domenica 30 marzo 2008

POOH


«Noi nel ’68 cantavamo ”Piccola Katy”, che raccontava la storia di una ragazzina scappata di casa, come succedeva a tanti giovanissimi in quegli anni. Al di là del ritornello orecchiabile che tutti ricordano, la canzone parlava di disagio, di malessere giovanile. In fondo, a modo nostro, con quella e altre canzoni anche noi fotografavamo il conflitto generazionale che si consumava in quegli anni tra genitori e figli...».

I Pooh hanno cominciato ieri sera a Mantova - dopo un’anteprima nei giorni scorsi a Iesolo - il loro «Beat ReGeneration Tour», che mercoledì 2 aprile arriva al PalaTrieste. Una tournèe che segue l’album dedicato alla «rilettura delle canzoni - spiega Stefano D’Orazio, batterista dello storico gruppo - con cui negli anni Sessanta abbiamo imparato a suonare...».

Un titolo, quello del disco e del tour, che rischia di perpetuare l’equivoco e la confusione con i poeti e i romanzieri americani della Beat Generation, che con questa storia non c’entrano nulla... «Certo - dice ancora D’Orazio - ma non dimentichiamo che il beat in Italia ha avuto lo stesso ruolo che, dieci anni prima negli Stati Uniti, aveva avuto il rock di Elvis: ha inventato i giovani, che prima come categoria sociale non esistevano. Prima c’erano solo delle persone destinate a seguire e ripetere il percorso, i valori, i gusti dei propri genitori. Poi è successo qualcosa. Una sorta di esplosione. Musica, vestiti, capelli, tutto quello che significava diversità dagli adulti. Tutto quel che ti permetteva di distinguerti dalla situazione circostante».

Un discorso che andava al di là della musica, da cui comunque partiva. «Nella patria della tradizione e del belcanto, in quegli anni scoprimmo che era possibile fare canzoni in una maniera nuova, con due chitarre, un basso e una batteria. All’inizio mancavano gli autori, e dunque si facevano le ”cover” dei brani inglesi e americani. Melodie abbastanza semplici, suoni ”easy”, ma i testi italiani erano permeati di quel che si respirava nell’aria, di quella voglia di cambiamento».

Anni Sessanta e inizio dei Settanta, si torna sempre lì. «Sono anni che ritornano perchè furono un periodo di grande creatività. Uscivamo da un torpore covato troppo a lungo, c’era come un fuoco sommerso che non aspettava altro che l’occasione per venir fuori. Tutto era nuovo, tutto provocava stupore: la musica, i locali, i capelli lunghi, le minigonne. Una rivoluzione nel costume di dimensioni tali che non era mai avvenuta prima né dopo. C’era l’urgenza di cambiare, di evadere, di uscire fuori dal passato, dalle tradizioni, dai valori che si trasmettevano di generazione in generazione...».

Stagione emozionante ma tutto sommato breve. Gli anni Settanta se la portarono via alla svelta. «Tutto ciò è finito da un lato quando è diventato moda, denaro, industria che detta i tempi e i modelli da seguire. E dall’altro, almeno dal nostro punto di vista, quando la politica è entrata prepotentemente nella musica. Quando i figli dei fiori sono stati sostituiti dai militanti che portavano la contestazione anche ai concerti».

Fin qui il passato. «L’idea del disco, cui ora segue il tour, è nata perchè noi quell’epoca l’abbiamo vissuta prima da fan e poi da protagonisti. Con un piede sotto il palco e l’altro sopra, insomma. Abbiamo voluto rendere omaggio a quel periodo in cui tutto è cominciato e ai protagonisti dell’epoca».

Operazione non facile, se fatta seriamente. «E infatti è stato il disco più difficile che abbiamo mai fatto. Scrivere nuove canzoni sarebbe stato più semplice. Qui c’era invece da scegliere dei brani rappresentativi, che avessero resistito all’usura degli anni, e ”rigenerarli” con grande cura, affetto e attenzione. Non potevamo stravolgerli. In fondo parliamo di pezzi di storia della nostra musica. Ne è venuto fuori uno spaccato sincero e appassionante di quegli anni».

Rokes, Bisonti, Ribelli, Corvi, Califfi, Quelli, Equipe 84: la storia della musica italiana di quegli anni. «Nella scelta abbiamo privilegiato i gruppi che non ci sono più, cioè quasi tutti... Fa uno strano effetto ritrovarci ancora in scena, con pochissimi altri, come i Nomadi, che però hanno cambiato più volte formazione. Noi l’ultimo innesto l’abbiamo fatto nel ’73, quando Red Canzian ha preso il posto di Riccardo Fogli. Tutti gli altri cambiamenti erano avvenuti precentemente. A volte pensiamo che il nostro segreto è che, nello spirito, siamo rimasti un gruppo beat

Il rischio dell’effetto nostalgia? «Era presente ma siamo convinti di averlo evitato. Dal vivo proponiamo uno spettacolo moderno, attuale, con suoni all’avanguardia, proprio com’è successo nel disco. Per noi sarà il tour delle emozioni, perchè ognuno di noi quattro, passando attraverso le note dei dodici classici riletti, da ”La casa del sole” a ”Un ragazzo di strada”, da ”Che colpa abbiamo noi” a ”Pugni chiusi”, che hanno provocato anche i nostri inizi, non potrà non ripensare a quando tutto era ancora un sogno».

L’altro pericolo è il revival sempre in agguato. «Sì, siamo stati anche attenti a evitare la mera celebrazione del passato, come avevamo fatto per il quarantennale del nostro gruppo. Dunque niente abiti vintage, niente strumenti dell’epoca, niente citazioni filologicamente corrette. La nostra è una lettura moderna, contemporanea di quell’epoca e di quelle canzoni. Che devono sembrare come se le avessimo scritte stamattina...».

Con i suoni di ieri o quelli di oggi? «Sul palco c’è molta tecnologia, come sempre nei nostri tour. Anche perchè dobbiamo rifare in quattro, dal vivo, quello che in sala d’incisione puoi inventare con mille sovraincisioni. Ma non c’è molta elettronica. Da sempre preferiamo i suoni veri».

In scaletta, per questo concerto, i Pooh hanno quarantadue canzoni. «Cominciamo da ”29 settembre” - conclude Stefano D’Orazio - di Mogol e Battisti: brano dell’Equipe che abbiamo preferito ad altri, come ”Ho in mente te”, perchè ci sembrava meno usurato dal revival. Nella prima parte ci sono tutte le canzoni del beat che abbiamo ”rigenerato”. Poi è la volta delle canzoni che noi proponevamo in quegli anni, i nostri primi successi, come ”Piccola Katy”, recuperando cose come ”Quello che non sai” e ”Vieni fuori”. Segue il periodo del ”progressive”, con ”Parsifal” e i brani complessi e classicheggianti. Per concludere con i nostri grandi successi e un set acustico, chitarra e pianoforte: da ”Pierre” a ”Nascerò con te”, da ”La mia donna” a ”Uomini soli”...».

E ancora «Tanta voglia di lei» e «Pensiero», «Dammi solo un minuto e «Chi fermerà la musica», «Nascerò con te» e «Noi due nel mondo e nell’anima». La speranza dei Pooh è che fra trenta o quarant’anni ci siano gruppi che «rileggano» i loro tanti successi di ieri e di oggi. Canzoni cui un posticino nella storia - minore fin che si vuole, ma non per questo meno importante - del costume e della musica italiana spetta di diritto.

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