MONFALCONE Settantadue anni a giugno. Mezzo secolo di carriera musicale, considerando gli esordi nella Milano della seconda metà degli anni Cinquanta, quando il medico-cantante forma il suo primo gruppetto jazz con Giorgio Gaberscik, che non aveva ancora tagliato le ultime quattro lettere del cognome triestino. Enzo Jannacci - il cui tour fa tappa domani alle 20.45 al Comunale di Monfalcone, a chiusura del festival Absolute Poetry - all’epoca studiava medicina di giorno e suonava il pianoforte di sera, nei locali e localini notturni.
Padre maresciallo dell’aeronautica di origine meridionale e madre operaia, il giovane Enzo andava avanti così, fra borse di studio che gli permettevano di inseguire la laurea (conseguita nel ’67), studi all’università e al conservatorio, serate musicali pagate quattro soldi...
Questo che torna ancora una volta nella nostra regione, dopo il concerto di Cormons del mese scorso e quello di Latisana di ieri sera, è il tour dei cinquant’anni di carriera di uno dei caposcuola della canzone d'autore ma anche del cabaret di casa nostra. Uno degli artisti più creativi e originali di un panorama che non brilla né per creatività né per originalità.
Abbinato al doppio album antologico «The best», uscito nel novembre scorso e comprendente trentacinque canzoni, il nuovo spettacolo è l'occasione per vedere sul palco uno degli artisti più divertenti ma anche più impegnati della musica italiana. Uno che in scena canta e racconta le sue storie a volte un po’ surreali di vita quotidiana, mischiando musica e umorismo, jazz e rock’n’roll, cabaret e teatro. Un modo, il suo, di raccontare l'Italia, la gente qualunque, gli emarginati, quelli più strani...
«Lo spettacolo cambia in realtà ogni sera - spiega Jannacci -, io parto dalle mie canzoni, poi inserisco dei parlati, dei piccoli monologhi. Racconto delle storie, degli episodi di vita quotidiana di questa nostra Italia. Dipende molto dalla situazione che si crea in sala, con il pubblico...».
Teatro canzone?
«No, quello lo faceva il mio amico Giorgio Gaber. Ed era insuperabile...».
Il sociale quest’anno è arrivato persino a Sanremo...
«Non ho visto il Festival, ero in tour. Ma la canzone di Cristicchi l’ho sentita, è bella, mi sembra riuscita. E anche quella di Paolo Rossi, che era stato con me a Sanremo, sarà stato il ’94, con ”I soliti accordi”... Chissà, forse il merito è di Baudo, che come direttore artistico è sempre una garanzia, perchè sa dare spazio alla buona musica...».
Nel doppio ha inserito anche canzoni non molto conosciute dal grande pubblico...
«Avevo già fatto un paio di antologie. Stavolta ho voluto puntare su quelle che io considero le mie canzoni migliori, quelle che mi sono più care. E alcune in effetti non erano mai arrivate a una platea ampia. Penso a ”Soldato Nencini”, ma anche ad altre che per me sono importanti».
Tutte le canzoni sono state riproposte in una nuova veste.
«Sì, infatti la differenza con le raccolte precedenti è che stavolta tutti i brani sono stati completamente riarrangiati: una veste musicale nuova, che si deve al lavoro di mio figlio Paolo...».
Che lavora con lei ormai da tanti anni...
«È da diciassette anni che lavora con me, sia dal vivo che in sala d’incisione. Ora ne ha trentaquattro, quindi quando ha cominciato era giovanissimo. Sì, ovviamente sono molto soddisfatto di averlo al mio fianco. Lui è un musicista jazz, è molto bravo, anche se questo non devo dirlo io...».
Molti si sono sorpresi di trovare nel disco «Via del campo».
«Perchè non tutti sanno che l’avevo scritta io, con De Andrè. All’epoca non l’avevo firmata per motivi di Siae. Ma la musica era mia. Fra l’altro la melodia originale era quella di ”La mia morosa va alla fonte”, un brano che avevo scritto con Dario Fo. Quando anni fa abbiamo ricordato il grande Fabrizio con un tributo, mi è sembrato giusto ricordarlo così. E ora mi è sembrato altrettanto giusto inserire questa mia versione nel disco».
Adesso che è andato in pensione come medico avrà più tempo libero...
«Per la verità lavoro più di prima. Sì, sono andato in pensione ma come cardiologo esercito ancora. La medicina non l’ho mai abbandonata. Da quando studiavo all’università a Milano, da quando ho studiato e lavorato nove anni negli Stati Uniti, da quando ho fatto la specializzazione con Barnard... I miei malati non li abbandono mai».
Recentemente ha ritrovato Cochi e Renato, in occasione del loro ritorno in televisione.
«Non ci eravamo mai persi di vista. Anche recentemente, avevo scritto per loro ”Nebbia in Val Padana”, per quello che era stato il loro primo ritorno in televisione, anni fa, dopo una lunga assenza. Stavolta, con loro, ho ritrovato il mondo del cabaret milanese degli anni Sessanta e Settanta. Ho scoperto anche alcuni nuovi comici che sono davvero bravi...».
Raccontano una Milano molto diversa da quella in cui lei è cresciuto...
«Certo, è una Milano diversa da quella che consideravo la mia città. Ma è l’Italia intera che ha perso la sua identità. Questo è un Paese da ricostruire, ma non mi faccia continuare, che poi dicono che parlo sempre di politica...».
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