MANNOIA
Il primo applauso a scena aperta, ieri sera al Rossetti, una nerovestita Fiorella Mannoia l’ha incassato dopo un quarto d’ora. ”Le tue parole fanno male” di Cesare Cremonini, ”Cercami” di Renato Zero e ”Ho imparato a sognare” dei Negrita erano solo l’aperitivo. Ma quando è arrivata una versione straniata e straniante di ”Sally”, quasi jazzata, assolutamente da antologia, che forse neanche Vasco quando l’ha scritta e mille volte cantata se l’era mai immaginata così bella, beh, l’applauso è partito forte e spontaneo. E meritato.
Dicono che la signora dalla folta criniera rossa sia il controcanto femminile di una canzone d’autore storicamente declinata al maschile. Rivederla in concerto nel teatro triestino, dove mancava da tre anni, e dove un migliaio abbondante di fan vecchi e nuovi l’ha a lungo festeggiata, ci ha convinti anche di un’altra cosa: Fiorella, protagonista da tre decenni della nostra scena musicale, rappresenta oggi in Italia la quintessenza dell’interprete.
In un mondo di cantautori, nel quale anche chi non lo è cede prima o poi alla tentazione di cimentarsi nella scrittura, lei esalta il ruolo di chi ci mette la voce, ma anche il viso, il corpo, la gestualità, se vogliamo l’anima, per dar vita a parole, versi, storie scritti da altri.
Quasi come un attore che si cala nel personaggio che deve interpretare al cinema o a teatro, lei ha la capacità di far vivere le parole e i versi e le storie trasmettendo sempre emozioni al pubblico, che infatti la segue e la stima per questo. Non è una cosa da poco. E soprattutto non è una cosa di cui sono capaci in tanti.
Ieri sera, nella tappa regionale di questo suo ”Acoustic Tour” partito a fine marzo dal Teatro Regio di Parma, l’artista ha riletto quasi tutte le sue canzoni storiche perlappunto in versione acustica, accompagnata dalla nuova band (con il triestino Fabio Valdemarin al pianoforte) e da un quartetto d'archi.
Canzoni vecchie e nuove (quelle tratte dal recente ”Ho imparato a sognare”, uscito nel novembre scorso, come ”L’amore si odia” del duetto con la Noemi conosciuta a ”X Factor”) vengono quasi spogliate dei propri abiti e proposte nella loro nuda essenzialità. Risultando spesso più efficaci che nelle versioni a cui il pubblico era abituato.
La fossatiana ”Luna spina”, la classicissima ”I dubbi dell’amore” di Ruggeri, ”Sempre per sempre” di De Gregori sono solo alcuni dei brani che guadagnano da questo approccio arrangiativo minimalista. Ma l’interprete romana di nascita e milanese d’adozione è capace anche di sorprendere. Per esempio quando reinventa ”Una giornata uggiosa” di Mogol Battisti, quando si propone in versione no global con ”Clandestino” di Manu Chao, persino quando estrae il meglio dall’”Estate” dei Negramaro.
Ascoltarla dà una sensazione di leggerezza, quella leggerezza che la signora forse ha appreso dai brasiliani (Chico Buarque de Hollanda in primis: e anche ieri sera non poteva mancare la sua ”Oh che sarà”) con cui ha collaborato.
A tratti si ha come l’impressione che metta in scena l’orgoglio femminile, la voglia di autonomia, la necessità di riscatto presente oggi in tanta parte di quella che un tempo veniva chiamata l’altra metà del cielo. La qualità, la coerenza, una credibilità conquistata sul campo fanno il resto.
A Trieste, successo calorosissimo, con finale di altri classici (fra cui ”I treni a vapore”), di bis (la contiana ”Via con me”, ”Quello che le donne non dicono” cantata in coro, ”Il cielo d’Irlanda”) e di tutto il resto. Che con Fiorella Mannoia in scena non è mai poco.
MALCOLM McLAREN +
Non ci sarebbe stato il punk, senza i Sex Pistols. E non sarebbe mai esistita la band ”brutta sporca e cattiva” di Sid Vicious e Johnny Rotten, senza Malcolm McLaren, morto l’altro ieri nella sua casa di New York secondo alcuni, in un ospedale svizzero a sentir altri. Di certo aveva sessantaquattro anni, e da tempo era malato di cancro.
Dei Sex Pistols, McLaren non è stato solo il manager. Piuttosto l’inventore, l’agitatore culturale, lo stratega. Infanzia difficile, padre che abbandona la madre, figlio che viene cresciuto dalla nonna. Dopo gli studi in varie scuole d'arte, comincia a disegnare vestiti con la sua ragazza, una certa Vivienne Westwood.
