Non ci resta che ridere, verrebbe da dire parafrasando il titolo di un vecchio film. E «Lavoratori di tutto il mondo, ridete» è il consiglio marxista - nel senso di Groucho, ovviamente... - che Moni Ovadia offre già nel titolo del suo nuovo libro (Einaudi Stile Libero, pagg. 276, euro 15.50), che ha per sottotitolo «La rivoluzione umoristica del comunismo».
L’ironia, quand’è completa anche di autoironia, è sempre più necessaria per sopravvivere in questo mondo. Ma come vanno in fretta, ultimamente, le cose della politica. Che il comunismo non sia più nemmeno di moda è un dato di fatto. La falce e martello è stata riposta da tempo in soffitta. Le bandiere rosse sventolano ormai solo il primo maggio e in qualche corteo sindacale. In giro per il mondo resistono pallide parvenze (o caricature) di comunismo a Cuba e nella Corea del Nord, mentre la Cina è un ossimoro vivente con il suo comunismo capitalista e la Russia si è convertita al nemico di ieri, il capitalismo appunto, ma gestito e governato dagli stessi vecchi comunisti dell’Unione Sovietica che fu. In Italia, già patria del più grande partito comunista d’Occidente, gli eredi di Togliatti e Berlinguer, anzi, la maggior parte di quegli eredi ha appena rotto gli indugi decidendo di fare un partito unico, «Democratico» e stop, assieme agli eredi (anche qui: solo la maggior parte...) di De Gasperi e Moro. Una fusione a freddo, dicono i più critici. Nella quale già chiamarsi «compagni» potrebbe presto diventare un problema...
Ma il comunismo - spiega all’inizio del libro Salomone detto Moni Ovadia<IP9>, classe 1946, nato a Plovdiv, in Bulgaria, ma milanese d’adozione e molto legato a Trieste</IP> - non è stato soltanto è stato anche centinaia di milioni di donne e di uomini che hanno aderito «al più grande ideale di liberazione mai partorito dalla mente umana senza ricorrere alla fede, alla religione o ad altre forme di credenza».
Certo, il sistema partorito da quegli ideali teorici era iniquo e fallimentare e dunque è crollato miseramente. Ma non sono tramontati gli ideali, le ragioni, i valori che «hanno mobilitato lo slancio prometeico, l’energia, l’abnegazione e il sacrificio dei comunisti». Che si chiamano tuttora giustizia sociale, uguaglianza, fine dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.
«Un revisionismo strumentale - scrive Ovadia - oggi vorrebbe far credere, per precise motivazioni politiche, che quella del comunismo fu solo una storia di orrori. Non è cosí: fu una storia di uomini, di idee, di sacrifici, di dedizione, di tradimenti, sofferenze e dolori che non può essere archiviata nel bidone della spazzatura della storia televisiva. Gli uomini che diedero la vita per l'utopia del grande riscatto meritano uno sguardo che ne ricordi l'umanità estrema, una pietas che non li trasformi in numeri. Il tutto visto attraverso la lente dell'umorismo, l'arma piú potente che abbiamo per prevenire la violenza».
A quelle donne e a quegli uomini traditi nelle proprie speranze l’artista e scrittore yiddish dedica il volume. E a loro ricorda il dovere di fare propri i motivi del fallimento fino alla più spietata autocritica. Anche quando sconfina nell’ironia e nell’autoironia, doti di cui il potere, da che mondo è mondo, è sempre stato privo.
Ecco allora l’epopea della grande Unione Sovietica raccontata con lo stesso approccio del witz mitteleuropeo, della storiella ebraica - della quale Ovadia è maestro sopraffino nonchè massimo divulgatore in Italia - ma anche dei vecchi aneddoti e delle vecchie storielle che circolavano, quasi sempre di nascosto, ai tempi dell’Urss. La battuta antistalinista, contrariamente a quanto si può credere, è nata dunque proprio a Mosca, partorita fra la rassegnata pazienza del popolo russo e l’eterna stupidità della burocrazia sovietica. Con un debito proprio nei confronti di quegli ebrei centro-europei che in Unione Sovietica avevano trovato rifugio.
Fino a un certo punto. Perchè anche lì d’un tratto le cose cambiarono radicalmente e tragicamente. Moni Ovadia è uomo di sinistra ma anche uomo di mondo. La sua formazione marxista, più volte ripercorsa criticamente e comunque mai rinnegata, non gli impedisce dunque di ammettere amaramente: «Io, ancorchè ”comunista”, se considero la mia storia personale dal punto di vista retrospettivo, a differenza di tanti anticomunisti odierni da salotto televisivo, sarei stato inesorabilmente una vittima dello stalinismo».
Di più. Identifica anche il giorno della sua virtuale fucilazione: il 12 agosto 1952, quando tutti i grandi dell’intelligenza ebraica bolscevica venne uccisi per ordine di Stalin. Quello stesso «caro e dolce padre» che nella copertina del libro, bell’esempio di iconografia sovietica, sorride rassicurante e paterno alla bimbetta bionda che gli cinge con le braccia il primo maggio di quello stesso ’52, sullo sfondo di una Piazza Rossa pavesata di fiori e bandiere.
Quante speranze, quanto dolore, quanta violenza dietro il tragico destino del comunismo sovietico, dietro la rivoluzione tradita e l’utopia di un mondo migliore. Moni Ovadia offre al lettore il tesoro della diceria popolare, della canzonatura, della storiella umoristica autodelatoria e tutta una tradizione satirica su Lenin, Stalin, Breznev...
Ecco allora un’originale storia del comunismo, dalla Rivoluzione del 25 ottobre 1917 alla caduta dell’Unione Sovietica, attraverso le debolezze, le manie, persino le perversioni dei suoi leader. Attingendo, sulla falsariga della storiella e del motto ebraico, a un vastissimo materiale inedito di storielle, aneddoti, barzellette, pubblicazioni censurate... E la gigantesca macchina della retorica di regime rivela il suo volto patetico di fronte alla fulminante sintesi del motto di spirito, della storiella.
Come quella che dice: «Qual è la principale differenza tra la società capitalista e quella socialista? In una società capitalista l’uomo sfrutta l’uomo. In una società socialista, viceversa». Pare che piaccia molto a Berlusconi...
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