domenica 2 marzo 2008

SANREMO / FINALE


di Carlo Muscatello


SANREMO Giò Di Tonno e Lola Ponce, con la canzone «Colpo di fulmine», scritta da Gianna Nannini, hanno vinto il 58° Festival di Sanremo. Dietro la coppia del musical «Notre Dame de Paris», si sono piazzati Anna Tatangelo, favorita della vigilia, con «Il mio amico», e Fabrizio Moro con «Eppure mi hai cambiato la vita». A Tricarico il premio della critica. Un’edizione tenuta a galla dall’ironia di Piero Chiambretti, ma caratterizzata soprattutto dal forte calo di ascolti, dall’invettiva di Baudo e dal caso Bertè.


La serata. Il tempo di esprimere con Baudo «solidarietà, affetto e commozione» per l’ennesima morte sul lavoro (quella dell’operaio Fabrizio Cannonero, giovedì notte, nel porto di Genova) e si parte per l’ultima maratona. Chiambretti promette: «L’ultima puntata finirà prima dell’inizio delle Olimpiadi 2008». E a Baudo che gli dice qualcosa: «Non ti sento ma ti vedo. E mi basta...».

Aprono i fratelli veronesi Sonohra, incoronati vincitori dei giovani l’altra notte all’una e mezzo. Poi ricomincia la parata dei big. Sfilano Meneguzzi, Grignani, Little Tony, Cutugno, L’Aura, Tatangelo e via via tutti gli altri. Tutti gli altri protagonisti canori di questo 58° Festival di cui rimarranno soprattutto alcune immagini.


Innanzitutto l’ira di Baudo, incredulo dinanzi all’evidenza che il pubblico lo sta abbandonando. L’uomo di Militello ha un problema: crede di essere Sanremo, forse è convinto addirittura di essere la televisione. Ricorda l’ottantenne De Mita, che sta in parlamento dal ’63 ma quando si sono permessi di escluderlo dalle liste ha fatto fuoco e fiamme e ora si candida con un altro partito. Il settantaduenne Baudo ha fatto il primo Sanremo nel ’68 e non capisce che il suo tempo - almeno davanti alle telecamere - è scaduto.

Un’altra cosa che Pippuzzo non comprende (lui, i caporioni di Raiuno, il Comune di Sanremo...) è che solo un folle oggi può pensare di mettersi davanti all’elettrodomestico favorito per cinque sere, dalle ventuno all’una o le due di notte, per seguire uno spettacolo di canzoni. Che poi se si trattasse solo di canzoni avremmo già risolto il problema. Quel che appensantisce il festival fino mandarlo a fondo è il contorno: le gag, i siparietti, le presentazioni interminabili, le vallette, le ospitate degli attori col film da pubblicizzare (ieri sera Verdone è tornato con la Gerini), i premi a Vianello e Mondaini, i pistolotti su quanto è bella la Liguria, la pubblicità vera e quella più subdola che va sotto il nome di telepromozioni, con presentatori e vallette che passano senza soluzione di continuità dalle quattro chiacchiere con il cantante di turno all’esaltazione della tal autovettura... Sfrondato da tutta questa zavorra, e riportato alla scansione naturale di una canzone dietro l’altra, inframmezzate al massimo dalle due parole di circostanza che ogni umano medio può agevolmente sopportare, e se vogliamo anche da qualche blocco pubblicitario (pare che la Rai quest’anno abbia incassato 40 milioni di euro), ebbene, un Festival così può ancora fare la sua parte e avere un ruolo nella scassatissima tivù generalista di casa nostra. Due o tre ore al massimo, però, e per non più di tre sere.


Seconda immagine. Il caso Bertè, squalificata per plagio (ma sarebbe meglio parlare di «remake»...) e poi trattata con tutti i riguardi per paura di guai peggiori. Loredana è stata una delle migliori, forse la miglior voce rock al femminile di casa nostra. Oggi è soprattutto una donna sola, in crisi, cui le cose della vita hanno fatto pagare a caro prezzo il successo ottenuto. Sperava in questo Sanremo per risollevarsi. È incappata nella storia incredibile di una canzone che era già stata pubblicata vent’anni fa, con un testo diverso. Gli autori, l’ex chitarrista della Formula 3 Alberto Radius e Oscar Avogadro, se ne erano scordati (possibile...?) ed ecco fatta la frittata. Rimane il fatto che la sua canzone e la sua interpretazione sono state le cose migliori di un Festival che la sfortunata cantante calabrese avrebbe meritato di vincere. Perchè la Bertè è una che sa ancora regalare emozioni. Emozioni vere.


