giovedì 17 gennaio 2013

BUBOLA, nuovo disco: non sono solo quello che scriveva x DE ANDRE'

Gli dà fastidio essere ricordato sempre e solo come quello che ha scritto tante canzoni per Fabrizio De Andrè. E forse ha ragione, visto che di canzoni lui ne ha scritte anche per altri (un solo titolo: “Il cielo d’Irlanda” per Fiorella Mannoia). Ma soprattutto perchè questo in arrivo è il ventesimo album della sua dignitosissima carriera cantautorale. Lui è Massimo Bubola, veronese di origini istriane, classe 1953, che sabato presenta dal vivo, a Mestre, il suo nuovo album “In alto i cuori”. Un titolo che somiglia a un’esortazione, un invito, forse una speranza. «Sì, una speranza. Ma anche un dovere morale, in senso religioso e laico. Un impegno nei confronti delle nuove generazioni. L’impegno quotidiano di fare il proprio dovere, verso gli altri e verso se stessi». Un titolo anche “cattolico”? «In alto i cuori è la traduzione dell’espressione latina “Sursum corda”, che rimanda ad antiche tradizioni della liturgia cristiana. È l’augurio che il sacerdote rivolge a fine messa: andate in pace. Per me, credente ma poco praticante, è una preghiera per il nostro Paese in difficoltà». Dal suo Veneto come vede l’Italia? «Da noi c’è la cultura del lavoro, dell’impegno. Ci sono tante aziende familiari che fanno fatica a tirare avanti. Siamo gente abituata a far da sola, senza l’aiuto dello Stato, che anzi spesso complica la vita. Conosciamo anche il valore della carità, della solidarietà. È riduttivo parlare sempre di Veneto leghista». Prosegua. «Valori come il sacrificio, la povertà sono scomparsi con il crollo della cultura contadina, sotto le sferzate della sottocultura televisiva. Pasolini se n’era accorto per primo, tanti anni fa. Oggi funziona la (presunta) cultura dei vip, dell’apparire. Io sono sempre stato affascinato dai perdenti. Ho fatto studi classici e storici. Chi perde una battaglia non perde necessariamente la guerra». La canzone come c’entra? «La canzone è poesia popolare. Per me è anche la testimonianza di un mondo che non esiste più, ma forse, un po’ per volta, sta ritornando. La poesia è una sorta di sentinella nella notte, un monito alle persone di buona volontà». Alle quali lei si rivolge. «Certo, questo disco si rivolge a quell’Italia sana e civile non soggetta alle facili mode. Che non si fa condizionare e che mantiene comunque la lucidità. A quella parte di Paese su cui bisogna contare per ritornare a essere seri». Lei attinge dalla cronaca. «Sì, le mie sono “istant songs”. Con le quali un fatto di cronaca viene contestualizzato, reso universale e leggibile al di là della cronaca stessa. La tradizione è quella dei cantastorie, sulla scia di un genere nato in America a cavallo fra le due guerre. Quelle erano canzoni che parlavano di fatti di cronaca con riflessi sociali». Ne aveva scritte anche con De Andrè. «Parto sempre da questa mia idea di “cantore della realtà”. Brani che riescono a parlare al di là dei singoli fatti raccontati. Penso a “Una storia sbagliata”, “Don Raffaè”, “Fiume Sand Creek”...». Come ha conosciuto Fabrizio? «Ero giovanissimo, me lo presentò a Milano Roberto Danè, che era il mio produttore e anche il suo. Lui aveva appena concluso la sua collaborazione con De Gregori. Cominciammo a lavorare assieme. La prima canzone che scrivemmo fu “Andrea” (album “Rimini”, ’78 - ndr), poi vennero tutte le altre. Quattordici anni di collaborazione. Ma mi scusi, finisce sempre che si parla di lui. Preferirei parlare del mio disco». Come preferisce. “Hanno sparato a un angelo”? «Parte da un fatto di cronaca: il 4 gennaio dell’anno scorso a Roma, durante una rapina, due balordi hanno sparato e ucciso Joy, una bimba di nove mesi, e suo padre Zhou di 31 anni. Anche questo è oggi il nostro Paese. E da una parte c’è il disincanto, anche dinanzi a tragedie come queste, e dall'altra ancora la speranza di una guarigione». Un brano l’ha scritto con Beppe Grillo. «Sì, “Analogico digitale” è un blues che contrappone la cultura antica dell’uomo e quella nuova, dove tutto è aleatorio, virtuale, dà un senso di precarietà. Beppe lo conosco dai tempi delle mie frequentazioni genovesi, la canzone l’abbiamo scritta assieme otto anni fa, non c’entra nulla con la politica». Le sue origini istriane? «La famiglia di mio padre era di Umago, poi si trasferirono in Veneto. Infatti il mio cognome è molto diffuso in Istria. Sono molto legato a queste origini, amo i romanzi di Tomizza. Ricordo che quando nel ’79 ho fatto il militare a Cividale approfittavo del tempo libero per seguire i percorsi dei suoi romanzi a cavallo del confine...». “In alto i cuori” esce il 22 gennaio. Dopo l’anteprima di sabato a Mestre, al centro culturale Candiani, il tour parte da Verona il 9 febbraio.

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