martedì 16 dicembre 2008

MAGRIS SU CARACCIOLO


«Un uomo che ha saputo unire l’efficienza imprenditoriale, fra l’altro in un campo delicato come quello dell’editoria, a una grande dirittura morale. Un uomo dell’Italia migliore, quella che sta perdendo un tassello dopo l’altro. Di lui il nostro Biagio Marin avrebbe detto: un aristòcrata...».

Anche Claudio Magris ricorda Carlo Caracciolo con parole di grande affetto e sincera ammirazione. Nati sin dal primo incontro. «L’ho visto a Trieste, a Torino, ma la prima volta a Roma. Ricordo che dovevo andare a casa sua, davanti all’Isola Tiberina, e non ricordavo il numero civico. Piuttosto che fare la figuraccia di telefonargli, suonai a un sacco di campanelli sbagliati, prima di trovare quello giusto...».

Con l’acquisto del «Piccolo», nel ’98, qualche occasione di incontro in più. «Sì, mi è capitato di incontrarlo anche qui a Trieste. Nella sede del giornale, a casa di amici, in un ristorante vicino alle Rive, ovviamente al Caffè San Marco. Ricordo soprattutto momenti di spensieratezza, di allegria, anche di sane risate. Ne era scaturita, se non un’amicizia, sicuramente un sentirsi e ritrovarsi su un’analoga lunghezza d’onda. Aveva un’intelligenza ironica, chiara, bella come la sua fronte alta e i suoi capelli bianchi».

Nel ricordo, Magris ne parla qualche volta ancora al presente. «Sì, fa malinconia parlarne già al passato. Per questo mi viene spontaneo usare ancora il presente. Perchè lui è un rappresentante dell’Italia civile che forse, avrebbe detto ancora Marin, era solo una nostra esigenza. L’Italia democratica, liberale, progressista senza essere demagogica. L’Italia migliore, appunto».

Quella che ogni giorno diventa più povera. «La morte prima o poi tocca a tutti. Ma davanti alla scomparsa di un uomo come Carlo Caracciolo, mi sento di dire che non vedo in giro dei possibili ricambi di questi ”quadri alti” della società italiana. È come quando un generale lascia il suo esercito e non c’è nessuno all’altezza di prenderne il posto».

«Si badi bene: non è, non vuol essere un discorso nostalgico. E spero ovviamente di sbagliarmi. Ma assisto da anni a un complessivo cambiamento di stile nella classe dirigente del nostro Paese. Non bisogna mai prescindere dal senso che si dà al proprio lavoro e al legittimo perseguimento dei propri interessi. Nessuno di noi lavora gratis. Ma c’è modo e modo, c’è stile e stile, in quel perseguimento dei propri interessi».

C’è modo e modo anche di essere classe dirigente. «Sì, Caracciolo sapeva di far parte della grande elite del nostro Paese. Un’elite da non intendere in senso snobistico, ma da riconoscere e rispettare per la sua funzione trainante nei confronti della società in cui si trova a operare».

Negli ultimi anni assistiamo a una progressiva volgarizzazione della classe dirigente italiana? «Non voglio cadere nelle generalizzazioni. Lungi da me affermare che tutti gli appartenenti a un dato gruppo o a una data categoria sono in una maniera o in un’altra. E si sa che una classe dirigente cambia di qualità anche col cambiare dei tempi. Ciò valeva ai tempi dell’impero romano e vale certamente anche oggi».

Ma...? «Ma con tutte le cautele del caso, mi sento di ammettere che sì, forse in questi nostri tempi viviamo proprio una fase di involgarimento di quanti dovrebbero avere invece quella funzione trainante di cui dicevo. Per stile di vita, per modo di essere, per livello di civiltà».

«Carlo Caracciolo è stato invece un esempio mirabile della miglior classe dirigente. Quella che, nel rispetto del proprio ruolo e dei propri interessi, sa dare un’impronta alla società in cui vive. L’appartenere a una famiglia di antica nobiltà non c’entra: di per sé non è un merito né un demerito. E in lui non c’era mai nemmeno l’ombra di civetteria demagogica, nello schierarsi dalla parte dei più deboli. Esattamente l’opposto del Berlusconi del 2001, quello con pullover blu che si atteggiava nei manifesti elettorali a ”presidente operaio”...».

Un momento di silenzio. Un attimo di pausa. Quasi a riordinare le idee prima di consegnare gli ultimi ricordi dell’uomo e dell’editore che non c’è più. «Mi interessa comunque - dice Claudio Magris - ricordare il grande, illuminato editore. Al di là della fondazione dell’Espresso e di Repubblica, e per noi dell’acquisizione del Piccolo, Caracciolo ha saputo fare politica in senso lato. È stato uno degli ultimi editori puri, senza altri interessi che non fossero quelli dei giornali».

«E ciò in un mondo - conclude lo scrittore e saggista triestino - in cui tutti fanno tutto ma nessuno fa più il proprio mestiere. Un fenomeno che trovo molto grave, che porta innanzitutto allo scadimento della qualità. E a un progressivo allontanarsi da quel capitalismo legato al mondo delle cose».

Forse il capitalismo migliore, quello di uomini come Carlo Caracciolo.

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