Ma fra le immagini che rimarranno ci sentiamo di inserire un episodio che a molti sarà sfuggito: la faccia stralunata del povero Tricarico, ultimo cantante in scaletta a mezzanotte e quaranta della prima sera, in mezzo a Baudo e Chiambretti che continuavano a far battute come se fosse l’ora dell’aperitivo, mentre lui (come tutti quelli che erano ancora davanti al teleschermo) chiedeva soltanto di cantare la sua «Vita tranquilla» e finirla lì. Andate a rivedervi quella faccia (la trovate su http://it.youtube.com/watch?v=Qd8MqfqZVqU</CF>, a proposito di mondo che va avanti mentre Rai, Baudo e Sanremo dormono...), e vi leggerete tutto lo scollamento, la distanza fra il mondo reale, anche della canzonetta, e la sua rappresentazione festivaliera.


Il paradosso, in tutta questa debacle, è che anche quest’anno a Sanremo la qualità media delle canzoni è stata accettabile. Baudo come si diceva ha tanti difetti, ma ama la musica e conosce bene il panorama discografico italiano. La sua scelta di proporre un cast macedonia, emergenti e vecchie glorie, un occhio alla tradizione e l’altro alle nuove tendenze, è l’unica possibile in una rassegna come il Festival.

Quest’anno ha visto bene con molte proposte. Fra i giovani - oltre alla freschezza pop dei vincitori Sonohora - sono piaciuti i ritmi gitani dei Frank Head (premio della critica), la delicata vena cantautorale di Giua, i richiami etnici dei romani La Scelta (secondi per le giurie). Fra i big - oltre alla grinta rock della Bertè e all’originalità surreale di Tricarico - bene anche l’elegante bossanova di Sergio Cammariere (il più votato dalla giuria di qualità), la taranta degli emigranti di Eugenio Bennato, il raffinato amor cortese di Mario Venuti, il rap «rivoluzionario» di Frankie Hi-Nrg (che ieri sera si è «beccato», seppur garbatamente, con i giurati di qualità Mughini e Fede), i temi sociali dei Tiromancino, ma anche la gran voce di L’Aura, l’originalità cantabile di Max Gazzè, l’amore crepuscolare di Fabrizio Moro. E nella serata dei duetti non erano sembrate male nemmeno le canzoni di Mietta e Grignani. Come si vede, dunque, il problema non è nelle canzoni. Sta nella formula, nella durata, nel sapore di vecchio, nell’illusione che si possa tenere la gente davanti al teleschermo fino all’una o le due di notte per vedere Sanremo. Un Sanremo comunque di svolta, quello che si è concluso, ora che qualcuno si è metaforicamente alzato a dire che «il re è nudo». Ripetiamo da anni, da decenni che il Festival è lo specchio del Paese. Sicuramente lo è stato anche quest’anno, ma nel segno dell’incertezza.


Alla vigilia dell’ennesimo, incerto appuntamento elettorale, anche Sanremo non sa che fare del suo futuro. Perchè futuro ci sarà, statene certi, qui non si butta via niente. La soluzione sarebbe già scritta, se la Rai non fosse nelle mani di personaggi mediocri, intenti soprattutto ad apparire in prima fila all’Ariston. Baudo dovrebbe essere confermato direttore artistico ma con la proibizione assoluta - pena l’esilio, magari nella Militello da dove è arrivato troppi anni fa - di apparire dinanzi a una telecamera. E al timone, al posto dei Bonolis o dei Carlo Conti di cui già si parla, dovrebbero sistemare un paio di giovani svegli presi da Mtv o da All Music, da dove arriva per esempio quella Lucilla Agosti che è stata la vera sorpresa del Dopofestival di Elio e le storie tese (ieri sera promossi sul palco dell’Ariston per una strepitosa comparsata rossiniana che a mezzanotte passata ha salvato tutti dall’abbiocco incipiente...). Oppure confermate Chiambretti, che non graffia più come un tempo ma ha comunque tenuto a galla un Festival che stava andando a picco. O ancora recuperate quel vecchio marpione di Claudio Cecchetto, che venerdì sera troneggiava nella giuria di qualità ed era fra i pochi ad aver titolo per farne parte. Ma soprattutto tagliate, tagliate, tagliate... Al Festival di Sanremo, come in tanti altri luoghi e cose della vita, l’arte vera è sottrarre, non aggiungere.


 

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