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giovedì 13 febbraio 2014
VENDITTI a trieste / 1
Ci sono quelli che fra una canzone e l'altra non dicono una parola neanche se li ammazzi. Antonello Venditti, il cui tour "70-80 Ritorno al futuro" ha fatto tappa ieri sera al Rossetti, è di un'altra pasta. Dipendesse da lui, probabilmente parlerebbe e basta. Giusto con qualche cantatina ogni tanto, fra una chiacchiera e l'altra. Si scherza, ovviamente. Ma anche ieri quindici minuti iniziali a ricordare il ragazzino grasso che era, la mamma anaffettiva professoressa di greco e latino, il padre viceprefetto che lo controllava alle prime manifestazioni studentesche, la nonna che lo portava sempre a messa... E poi, fra un brano e l'altro, la seconda e la terza e la quarta puntata della sua vita.
Ma al cantautore romano si perdona tutto, perché ha scritto tante bellissime canzoni. E dopo oltre quarant’anni di onorata carriera, dopo decine di classici già consegnati alla storia della canzone italiana, è normale che la sua “grande bellezza” si declini soprattutto al passato. Bene ha fatto, dunque, a dedicare il nuovo tour - che ha riempito il Rossetti di entusiasmo e ricordi - proprio ai classici degli anni Settanta e Ottanta.
Del resto, che il sessantacinquenne cantautore (compleanno l’8 marzo, con festa-concerto al PalaEur) faccia parte della “grande bellezza” della capitale lo ha capito anche Paolo Sorrentino, che nel film in corsa per l’Oscar lo fa comparire in un breve ma significativo cameo nel quale interpreta se stesso. E che sta a significare proprio questo: fra i simboli romani, quelli fra i quali si dipana l’esistenza di Jep Gambardella (Toni Servillo) c’è anche lui, Antonello nostro.
Ma torniamo al concerto. Prima parte pianoforte e voce, proprio come ai vecchi tempi, quelli degli esordi. Comincia con “Sora Rosa”, la sua prima canzone in assoluto, scritta in una domenica del ’63, casa borghese ai Parioli, Corso Trieste, quando nella sua cameretta il quattordicenne e grasso Antonello al pianoforte se ne viene fuori con quella melodia e quei versi crepuscolari. Prosegue con “Mio padre ha un buco in gola” e “Roma capoccia", "Campo de’ fiori” e "Le cose della vita”, ovviamente “Compagno di scuola": un salto nel passato di quarant’anni. Sembra di tornare ai tempi del Folkstudio, alba degli anni Settanta, album di debutto a quattro mani con Francesco De Gregori, s’intitolava “Theorius campus”, sembra ieri ed era il ’72.
E proprio come avveniva nei concerti degli anni Settanta (a Trieste a una Festa dell'Unità, al Teatro Cristallo, a San Giusto...), a un certo punto entra la band. E anche una ventina di giovani spettatori invitati sul palco. “Penna a sfera", "Le tue mani su di me” e poi una sfilata di nomi di donna: “Marta”, “Lilly” (“quattro buchi nella pelle...”), “Giulia”, “Sara”... C’è tutto un canzoniere che scorre come il film delle nostre vite. Sono le 23, il concerto è a metà. Secondo la scaletta arriveranno ancora "Sotto il segno dei pesci”, “Modena”, “Notte prima degli esami”, “Ci vorrebbe un amico”, "In questo mondo di ladri”... Pare che alla fine scenda anche Paolo Rossi, che alla Sala Bartoli - cioè al piano di sopra - ha appena debuttato con "La coscienza di Zeno spiegata al popolo". Dopo mezzanotte dovrebbero cantare assieme "Ricordati di me". Se Paolo si ricorda le parole...
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