È il 4 febbraio 1979. A Trieste, una domenica di nebbia. In tivù, di pomeriggio, c’è «L’altra domenica» di Renzo Arbore. Al Politeama Rossetti, la sera, suona Fabrizio De Andrè con la Premiata Forneria Marconi. Supporter: l’allora semisconosciuto David Riondino.
Ventisei anni e un paio di mesi dopo. Stasera, alle 21, sempre al Rossetti, ma in un’altra Trieste e tutto sommato in un’altra Italia, fa tappa «Pfm canta De Andrè», ovvero il tour che gli ex ragazzi della Premiata (visti l’estate scorsa anche in piazza Unità) hanno lanciato lo scorso anno per celebrare «i venticinque anni dal memorabile concerto che vide collaborare sul palcoscenico il gruppo con il grande cantautore». Purtroppo scomparso.
Ma torniamo a quella domenica di tanti anni fa. De Andrè era reduce dall’esperienza di «Rimini», il disco scritto assieme a Massimo Bubola e uscito nel ’78. Di lì a qualche mese, nell’agosto del ’79, l’artista sarebbe stato rapito con Dori Ghezzi in Sardegna. In mezzo, quel tour - cominciato il 13 gennaio ’79 a Firenze - immortalato subito dopo anche in due album dal vivo, con una Pfm che stava vivendo il momento d’oro del suo successo anche internazionale.
«Mi ispirai ad alcune riflessioni della nostra ultima tourneé americana - ricorda il batterista e cantante Franz Di Cioccio, cui si deve l'idea originaria del tour -, la voglia di sperimentare la nostra capacità espressiva a servizio di canzoni e poesie. Negli Stati Uniti erano frequenti le collaborazioni, Dylan con The Band, Jackson Brown con gli Eagles, insomma un modo di sublimare forme di espressioni musicali in un unico affresco. Noi, artigiani della musica (il nostro nome trae lo spunto dalla manualità, come in una bottega artigiana), e il poeta cantante. Mi sembrava la più bella cosa per chiudere un decennio di utopia...».
In quella Pfm già non c’erano più Mauro Pagani e Giorgio «Fico» Piazza. La formazione al Rossetti vedeva sul palco Flavio Premoli e Roberto Colombo alle tastiere, Franco Mussida alla chitarra, Jan Patrick Djivas al basso, Franz Di Cioccio alla batteria, Lucio Fabbri al violino (tranne Colombo e Fabbri, tutti ancora presenti). In mezzo a loro, al centro del palco, l’umbratile e geniale Fabrizio De Andrè. Un gruppo rock e il numero uno dei cantautori italiani di sempre: progetto per l’epoca ardito e coraggioso, dagli esiti comunque memorabili.
«De André in quel decennio - prosegue Di Cioccio - sia come autore che come musicista, ebbe un ruolo primario. Incarnava ciò che di poetico ognuno di noi si portava dentro. Le sue storie erano frustate ai benpensanti, erano la lente per guardare in fondo alle nostre coscienze, erano lo specchio dove erano riflessi anche i destini degli ultimi e dei più emarginati. Fabrizio era capace di rimodellare la realtà sofferente e farla diventare poesia. Come musicista ha sempre cercato una sponda collaborativa insieme ai suoi compagni di viaggio, con l'idea di non essere schiavo di mode e modi, ma seguendo un percorso più vicino ai canoni dell'avventura e della curiosità».
«La non ripetitività nell'arte è sempre un buon esercizio per salvaguardare la creatività. Pfm ha sempre fatto ogni disco differente dal precedente e anche Fabrizio aveva questa strana, sana attitudine...».
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