mercoledì 2 giugno 2004

Ogni Paese può essere raccontato attraverso la propria musica. E tutta la musica che ascoltiamo oggi, con poche eccezioni, deriva dalle grandi famiglie della musica americana. Non si può che partire da qui per parlare di «Blues, jazz, rock, pop - Il Novecento americano - La guida a musicisti, gruppi, dischi, generi e tendenze» (Einaudi, pagg. 909, euro 19,80), monumentale opera a quattro mani dei giornalisti e critici di «Repubblica» Ernesto Assante e Gino Castaldo.

Centodiciotto capitoli attraverso i quali si dipana un percorso che parte dal blues delle origini e arriva ai suoni più aggiornati del presente, per raccontare appunto la storia del continente nordamericano. L’America che ha molte facce. L’America tanto amata e a volte anche odiata. Quella delle discriminazioni razziali ancor dure a morire e quella della grande stagione dei diritti civili, quella della nuova frontiera kennediana e quella che cerca di ergersi a gendarme del mondo, quella dei fucili e quella della non violenza, quella di Woodstock e quella del Vietnam, quella di Bob Dylan e quella di George Bush.

Sì, perchè il libro di Assante e Castaldo non è soltanto un manuale, un’opera specialistica alla quale attingere per trovare un nome, un titolo, un’indicazione. È una vera e propria storia, la storia di un grande Paese attraverso i suoni che ne hanno composto la colonna sonora e poi, quasi subito, prima in Occidente e poi «in ogni ’ddove», sono diventati la colonna sonora di tutto il pianeta.

Che poi, quella dell’America non è certo la storia di un Paese qualsiasi. Dalla presenza dei neri che ancora perpetuano suoni dell’Africa a quella dei bianchi delle città tanto diversi da quelli delle sterminate campagne e periferie, dall’arrivo di immigrati europei con le loro tradizioni alla progressiva integrazione di etnie lontanissime. In quello straordinario crogiuolo di popoli, razze, lingue e culture che forma il melting pot americano.

Fra italiani, russi, polacchi, cechi, ungheresi, finlandesi, croati, greci, turchi, ucraini, slovacchi, ebrei, armeni, libanesi, siriani, ma anche cinesi, filippini, giapponesi, messicani... Arrivavano da tutto il mondo - ci ricordano Assante e Castaldo - perchè l’America era la nuova terra promessa, o almeno così veniva percepita dall’esterno: un luogo dal quale poter ricominciare in libertà a costruire una vita, «un luogo dove lavoro e prosperità sembravano essere alla portata di tutti».

Ed è così che il cosiddetto mondo nuovo diventa, di pari passo, l’incredibile laboratorio di suoni che conosciamo. Nel 1910 un terzo della popolazione che viveva nelle dodici più grandi città degli Stati Uniti era nato all’estero e un altro terzo era figlio di immigrati. Ognuno con le proprie tradizioni, anche musicali.

Non a caso George Gershwin, che nel 1924 scrisse la celebre «Rhapsody in blue», confessò di averla costruita proprio «come un caleidoscopio musicale dell’America, con il nostro miscuglio di razze, il nostro favoloso brio nazionale, i nostri blues, la nostra follia metropolitana...».

I blues, appunto. Perchè comunque una storia - anche musicale - dell’America non può che partir da lì. Dal Delta del Mississippi dove forse la musica blues non è nata, ma dove di certo ha definito la sua forma e i suoi principali codici espressivi. Un’epopea che si è dipanata attraverso i nomi di Robert Johnson, di Johnny Lee Hooker, di Muddy Waters, di B.B.King...

W.C. Handy, da qualcuno chiamato «The father of the blues», raccontò di aver incontrato, viaggiando agli inizi del Novecento negli Stati del Sud, alcuni musicisti ambulanti che suonavano una musica per lui nuova. Girovaghi afroamericani, analfabeti, che nelle loro note dolenti esprimevano «il ricordo di una perdita, di un mondo mitico dal quale i neri furono strappati a forza, la sintesi di una storia antica da confrontare con un nuovo scenario».

Il bluesman si materializza così, fra la fine dell’Ottocento e i primi anni del Novecento, come artista nomade per eccellenza. I suoi sono i canti che gli schiavi intonavano nei campi di lavoro o nelle loro baracche. Suona una musica che è figlia dell’incontro fra cultura bianca e cultura nera, e che si diffonde inizialmente nelle strade e nelle campagne degli Stati americani del Sud.

Mentre i neri suonavano il blues, all’inizio del secolo la musica dei bianchi americani era quella rurale eseguita soprattutto da suonatori di banjo, da violinisti («fiddlers») e da «string bands» che attraversavano i vari stati, di fiera in fiera, di festa paesana in festa paesana, proponendo un repertorio basato essenzialmente su ballate e canzoni popolari dei loro luoghi d’origine. Molti di loro erano irlandesi, scozzesi, inglesi...

Ma queste, ovviamente, sono solo le origini. Il Novecento americano è poi segnato da eventi, personaggi, suoni che - come si diceva - sono quelli che scrivono l’agenda del secolo e del pianeta. Per restare al fatto musicale basti pensare a Broadway e ai musical, al jazz, al country, alla nascita del rock’n’roll con tutto quel che ne consegue.

La storia della musica americana - e dell’America - è ovviamente anche storia di donne e di uomini che ne hanno scritto le pagine più importanti. Da George Gershwin a Cole Porter, da Jerome Kern a Hoagy Carmichael, da Duke Ellington a Count Basie, da Louis Armstrong a Frank Sinatra, e con lui Bing Crosby, Nati King Cole, Billie Holiday...

Man mano che la musica pop e rock comincia a dettare il ritmo della nostra storia, i nomi dei protagonisti diventano attuali. E sono quelli di artisti scomparsi ma ancor presenti sulla scena come Elvis Presley, Jimi Hendrix, Jim Morrison, Janis Joplin. Oppure di grandi protagonisti ancora in attività come Bob Dylan, Joan Baez, Bruce Springsteen, Michael Jackson, Prince, Madonna...

Anche attraverso loro e le loro canzoni - che ritroviamo in questo volume - la musica popolare americana (la «pop music») è diventata la musica, il suono del nostro tempo. E non c’è musica etnica o moda più o meno passeggera che possa cambiar ciò.

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