Pochi, fra i grandi cantautori, sono capaci di mettere a nudo i propri sentimenti - e di offrirli con sincerità e semplicità al pubblico - come Roberto Vecchioni. Nel suo nuovo spettacolo teatrale, seguito alla pubblicazione dell’album «Rotary Club of Malindi» e visto l’altra sera in un Politeama Rossetti non affollato come in suoi precedenti concerti, il sessantunenne cantautore milanese di origini napoletane - da poco in pensione come insegnante di lettere - conferma questa sua dote, alternando peraltro stati d’animo molto diversi fra loro.
Da un lato ride, scherza, regala battute su Berlusconi e sull’Inter, racconta una barzelletta, s’improvvisa persino (goffo) imitatore di Schifani e Biscardi... Dall’altro parla e canta spesso della morte, del distacco dalle cose terrene, dell’addio definitivo. Un tema che torna spesso nelle parole, dette e cantate, dello spettacolo. E che ha nelle metafore poetiche e struggenti di «Viola d’inverno» (da «Il lanciatore di coltelli», del 2002, l’altra sera in chiusura di primo tempo), in quelle solo apparentemente scanzonate di «Samarcanda» (classe 1977, album omonimo, l’altra sera in apertura di secondo tempo), nell’affresco toccante di «Dimentica una cosa al giorno» (dedicata alla madre che non c’è più, dal nuovo album), solo alcuni esempi. Fino a quel verso di «Pagando, s’intende», classico del ’75, proposto l’altra sera come primo bis: «Ho un patto con gli anni, cavalco, ho paura, mi tengo da sempre una mano sul petto, dovesse mai smettere, ascolta, di battermi il cuore...».
Accompagnato da una band di sette elementi (due le donne), apre lo spettacolo con «Le lettere d’amore», quelle dove «Fernando Pessoa chiese gli occhiali e si addormentò», brano che stava ne «Il cielo capovolto», disco del ’95, e che serve al nostro per la sua dichiarazione d’intenti: solo quelli che non hanno mai scritto una lettera d’amore fanno veramente ridere, e una lettera d’amore può essere anche uno sguardo, un gesto, una carezza. Subito dopo è tempo di «Nina Kuna?», dal nuovo album richiamato anche dalla scenografia dello spettacolo, con una grande struttura che dovrebbe rappresentare la fermata d’autobus immortalata nella copertina del disco, sovrastata dalla scritta che dà il titolo a quest’ultimo.
Vecchioni allude allo stress, alla depressione, malattie tipicamente occidentali. Lascia intendere che anche lui, bianco, borghese, democratico, è uscito da un periodo di crisi proprio grazie a questo viaggio in Africa, per l’esattezza in Kenya, dove ha riscoperto valori perduti e ritrovato anche nuova ispirazione. Un viaggio che diventa percorso interiore quasi terapeutico: un passaggio psicologico, una tappa per traghettare l’angoscia verso una ritrovata serenità.
Musicalmente, nel disco e nello spettacolo, di africano c’è ben poco: giusto qualche ritmo e qualche litania etnica nel brano citato e in quello che dà il titolo all’album, l’altra sera ultimo in scaletta prima dei bis. Sempre in bilico fra ironia e malinconia, sono altre le corde musicali che l’artista sa toccare in concerto. Il suo problema, semmai, è che i suoi veri capolavori sono quasi sempre vecchi di venti o trent’anni. E che non sempre, anzi, diciamo la verità, spesso le cose nuove non sono all’altezza dei classici. Lui, forte di una consolidata esperienza dal vivo (che da anni gli fa affidare a mani più sicure la chitarra che un tempo maltrattava...), si cava dall’impiccio alternando perle e episodi meno felici. E pescando a piene mani dal passato.
Il risultato finale è comunque gradevole e a tratti emozionante. Grazie soprattutto a «La mia ragazza», «Tommy», «Sogna ragazzo sogna», «L’uomo che si gioca il cielo a dadi» (roba del ’73, l’altra sera per chitarra e voce), «Ninni», «Stranamore»... Fra i bis, dopo la citata «Pagando, s’intende», è bello riscoprire «Figlia» e si sa che non può mai mancare «Luci a San Siro».
A Trieste, successo affettuoso. Stasera si replica al «Nuovo» di Udine.
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