di Carlo Muscatello
TRIESTE Trionfo ieri sera al PalaTrieste per Zucchero, il cui Fly World Tour 2007 è atterrato finalmente anche qui da noi, dopo aver girato mezzo mondo.
Già, perchè dopo la partenza dall’Olympia di Parigi nel maggio scorso, in questi mesi il nostro ha scorrazzato in lungo e in largo, toccando Stati Uniti, Canada, America Latina e vari paesi europei. Il tour è arrivato quasi alla fine - sarà domani al Palaverde di Treviso e sabato a Padova - e dunque lo spettacolo è rodato al punto giusto.
Ore ventuno e quindici. Irene Fornaciari, che ha accompagnato papà in questo tour, stasera non è della partita. Allora il sipario argentato si alza giusto un pezzetto, per far apparire l’Adelmo, cappellaccio in testa, chitarra in braccio, assiso su una sorta di trono di velluto rosso, da vero re del blues. Comincia a cantare «Dune mosse» (da «Blue’s», dell’87), melodia sublime che fu capace di stregare persino Miles Davis. Si alza il resto del sipario e rivela una band coi controfiocchi nella quale spicca David Sancious, già membro della E Street Band di Springsteen, ma anche compagno d’avventure di Santana, Sting, Peter Gabriel, Eric Clapton...
In alto, al centro, fa bella mostra di sé un’enorme riproduzione del «moscone geneticamente modificato» che fa da logo al tour e al disco «Fly», uscito l’anno scorso, un milione e mezzo di copie vendute in tutto il mondo. Ai lati della struttura metallica che regge tutta la baracca, due schermi ovali incorniciati come quei vecchi specchi di una volta: un tocco di originalità in più, che ben si sposa con i lampadari di cristallo, il fondale con le canne d’organo, le lamiere ondulate, le divise da marchin’ band dei musicisti, il caos del palco che rimanda a una taverna sul Mississippi, o a una ballroom della New Orleans di tanti anni fa.
Dopo «Occhi» e «Quanti anni ho» (dal citato «Fly»), Zuccherone nostro si alza in piedi e attacca «Bacco perbacco»: sembra il segnale convenuto, il treno del blues sta partendo, la gente si alza in piedi e comincia a ballare. Danza che prosegue con «Un kilo» e «Cuba libre», ma si prende una pausa con «Il volo» (stava in «Spirito DiVino», del ’95) e con quell’altra perla che risponde al titolo di «Diamante». Qui, e sono ormai quasi le ventidue, ci scappa un «Ehi, Trieste...!» che manda in brodo di giuggiole quelli che aspettavano solo una sua parola.
Poco più tardi, dopo le atmosfere soft di «Così celeste», il treno riparte per non fermarsi quasi più: «Baila», «Overdose d’amore», «Il mare», «Senza una donna»... È un viaggio che profuma di blues, soul, gospel, di anni Sessanta e Settanta, l’epoca migliore per chi non ha smesso di amare questa musica. Da un passato lontano quarant’anni arriva anche «Nel così blu», versione italiana firmata da Zucchero e Pasquale Panella del classico dei Procol Harum «A salty dog». Il nostro avrebbe voluto scriverla lui - dice - ma per consolarsi l’ha inserita nell’antologia fresca di pubblicazione «All the best».
«Con le mani» e «Solo una sana e consapevole libidine» scivolano via senza soluzione di continuità. «Diavolo in me» ha il compito ingrato di fingere la chiusura della serata. Ciao, grazie Trieste, ma la gente non ne vuol sapere e stavolta ha proprio ragione. Stasera i bis non sono una consuetudine ma una necessità. Ecco allora «Hey man», che ci riporta ancora sulle rive del Mississippi. E poi arriva il momento di «un amico che non c’è più». Il duetto virtuale di «Miserere», con Pavarotti che ci sorride dai due schermi ovali, lassù, poteva essere una cosa di cattivo gusto, roba da rovinare una bella serata, e invece tutto sommato ci sta. La gente lo capisce e lo saluta con un’ovazione. Tanto da meritare poi altro blues, con «Per colpa di chi».
