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martedì 3 marzo 2015
ARES TAVOLAZZI con Danilo Rea e David King domani a Udine
Ha suonato nei tumultuosi Settanta con l’immenso Demetrio Stratos negli Area e qualche anno prima con Carmen Villani (ve la ricordate?). Ma anche con Mina e Francesco Guccini, con Paolo Conte ed Eugenio Finardi, con Gil Evans e Steve Lacy. Ancora: con Max Roach e Lee Konitz, Enrico Rava e Phil Woods, Stefano Bollani e Franco D'Andrea, Gianni Basso e Paolo Fresu...
Domani sera (e non oggi come annunciato, per alcuni problemi sopraggiunti nel tour) alle 20.45, al Palamostre di Udine, suona con Danilo Rea - tra i pianisti più apprezzati del jazz italiano ed europeo - e David King, batterista americano per anni con la band The Bad Plus.
A questo punto manca solo rivelare il nome del musicista di cui stiamo parlando, anche se gli appassionati del genere lo hanno ovviamente già capito: lui è Ares Tavolazzi, contrabbassista nato a Ferrara nel ’48, jazzista di valore ma anche turnista apprezzato nelle sale di incisione.
«Con Danilo Rea - spiega il musicista - suoniamo assieme da tanto tempo. In realtà ci eravamo conosciuti alla fine degli anni Settanta, quando suonavo con gli Area. Ma all’epoca le nostre strade musicali non si incrociarono. Poi una decina di anni fa è successo che ci siamo ritrovati. Abbiamo suonato prima in trio con Ellade Bandini alla batteria, ora suoniamo con questa formazione: standard, classici dei Beatles, arte varia. Andiamo a memoria, a volte non sappiamo nemmeno che cosa suoniamo. Si parte e via...».
Gli Area?
«Sono entrato nel ’74, sono passati quarant’anni e non mi sembra neanche vero. Fui chiamato per sostituire Jan Patrick Djivas che se n’era andato nella Pfm. A quei tempi facevo il turnista a Milano, suonavo nei dischi dei cantanti ma ero mosso da grande curiosità. Gli Area mi hanno permesso di scoprire che si poteva fare altro nella musica: il jazz, la musica popolare, quella etnica... Un universo che successivamente è diventato il mio interesse principale, musicalmente direi l’unico».
Demetrio?
«Ero un grande musicista ma anche un vero amico. Con lui si lavorava bene, nel gruppo c’era una grande democrazia musicale. Lui era molto aperto culturalmente, anche lui mosso da incredibile curiosità. E poi aveva quelle eccezionali doti vocali. Non ha inventato nulla, le sue tecniche vocali arrivavano dall’Asia, dalla Mongolia. Ma ha il merito di averle scoperte e portate da noi, nel panorama musicale italiano degli anni Settanta».
Quando il jazz è diventato il suo unico verbo?
«Prima e dopo gli Area, la musica pop e leggera mi hanno aiutato a vivere. Si sa che nel jazz non girano tanti soldi, alcuni fanno letteralmente la fame. Diciamo che suonando nei dischi e nei concerti di vari cantanti e gruppi ho potuto dedicarmi al jazz, all’improvvisazione. Poi, quando me lo sono potuto permettere, diciamo una quindicina di anni fa, ho mollato tutto il resto per dedicarmi soltanto alla mia passione».
Guccini?
«Un amicone, oltre che un grande artista. Ci sono arrivato tramite Vince Tempera, che conoscevo dagli anni Sessanta, quando suonavo con Carmen Villani. E nel suo gruppo storico ho ritrovato un altro vecchio amico e collega, ferrarese come me: Ellade Bandini. Pensi che da ragazzi, negli anni Sessanta suonavamo assieme in un complesso beat, gli Avengers. Con Guccini sono stati anni molto belli. Ma ha fatto bene a mollare: era stanco, voleva dedicarsi interamente alla scrittura. E poi c’è un’età per tutto, quand’è ora è ora...».
Un nome fra i jazzisti con cui ha collaborato.
«Gil Evans. Ho avuto il privilegio di suonare con la sua orchestra in occasione di alcuni concerti che ha tenuto in Italia, attorno all’82. Un grandissimo musicista, un eccellente direttore d’orchestra. Musicalità assoluta».
Negli anni Settanta la musica era anche politica. Come si trova in questa Italia?
«Se devo dire la verità, mi ci ritrovo molto a fatica. Non seguo molto, ammetto un certo disinteresse. Allora si credeva di poter cambiare il mondo anche con la musica. Volevamo fortemente cambiare il mondo. Ma con il senno di poi era un sogno, non era una cosa reale, anche se lo abbiamo creduto...».
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