezione ritmica, alcuni di quei matti ridevano, altri si chiudevano le orecchie con le mani. Rimpiangendo probabilmente il silenzio e la tranquillità che in quel parco, fino a quella sera, l'avevano fatta da padrone.

Sì, perchè dopo quella sera, nel parco e nel piccolo teatrino del grande ospedale psichiatrico, nulla fu più come prima. Poco meno di un mese dopo, il 12 giugno, arrivano gli Area del compianto Demetrio Stratos. Dopo l'album d'esordio,"Arbeit macht frei", ovvero "il lavoro rende liberi" (frase che stava scritta all'ingresso dei campi di sterminio nazisti...), era appena uscito il disco "Caution Radiation Area". Con dentro un brano intitolato "Lobotomia", dedicato a Ulrike Meinhof e caratterizzato da suoni ossessivi e lancinanti. Praticamente l'ideale per un concerto dentro a un manicomio...

Passa l'estate. E a settembre a San Giovanni arrivano prima il quartetto di Giorgio Gaslini (con il friulano Andrea Centazzo alla batteria) e poi Gino Paoli. Il jazzista milanese era l'inventore della "musica totale", l'utopia che diventava realtà di un genere in grado di abbattere barriere, schemi, luoghi comuni. Jazz che flirtava con la musica popolare e contemporanea, che si mischiava con generi "altri" per poi uscirne rigenerato.

Paoli, invece, monfalconese di nascita ma genovese d'adozione, era in quel periodo in una fase di mezzo, stretto fra i grandi successi degli anni Sessanta e la stagione che di lì a poco lo avrebbe riavvicinato al grande pubblico. A Trieste strinse rapporti anche di amicizia, con Peppe Dell'Acqua e altri, che lo avrebbero riportato tante volte, in questi trent'anni, a testimoniare la propria vicinanza alla rivoluzione basagliana.

Ma torniamo a quel 1974. A ottobre, nel teatrino dell'Opp, arrivano i napoletani Saint Just, trio capitanato da Jane Sorrenti, sorella dell'allora più famoso Alan Sorrenti. Nella stessa sera c'è anche Dodi Moscati, ricercatrice e cantante toscana appassionata di musica popolare (scomparsa pochi anni fa). A dicembre, la sera dopo il giorno di Natale, il palco del teatrino viene diviso da Franco Battiato e Juri Camisasca. Il primo non è ancora il cantante pop di successo che sarebbe diventato a partire dal '79 con album come "L'era del cinghiale bianco", "Patriots" e "La voce del padrone". Il secondo non è stato ancora colpito dalla crisi mistica che lo avrebbe poi portato a chiudersi per tanti anni in un monastero. All'epoca sono due artisti di nicchia, quasi d'avanguardia, amati solo da un pubblico di appassionati.

Li ritroviamo assieme, Battiato e Camisasca, nel parco dell'ospedale psichiatrico, poco più di due anni dopo. Nell'aprile del '77, assieme ad Alfredo Cohen e Alberto Camerini, in una "due giorni" che è una sorta di anteprima di quello che a settembre sarebbe stato il grande Reseau internazionale. Due giorni di musica e buone sensazioni, organizzati dai ragazzi di Canale 89, l'emittente radiofonica che in quei mesi era diventata un punto di riferimento per la parte più politicizzata della gioventù triestina.

Tanti altri musicisti, noti e meno noti, hanno suonato in tutti questi anni nel grande comprensorio di quello che poi sarebbe diventato l'ex ospedale psichiatrico di San Giovanni. Anche grazie a loro, e ai tanti giovani accorsi per vederli e sentirli, il processo di chiusura del manicomio - e di restituzione della grande area verde alla città - è stato portato a termine. Con la musica, con le parole, con il linguaggio universale dei suoni: forma d'arte popolare dinanzi alla quale siamo tutti uguali, senza distinzioni di alcun tipo.

«Sì, la musica è stata una costante nel nostro lavoro - ammette Peppe Dell’Acqua, direttore del Dipartimento di salute di mentale di Trieste ed erede, assieme a Franco Rotelli, di Basaglia -, quei giovani che negli anni Settanta entravano per la prima volta a San Giovanni per seguire i concerti ci permisero di entrare in contatto con la città. E non a caso quel primo contatto avvenne con la parte più giovane della popolazione, quella priva di pregiudizi, aperta al confronto con l’altro. Ricordo i grandi concerti, ma anche le esperienze dei laboratori teatrali, il cinema...».

La storia della rivoluzione basagliana, trenta e più anni fa, è passata anche da lì. Da quelle serate di musica e di libertà. E di un mondo che non esiste più.

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