Gran concerto, davvero. Il migliore fra quelli portati in giro dal nostro bluesman da esportazione in tutti questi anni.
Ore ventuno e quindici. Irene Fornaciari, che ha accompagnato papà in questo tour, stasera non è della partita. Allora il sipario argentato si alza giusto un pezzetto, per far apparire l’Adelmo, cappellaccio in testa, chitarra in braccio, assiso su una sorta di trono di velluto rosso, da vero re del blues. Comincia a cantare «Dune mosse» (da «Blue’s», dell’87), melodia sublime che fu capace di stregare persino Miles Davis. Si alza il resto del sipario e rivela una band coi controfiocchi nella quale spicca David Sancious, già membro della E Street Band di Springsteen, ma anche compagno d’avventure di Santana, Sting, Peter Gabriel, Eric Clapton...
In alto, al centro, fa bella mostra di sé un’enorme riproduzione del «moscone geneticamente modificato» che fa da logo al tour e al disco «Fly», uscito l’anno scorso, un milione e mezzo di copie vendute in tutto il mondo. Ai lati della struttura metallica che regge tutta la baracca, due schermi ovali incorniciati come quei vecchi specchi di una volta: un tocco di originalità in più, che ben si sposa con i lampadari di cristallo, il fondale con le canne d’organo, le lamiere ondulate, le divise da marchin’ band dei musicisti, il caos del palco che rimanda a una taverna sul Mississippi, o a una ballroom della New Orleans di tanti anni fa.
Dopo «Occhi» e «Quanti anni ho» (dal citato «Fly»), Zuccherone nostro si alza in piedi e attacca «Bacco perbacco»: sembra il segnale convenuto, il treno del blues sta partendo, la gente si alza in piedi e comincia a ballare. Danza che prosegue con «Un kilo» e «Cuba libre», ma si prende una pausa con «Il volo» (stava in «Spirito DiVino», del ’95) e con quell’altra perla che risponde al titolo di «Diamante». Qui, e sono ormai quasi le ventidue, ci scappa un «Ehi, Trieste...!» che manda in brodo di giuggiole quelli che aspettavano solo una sua parola.
Poco più tardi, dopo le atmosfere soft di «Così celeste», il treno riparte per non fermarsi quasi più: «Baila», «Overdose d’amore», «Il mare», «Senza una donna»... È un viaggio che profuma di blues, soul, gospel, di anni Sessanta e Settanta, l’epoca migliore per chi non ha smesso di amare questa musica. Da un passato lontano quarant’anni arriva anche «Nel così blu», versione italiana firmata da Zucchero e Pasquale Panella del classico dei Procol Harum «A salty dog». Il nostro avrebbe voluto scriverla lui - dice - ma per consolarsi l’ha inserita nell’antologia fresca di pubblicazione «All the best».
«Con le mani» e «Solo una sana e consapevole libidine» scivolano via senza soluzione di continuità. «Diavolo in me» ha il compito ingrato di fingere la chiusura della serata. Ciao, grazie Trieste, ma la gente non ne vuol sapere e stavolta ha proprio ragione. Stasera i bis non sono una consuetudine ma una necessità. Ecco allora «Hey man», che ci riporta ancora sulle rive del Mississippi. E poi arriva il momento di «un amico che non c’è più». Il duetto virtuale di «Miserere», con Pavarotti che ci sorride dai due schermi ovali, lassù, poteva essere una cosa di cattivo gusto, roba da rovinare una bella serata, e invece tutto sommato ci sta. La gente lo capisce e lo saluta con un’ovazione. Tanto da meritare poi altro blues, con «Per colpa di chi».
Gran concerto, davvero. Il migliore fra quelli portati in giro dal nostro bluesman da esportazione in tutti questi anni.
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