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lunedì 3 febbraio 2014
VELEMIR DUGINA, il ricordo di MONI OVADIA
di MONI OVADIA*
Velemir Dugina aveva la cavata dei violinisti russi. Ho sempre amato il violino, nei miei spettacoli gli ho sempre riservato un ruolo importante. E nel corso degli anni ho conosciuto tanti bravi violinisti. Ma quando sentii per la prima volta quel ragazzo, rimasi veramente colpito. Era la fine degli anni Settanta. Me lo fece conoscere un altro triestino, Alfredo Lacosegliaz. Il mio Gruppo folk internazionale si stava allora trasformando nell’Ensemble Havadià. Stavamo preparando il disco e lo spettacolo “Specchi”. Velemir venne a Milano, abitò per un periodo anche nella mia vecchia casa di piazza Napoli.
Ammiravo molto il suo modo di suonare. Ero incantato dalla sua grazia naturale, non costruita, non coltivata. Aveva negli occhi anche quella malinconia poetica tipica dei meticci, delle persone cresciute nelle terre di mezzo, fra le culture di confine.
Ricordo che in quelle settimane di preparazione dello spettacolo studiava con grande meticolosità dal manuale per violino di Jakob Dont. Studiava le mezze posizioni, ci metteva davvero l’anima, come tutti i grandi musicisti che non si fermano finchè non raggiungono il risultato desiderato. Velemir mi ha portato il sogno della musica dell’Est Europa come animus e come suono. Oltre alla lezione russa, conosceva la dimensione magica del violino irlandese, i gig, i reel della musica popolare.
Quando seppi, fu un grande dolore. Un talento così limpido, una vita così giovane. Poi mi tornò alla mente quel suo sguardo malinconico. E capii che questo mondo greve e volgare non era adatto a un’anima speciale come la sua.
(*Moni Ovadia ha concluso ieri al Teatro Miela le repliche de “Il registro dei peccati”; testo raccolto da Carlo Muscatello)
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