giovedì 13 marzo 2008

TRIESTE Il Politeama Rossetti ieri sera sembrava il Radio City Music Hall. Protagonista del miracolo un certo Mario Biondi, ragazzone siciliano alto quasi due metri, classe ’71, che sembra aver... inghiottito Barry White quand’era ancora in fasce, nella sua Catania sempre più capitale musicale del Sud. Che emozione sentirlo cantare. E che storia, la sua. Basti pensare che due anni fa erano in pochi a conoscerlo, nel nostro Paese dei pochi profeti in patria. In compenso colui che per l’anagrafe si chiama Mario Ranno (il cognome d’arte l’ha ereditato dal padre, il cantautore Stefano Biondi), dopo aver lasciato la sua Sicilia ed essere approdato prima a Reggio Emilia e poi in quella Parma dove vive tuttora, aveva già lavorato con una certa qual soddisfazione a New York, a Londra e persino in Giappone.

L’Italia l’ha scoperto quando proprio non poteva farne a meno. Grazie all’album «Handful of soul», uscito nell’ottobre 2006. Grazie al tormentone «This is what you are», che dopo aver sbancato Radio Bbc1 (dove il dj Norman Jay lo aveva inserito nella sua playlist e nella compilation «Good Times 5», assieme ad artisti del calibro di Otis Redding, Marvin Gaye e James Brown), diventa il jingle natalizio di Radio Montecarlo. Grazie al duetto di Sanremo 2007, con Amalia Grè, in «Amami per sempre». Ma soprattutto grazie a un lungo tour poi immortalato dal doppio dal vivo «Mario Biondi and Duke Orchestra, I love you more - Live», uscito nel novembre scorso.

Il concerto triestino è stato un gioiellino di classe, eleganza e buon gusto. Sin dalla scenografia, costruita su un gioco di sipari velati che salgono e scendono a seconda delle esigenze, e sui quali vengono proiettate delle immagini. Si parte con un Biondi trasformato in fumetto e con dei grandi orologi, che ritornano nel corso della serata, le cui lancette corrono veloci a simboleggiare il tempo che scappa via. In questa «vita che è come uno spartito, che ognuno interpreta come vuole», riflette l’artista.

Tre, due, uno... La grande Duke Orchestra è pronta e infila «A child runs free», il brano che apriva l’album «Handful of soul». «Close to you», che Burt Bacharach e Hal David scrissero nel ’70, diventa un prezioso gioiellino swing (e fa ripensare con mestizia alla versione che una malaticcia Dionne Warwick ne diede due mesi fa, in questo stesso teatro...). «Rio de Janeiro blue» veste gli abiti di una bossanova ritmatissima e decisamente godibile.

Ogni brano viene punteggiato da applausi a scena aperta, ma la temperatura decolla quando arriva la citata «This is what you are», dimostrazione che anche un tormentone può essere elegante e raffinato, nelle sue coloriture afro-jazz.

Biondi si muove sinuoso sulla scena, accenna qualche passo di danza, è una vera e propria forza della natura. Peccato solo per alcuni tempi morti, che coincidono sempre con qualche presentazione un po’ più prolissa e involuta del necessario. Ma sono dettagli.

Si procede che è una bellezza, fra altri classici statunitensi rivisitati con gusto e maestria («Slow hot wind», la stessa «Handful of soul»), perle originali («Moonlight in July»), un brano strumentale per tirare il fiato. Fino a che arriva, anticipato da una gag in tema radiofonico, quel gran classico di Billy Joel, datato 1978, che risponde al titolo di «Just the way you are». E la rilettura che ne dà il nostro è più di un omaggio alla storica versione firmata Barry White.

Qui Biondi ringrazia, finge di salutare. Ma «On a clear day», altro classico americano, tratto dall’omonimo musical, è solo in primo di una bella serie di bis. Senza i quali l’entusiasta e caloroso (ebbene sì, caloroso...) pubblico triestino non avrebbe permesso al nostro di accomiatarsi.

Gran concerto, davvero, che sfata alcuni luoghi comuni. Il jazz genere di nicchia? No, se è mischiato, anzi, contaminato dal soul e dal pop e dalle mille influenze stilistiche schierate da Mario Biondi e dalla sua orchestra. La musica dal vivo è in crisi? Riempiono solo le grandi star e gli appuntamenti gratis? Falso, basta puntare su artisti vivi e in fase ascendente, non sulle solite repliche o sulle tristi vecchie cariatidi. Pubblico triestino freddo? Sbagliato, soprattutto se va in scena un soul-jazz caldo e passionale, che sembra disegnato addosso alla voce calda e profonda, bassa e roca di un ragazzone di nome Mario Biondi.

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