venerdì 7 febbraio 2014

PAOLO ROSSI con Pupkin Kabarett: LA COSCIENZA DI ZENO SPIEGATA AL POPOLO

«Come faremo a spiegare “La coscienza di Zeno” al popolo? Facile. Ogni sera estrarremo a sorte un capitolo e poi vediamo cosa succede. Il nostro sarà uno spettacolo allucinato e visionario. Ma non ci occuperemo soltanto dell’opera di Svevo. Parleremo anche dei suoi “compagni di avventura”: Saba, Joyce, Giotti, persino Kafka e Freud...». Paolo Rossi è impegnato da qualche giorno a Trieste nelle prove de “La coscienza di Zeno spiegata al popolo”. Con lui quelli del Pupkin Kabarett (Stefano Dongetti, Alessandro Mizzi, Laura Bussani...), antichi sodali di tante sue avventure teatral musicali. «Fra l’altro - dice l’attore e musicista, classe 1953, nato a Monfalcone ma milanese di adozione - ho scoperto dai manifesti per le strade che negli stessi giorni in cui siamo in scena alla Sala Bartoli del Rossetti (debuttano martedì - ndr), sotto, al Politeama, c’è “La coscienza di Zeno” nell’adattamento di Tullio Kezich e con l’allestimento di Scaparro». È stato fatto apposta? «Questo non lo so. So che sarà un bel casino: magari gli spettatori prima vanno da loro, poi vengono da noi, poi ritornano da loro... Sempre senza capire nulla. Anche perchè la cosa migliore è comunque leggere il libro». Diceva dei manifesti per le strade. «Sì, hanno attaccato i nostri a fianco di quelli dello spettacolo con Giuseppe Pambieri. L’effetto è divertente. O almeno a me ha fatto ridere. Anche quei manifesti sono la rappresentazione simbolica dei due spettacoli: tradizionale l’uno, psichedelico l’altro». Voi da dove siete partiti? «Dalla constatazione che Trieste, agli inizi del Novecento, fu davvero una città importante per la nostra letteratura. L’opera di Svevo è in fondo una sorta di vademecum delle nevrosi moderne. Non a caso la città è stata importante anche nella storia della psicanalisi e tanti anni dopo della psichiatria». Ma non vi fermate a Svevo. «Assolutamente no. Spazieremo anche fra le pagine “scandalose” di Joyce, fra le poesie e l’umorismo di Umberto Saba, toccando alla nostra maniera anche le opere di altri scrittori e poeti triestini». Lei quando li ha letti? «Quando ho cominciato ad avvicinarmi a questi autori ero già lontano da Monfalcone. Ma io leggo alla mia maniera, sono un lettore assolutamente particolare. Concordo con il grande Pennac quando rivendica il diritto del lettore di mollare lì un libro, senza terminarlo, tutte le volte che ne ha voglia, che non è convinto». Classici da lei “mollati”? «Innanzitutto l’“Ulisse” di Joyce. Sono arrivato a pagina 67, poi non ce l’ho più fatta a riprenderlo. Con alcuni amici e conoscenti è in atto anche una piccola gara, fra chi è arrivato più avanti nella lettura...». Ha visto che bruciano i libri? «L’episodio del libro di Corrado Augias bruciato dopo le sue critiche a Grillo e al M5S è una cosa brutta, barbara, terribile. I libri non vanno bruciati mai. Io non brucerei nemmeno il “Mein Kampf” di Hitler, perchè tutti hanno diritto di leggere qualsiasi cosa, qualsiasi idea, qualsiasi libro». Lei è stato censurato? «Più volte, innanzitutto alla Rai. Ma la censura peggiore è quella che fanno ai giovani. Se censurano me, un palco o un microfono o una telecamera li trovo sempre. Ma la censura preventiva ai giovani, a chi non ha potere è la cosa peggiore». Libri bruciati a parte, dei recenti episodi alla Camera cosa pensa? «Penso che i grillini hanno fatto un autogol. Tutti hanno parlato delle violenze, della Boldrini e di Augias, e la protesta sull’Imu e la Banca d’Italia nello stesso decreto legge è passata in secondo piano. Anzi, diciamo pure che nessuno ne ha parlato più. Davvero, hanno fatto un grosso errore». Lei segue la politica? «Devo dire la verità: ormai faccio fatica. E mi dispiace. Io come artista non sono di nessuno, non appartengo a nessuno. Faccio le mie cose, dico le mie cose. Consapevole di vivere in un Paese che negli ultimi venticinque anni ha subito una pesante controrivoluzione culturale. Siamo messi male, insomma». Grillo? «L’ho già detto: un tempo scherzavo sul fatto che Berlusconi mi rubava il mestiere, mentre Beppe ha ormai deciso di rubare il mestiere a Berlusconi. Non credo sia più possibile che lui torni a fare il comico. Come è assolutamente impossibile che io fondi un partito: non ho il “physique du role” dell’eroe». Sanremo? «A momenti stavo per tornarci anche quest’anno, dopo le mie precedenti “incursioni”. Ma ho rinunciato. Lì c’è qualcosa che non ho mai capito. Io che ho fatto non tutto ma di tutto, dal night al teatro greco, non capisco come al Festival si crei tanta tensione, tanta emozione per quella che in fondo in fondo, scusate, è una cazzata...». Ma lei ci è andato e tornato. «Certo. Quella volta con Enzo Jannacci mi sono anche divertito. Fino a due minuti prima di entrare in scena, perchè poi riescono a trasmetterti una tensione davvero incredibile. E non ti diverti più». Approfondiamo. «Essere a Sanremo significa partecipare a una settimana di autentico delirio, penso anche per voi giornalisti. In quei giorni un cantante qualsiasi, anche debuttante, è letteralmente preso d’assalto ventiquattr’ore su ventiquattro. E quasi sempre il lunedì non se lo considera più nessuno. Io ci rido, per un ragazzo agli inizi può essere dura». Il Pupkin Kabarett? «Sono bravissimi, fanno il cabaret come lo intendo io: un luogo che, più che una trovata seriale di tre minuti con battute-tormentone, è una palestra di originalità e di follia dal gusto mitteleuropeo». Possono funzionare anche fuori Trieste? «Assolutamente sì. Sandro e Laura sono ottimi attori, Dongetti è un genio cabarettistico, per non parlare di Massimo Sangermano: fantastico. Hanno solo un problema: temono che il dialetto triestino non si capisca lontano da qui». E invece? «Invece il teatro è dialettale, non esiste il teatro “in lingua”. Goldoni in veneziano, Eduardo in napoletano, Govi in genovese, lo stesso Dario Fo nel suo grammelot lombardo. Il vero teatro o è in cadenza o è in dialetto». In Cina com’è andata? «Appunto. Abbiamo fatto un’opera buffa del napoletano Cimarosa, con sottotitoli, regia e costumi miei. Un vero trionfo. A dimostrazione dell’internazionalità del nostro teatro». Guardando indietro cosa non rifarebbe? «Se si riferisce ai film con Vanzina, nulla. Con quei film, con i soldi di De Laurentis, negli anni Ottanta finanziavo i miei spettacoli teatrali. Anche se i veri soldi, quella volta, li vinsi al casinò di Montecarlo. Dove si girava uno di quei film». Quando mette sù casa a Trieste? «Sono sempre un girovago. Vado e vengo da Milano. Ma prima o poi, l’ho già detto, prendo casa a Trieste. Ritorno vicino alle mie origini monfalconesi. Per ora, quando vengo qui, abito in un ottimo residence in Cavana. A due passi da piazza Unità e dal mare. Che cosa c’è di meglio...?».

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