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mercoledì 19 febbraio 2014
ULTIMA LIBERTÀ, libro Gaudino su eutanasia, fine vita, etc...
L’ultima bomba arriva dal Belgio, che ha appena approvato - dopo mesi di polemiche e manifestazioni di piazza, a favore e contro - una legge che estende anche al minore il diritto all’eutanasia. Ovviamente solo in caso di malattia terminale grave e incurabile, abbinata a una sofferenza costante e insopportabile che non possa essere alleviata. Se il minore è cosciente, con la prospettiva di un decesso a breve. E con il consenso di entrambi i genitori e l’approvazione di uno psicologo.
Condizioni dunque molto restrittive, ma la legge ha ovviamente scatenato polemiche su un tema molto delicato, con connotazioni etiche, mediche, filosofiche, religiose. Un tema che in Italia è legato al caso di Eluana Englaro (cinque anni fa, a Udine, fu interrotta la nutrizione artificiale, dopo diciassette anni di stato vegetativo) e negli Stati Uniti alla storia di Terri Schiavo (per lei l’interruzione avvenne nel 2005, dopo quindici anni di stato vegetativo e battaglie legali).
«Bisogna distinguere - dice Luigi Gaudino, triestino, docente universitario a Udine e autore di “L’ultima libertà” -. L’accettazione o il rifiuto di terapie, anche mediante direttive anticipate, è un diritto ormai riconosciuto in gran parte degli ordinamenti. Diverso è il caso del suicidio del malato terminale: solo alcuni Paesi (ad esempio, l’Oregon e la Svizzera) ammettono che il medico possa aiutare il paziente a compiere questo passo. C’è poi la vera a propria eutanasia: un intervento attivo del medico, su richiesta del paziente, con somministrazione di sostanze mirate a provocarne la morte».
Il Belgio?
«Come l’Olanda prevedeva già tale soluzione per i maggiorenni. Ora l’ha estesa ai minori, suscitando molte comprensibili perplessità. È stata varcata una soglia di grande impatto psicologico. Ma non credo si corra il rischio di una riduzione delle cure assicurate ai bambini malati terminali. Non soltanto occorre che venga accertata “la capacità di discernimento” del minore e che la domanda sia condivisa dai genitori, ma è necessario che il decesso sia imminente e che le sofferenze, costanti e insopportabili, siano del tutto intrattabili: eventualità che, grazie alle terapie palliative, appare improbabile. Se poco cambierà nelle corsie degli ospedali belgi, resta comunque qualche dubbio circa l’opportunità di formalizzare una regola di questo genere».
I casi di Terri Schiavo ed Eluana Englaro?
«Presentano affinità e differenze. In entrambi si trattava di persone rimaste in stato vegetativo per molti anni, la questione riguardava il rispetto delle volontà – espresse in precedenza dalle interessate in maniera informale – di rinunciare ai trattamenti che le mantenevano in vita. Mentre però negli Stati Uniti le regole erano da tempo consolidate, per l’Italia il caso Englaro ha rappresentato un’assoluta novità».
Dunque i giudici americani disponevano di precedenti.
«E di leggi che indicavano in maniera univoca la via del rispetto dell’autodeterminazione formulata dal paziente: l’esito del caso Schiavo – nonostante l’accanimento giudiziario, politico e mediatico – era abbastanza scontato. Da noi ci si è mossi nel silenzio del legislatore, interpretando i dati normativi disponibili e valorizzando i principi dettati dalla Costituzione».
In Italia invece il “fine vita” non è normato.
«No, manca una legge in materia. Ciò non significa che vi sia un vuoto di regole ma che queste sono frutto del lavoro dei giudici i quali hanno interpretato il diritto vigente muovendosi alla luce della Costituzione: soprattutto l’articolo 2, sui diritti inviolabili dell’uomo, il 32 sulla volontarietà dei trattamenti sanitari, il 13 sulla libertà personale».
Quindi il quadro italiano qual è?
«Al momento la regola, di origine giurisprudenziale, dice che nessuno può essere costretto a subire un trattamento sanitario, salvo che l’obbligo sia previsto da una legge la quale, a sua volta, può giustificarsi solo con esigenze di protezione dell’interesse collettivo. Fa eccezione il Trattamento sanitario obbligatorio, il Tso psichiatrico, che mira a tutelare lo stesso malato ed è giustificato dalla sua incapacità di autodeterminarsi».
E se la persona non è più in grado di esprimersi?
«Deve essere rispettata la sua volontà, precedentemente espressa e ricostruita in base alle prove disponibili: scritti, dialoghi con le persone a lei vicine...».
Negli Stati Uniti?
«Fin dagli anni Settanta le corti e le leggi di tutti gli Stati tutelano l’autodeterminazione del paziente. Il soggetto può dettare le sue volontà in un “living will” e può anche nominare un rappresentante che interloquisca con i medici. Ove ciò manchi, si ricostruirà la volontà del soggetto in base a quanto egli abbia comunicato alle persone a lui vicine, alla sua personalità, alle sue convinzioni etiche, filosofiche, religiose».
Dal punto di vista normativo quale paese ha la situazione migliore?
«È difficile fare una classifica. Ogni Paese ha le sue specificità e il suo modo di declinare la libertà delle persone in un campo così delicato. Questo tipo di problemi trova origine nelle conquiste della scienza medica e della tecnologia. È nei Paesi in cui la medicina moderna è accessibile che la morte ha smesso, in molti casi, di essere un evento naturale diventando una questione di decisioni».
E quando il soggetto rimane in uno stato di sospensione, nè di qua nè di là?
«È qui che nasce quel lessico al quale cominciamo ad abituarci: stato vegetativo, sindrome “locked-in”, stato di minima coscienza, la scelta di “staccare la spina”».
Il ruolo del Vaticano in Italia?
«La religioni esprimono tutte una loro posizione sui grandi temi della bioetica. E il dialogo fra credenti e laici è prezioso. A patto che nessuno cerchi di imporre forzatamente le proprie tesi».
E quello dei media?
«La responsabilità dei media è enorme. Un libro scientifico affronta il problema in profondità, ma vende mille copie. Un giornale può raggiungere milioni di lettori; la televisione entra in tutte le case. Tutti hanno il diritto di formarsi un’opinione in base a dati corretti. Ciò non sempre è accaduto».
Il futuro?
«Il diritto è spesso vissuto come divieti e minacce di sanzione. Ma in questo campo il meccanismo non funziona. È possibile invece costruire regole flessibili, adatte alla complessità dell’esistenza umana e alle difficoltà che tutti noi sperimentiamo quando la malattia ci rende deboli. È questa l’idea che ispira la proposta di legge, formulata da un gruppo di giuristi all’insegna del “diritto gentile” e attualmente giacente in Senato».
Cosa dice?
«Che servono regole adattabili alle molteplici realtà e in grado di tener conto degli interessi del malato, delle preoccupazioni dei medici, dei timori e delle speranze dei familiari. E la guida dev’essere l’autodeterminazione del soggetto, il rispetto della sua dignità e identità: somma della sua esperienza di vita, delle sue convinzioni, dei suoi più profondi desideri».
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