Si può vivere, anzi, si deve vivere senza Sanremo. Sembrerà una banalità, un dato di fatto già acquisito per milioni e milioni di persone, ma a nostro
avviso è l’insegnamento che ci lascia la 54.a edizione del (da molti anni
sedicente) Festival della canzone italiana per l’appunto di Sanremo.
Che la miglior musica di casa nostra non facesse più tappa nella città dei
fiori (dove comunque, ogni tanto, qualche gran canzone c’è stata, anche di
recente...), lo si sapeva da un pezzo. Che nella settimana festivaliera si
celebrasse da anni il nulla, lo ripetevamo da tanto. Insomma, che Sanremo
fosse soltanto uno spettacolo televisivo con la scusa delle canzoni, era
sotto gli occhi di tutti quelli che lo volevano vedere.
Ora sappiamo che la vecchia «balena bianca» della canzone (che peraltro è
durata qualche anno più della Dc...) non esiste più, è morta, defunta, forse
proprio perchè quella di Sanremo è un’Italia che non c’è più. Ma non c’è da
rallegrarsi, se è vero com’è vero che è stata sostituita da un Paese se
possibile ancor peggiore, ben simboleggiato da quel «Grande fratello» che
giovedì sera ha operato lo storico sorpasso di ascolti. E alla stessa
maniera in cui, dopo averla per anni criticata, molti sono oggi costretti a
rimpiangere la Dc, potrebbe anche darsi che un giorno, e forse anche prima
del previsto, qualcuno si ritrovi a rimpiangere il Sanremo che fu...
Tony Renis - già amico di mafiosi, ma quel che è più importante amico di
Berlusconi, che come tutti i potenti, fra le prime cose che fa, sistema gli
amici - da novello direttore artistico aveva promesso mari e monti: vi porto
Mina e Celentano, e Ramazzotti, e poi mezza Hollywood, tanto io basta che
alzi il telefono... E poi, visto che quei cattivoni delle grandi case
discografiche mi boicottano, sapete che faccio, io metto al centro del
festival la qualità delle canzoni. Solo grandi canzoni nel mio festival.
Sarà un grandissimo festival. Si è visto poi com’è finita.
Celentano è stato recuperato in extremis. Delle star nemmeno l’ombra, da
Hollywood è arrivato solo Dustin Hoffman, e a momenti gli facevano leggere
anche il telegiornale... Il livello qualitativo delle canzoni è stato medio
basso, di certo inferiore a quello dell’anno scorso (Cammariere, Britti,
D’Angelo, Giuni Russo, la stessa vincitrice Alexia...). Dal piattume di un
festival più vicino a Castrocaro che a Sanremo, si sono salvati in pochi:
Neffa, Mario Venuti (premio della critica), e poi Bungaro, Pacifico, Omar
Pedrini, forse Mingardi. Stop.
Simona Ventura (che quando le cose non vanno bene sa anche essere
arrogantina...) e la sua banda, con il rinforzo della strepitosa Paola
Cortellesi, hanno fatto quello che sanno fare: cioè «Quelli che Sanremo». La
formula - fresca, spigliata, ironica e autoironica, grazie soprattutto a
Gnocchi e Crozza - funziona la domenica pomeriggio su Raidue. Quasi meglio
ora che con l’inventore Fazio. Ma una cosa è una volta per settimana per un
pubblico che cerca e vuole quello. Altro è sciropparla per cinque sere di
fila, dalle nove a mezzanotte. Meglio della liturgia baudiana, certo, ma
perchè nella vita bisogna sempre soffrire...
Sanremo ha perso il suo zoccolo duro di spettatori, formato da persone
adulte e soprattutto anziane (che non a caso sono tornate all’ovile venerdì,
nella serata del revival...). Ma non ha guadagnato i giovani, che non
guardano la televisione, o se la guardano preferiscono - purtroppo - i
cervelli all’ammasso dei «reality show»: grandi fratelli, isole dei famosi,
talpe, bisturi e pivetti e tivù spazzatura di quella risma. Insomma, un cast
e una formula troppo nuovi per i tradizionalisti, ma non abbastanza vicino
ai gusti dei giovanissimi.
Appena ha visto la mala parata, Mister Quando Quando Quando ha detto: se i
dischi venderanno, avremo vinto. Il trucco è già pronto. Per la prima volta
la compilation del festival è in vendita anche nelle edicole, col potente
traino di «Sorrisi e Canzoni» (a tredici euro e 90, mentre quella taroccata
a Napoli la spacciano già a tre euro...). Perchè Sanremo è Sanremo. O almeno
lo era.
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