A pensarci, in fondo Francesco Guccini ha sempre cantato il passato. Quello della locomotiva anarchica e libertaria, quello delle osterie di fuori porta («ma la gente che ci andava a bere fuori o dentro è tutta morta...»), quello del suo personale Sessantotto, quello dei suoi giovani e meno giovani amori. Quello di Auschwitz e di Bisanzio, di Venezia e di Amerigo, della primavera di Praga e della signora Bovary.
Da scrittore, in questi anni, non è stato da meno. Ma la vera celebrazione del passato arriva ora con questo “Dizionario delle cose perdute” (Libellule Mondadori, pagg. 142, euro 10). Volumetto agile, intriso di pacata nostalgia per le cose, le situazioni, gli usi e le usanze che c’erano - quando lui, classe 1940, era ragazzo - e da tempo non ci sono più.
Sotto allora con la pettinatura a forma di banana che veniva inflitta ai bambini, con il “caffè caffè” che negli stenti del dopoguerra si distingueva dai vari surrogati, con le sigarette che si potevano comprare sfuse dal tabaccaio e magari fumare al cinema quando i salutisti divieti non si erano ancora diffusi. E ancora le braghe corte anche d’inverno, i guardaroba che si cambiavano solo a ogni nuova stagione, i costumi da bagno in lana, i giochi per strada con i tappi e le biglie e le fionde e le cerbottane, il telefono in duplex (ovvero una linea telefonica divisa fra due appartamenti vicini)...
Oggetti, abitudini, espressioni che la fine scrittura gucciniana mette a confronto con i corrispondenti - quando esistono - del presente. Sempre con un velo di pacata nostalgia, come si diceva, ma anche con l’amabile ironia che i frequentatori dei concerti del lungagnone di Pavana, appennino toscoemiliano, conoscono da sempre.
È un libro di foto ingiallite, da leggere tutto d’un fiato per chi ha più di quaranta o meglio cinquant’anni, per tornare al mondo e all’Italia in bianco e nero che sono stati spazzati via dal progresso, dalla tecnologia che viaggiano sempre più veloci.
Per tutti gli altri, per i ragazzi di oggi, per i cosiddetti “nativi digitali”, l’occasione per conoscere un mondo che non esiste più. Le cose, gli usi e i costumi dei propri genitori, dei propri nonni, attraverso una penna abile e colta.
Ma non si pensi alla retorica dei “bei tempi andati”. Guccini scrive e si comporta da asettico cronista del passato. Quello stesso passato che ha raccontato in tante canzoni, e che ora ritorna in un racconto che si legge come un romanzo. Il romanzo di quello che eravamo, forse per capire anche che cosa siamo diventati.
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