TRIESTE «Volevamo rimetterci in discussione, ripartire da zero. Come quando l’anno scorso siamo andati a San Francisco per registrare ”La finestra”. Anche stavolta, dopo il tour estivo nelle arene e nei grandi spazi, abbiamo sentito l’esigenza di metterci alla prova con un tour teatrale, il nostro primo tour teatrale, tutto acustico, con strumenti etnici, denudando le canzoni, per vedere se funzionano anche così...».
Giuliano Sangiorgi, cantante e leader dei Negramaro, racconta con entusiasmo genesi e motivazioni di questo tour teatrale, partito l’altra sera da Verona, dopo una «data zero» a Trento, che domani sera arriva a Trieste, al Politeama Rossetti.
«Finora il pubblico triestino - prosegue Sangiorgi - ci ha visti solo in versione elettrica, al Barcolana Festival di due anni fa e al Festivalbar dell’anno scorso, entrambe le volte nella vostra splendida piazza Unità. Stavolta scoprirà le nostre canzoni con nuovi arrangiamenti, quasi com’erano nate, nella ”stanzetta” delle origini».
A teatro per intercettare un pubblico più adulto?
«No. Non ci spinge una voglia elitaria, non cerchiamo un pubblico diverso, anche perchè noi abbiamo sempre avuto un pubblico vario, molto trasversale. Non decidi a tavolino a chi ti rivolgi. Diciamo anzi che con questo tour vogliamo rendere omaggio al nostro pubblico, quello che ci ha permesso di arrivare dove siamo».
Dalla bocciatura al Sanremo Giovani 2005 al trionfo nelle classifiche e nelle piazze già nell’estate successiva. Come avete mantenuto i piedi per terra?
«La nostra storia è cominciata sette anni fa, anche se negli ultimi tre anni ha subito una netta accelerazione. Il progetto era solido, radicato nelle nostre teste e nella nostra cultura, e ci ha dotato dei mezzi necessari per affrontare questo successo, per non farci andare fuori di testa. Oggi facciamo cento concerti all’anno, ma non dimentichiamo quel nostro primo concerto a Trani, sette anni fa, davanti a pochissime persone...».
Dal Sud arriva oggi molta della miglior musica italiana...
"Il Sud oggi è verità, c’è poco artificio, in un mondo come quello musicale che soffre proprio di artificiosità. La cultura musicale del Salento è sempre stata elevata, forse serviva solo che qualcuno la scoprisse. Noi non usiamo il dialetto, non suoniamo la pizzica per una scelta precisa: puntare sul lato internazionale della nostra musica, usufruibile ovunque».
Per questo siete andati negli Stati Uniti?
«Anche. Andando negli States non inseguivamo il sogno americano che peraltro non abbiamo mai avuto. Ci serviva ricominciare da zero, confrontarci con una realtà sconosciuta, con studi di registrazione e tecnici che ci dessero i consigli giusti, senza essere condizionati dal fatto che in Italia eravamo primi in classifica».
E avete registrato in analogico.
«Fa parte dello stesso discorso minimalistico del tour teatrale. Volevamo giocare con poche cose, catturare le emozioni, la magia che sta nell’essenza delle canzoni».
Cos’è questa storia che ora vivete tutti assieme in campagna?
«È vero. Ci dividiamo fra il nostro Salento, che non abbiamo abbandonato, e questo casolare di campagna, vicino Parma, dove torniamo tutte le volte che è possibile. C’è anche una sala prove. Chi è venuto a trovarci ha detto che c’è l’atmosfera di una vecchia comune degli anni Settanta...».
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