Con la futura stilista fa un figlio nel ’67 (Joseph) e apre un negozio sulla celebre King’s Road, a Londra, nei primi anni Settanta. Lì, da ”Let it rock”, ci sono abiti e gadget per rocchettari d’ogni risma. Il negozio (ribattezzato successivamente ”Too fast to live”, poi ”Too young to die” e infine - nel ’74, di ritorno da un viaggio a New York - semplicemente ”Sex”) diviene la culla della rivoluzione punk e il ritrovo dei suoi primi adepti, fra magliette strappate, spilloni e abiti sadomaso.
Con quell’aggettivo che significa ”di scarsa qualità”, ”da due soldi”, viene identificata una musica rozza, rumorosa, poco complessa e diretta, che ogni ragazzo può suonare paradossalmente senza nemmeno avere cognizioni musicali. Quasi una risposta al ridondante progressive dei primi anni Settanta. Del punk i Sex Pistols sono i pionieri.
Prima di loro, McLaren aveva ”curato” le New York Dolls, ma l’impresa fu un fiasco e il gruppo si sciolse. Con la band di Sid Vicious (subentrato a Glen Matlock) e John Lydon (ribattezzato Johnny Rotten, ovvero ”il marcio”), che inizialmente si chiamava The Strand, le cose vanno diversamente. Messa al bando dalla Bbc, la trasgressiva e irrispettosa ”God save the queen” nel ’77 conquista i vertici delle classifiche durante il venticinquesimo anniversario dell'incoronazione della regina Elisabetta. Per l’occasione McLaren organizza un concerto della band su una barca sul Tamigi, davanti al palazzo del Parlamento. La barca viene fermata dalla polizia, il manager viene arrestato e tutto finisce in pubblicità gratuita.
I Sex Pistols durano poco. Sid Vicious morì suicida a ventun anni per un overdose di eroina. Il film ”The great rock'n'roll swindle”, la grande truffa del rock’nroll, diretto da Julien Temple, raccontò tutta la storia di McLaren e della band. Un capitolo della più grande storia del rock.
John Lydon: «Per me lui è sempre stato il divertimento. Sopra ogni cosa lui era un uomo di spettacolo. Mi mancherà, e anche a voi».
Vivienne Westwood: «Era una persona carismatica, speciale e di talento. Quando eravamo giovani e ci innamorammo, pensai che fosse una persona meravigliosa, e lo penso ancora».
Il suo agente: «Sarà sepolto a Londra, nello storico cimitero di Highgate di North London, non lontano da dove era nato...».
EDMONDO BERSELLI +
Edmondo Berselli non ce l’ha fatta. Il giornalista e scrittore è morto ieri all’ospedale di Modena, dov’era ricoverato da una settimana. Da un anno lottava contro il cancro. Era nato il 2 febbraio del ’51 a Campogalliano, in provincia di Modena. Giornalista e scrittore, si è occupato negli anni di politica, cultura, sport, televisione, gastronomia. Affermandosi come un attento osservatore della società italiana e come una delle voci più lucide ed eclettiche del nostro panorama politico e culturale.
Proveniente da una famiglia cattolica, nel ’76 comincia come correttore di bozze alla casa editrice Il Mulino, di cui diventa anni dopo direttore editoriale, prima di passare alla direzione dell’omonima rivista. Lì, in quel laboratorio culturale bolognese, nasce anche l’amicizia con Romano Prodi.
La carriera giornalistica vera e propria comincia invece negli anni Ottanta alla Gazzetta di Modena e al Resto del Carlino. Poi scrive tra l'altro per Il Sole 24 ore, Il Messaggero e La Stampa. Attualmente era editorialista dell’Espresso e di Repubblica.
Il debutto come saggista è del ’95, quando pubblica due libri: il volume di saggi ”L’Italia che non muore” e ”Il più mancino dei tiri”, sorta di saggio sull’eccentricità dedicato al calciatore dell'Inter Mariolino Corso, ripubblicato di recente.
In questi quindici anni, sempre in bilico fra inchiesta sociologica e reportage di costume, Berselli firma inoltre ”Post-italiani. Cronache di un paese provvisorio”, ”Quel gran pezzo dell'Emilia. Terra di comunisti, motori, musica, bel gioco, cucina grassa e italiani di classe", ”Adulti con riserva” (il racconto di «com'era allegra l'Italia prima del ’68», con gli occhi di un ragazzo nato negli anni Cinquanta), ma anche ”Canzoni” e ”Sarà una bella società”, opera teatrale sugli anni Cinquanta e Sessanta, affidata alla voce di Shel Shapiro, già cantante dei Rokes. Tributo a un’altra delle sue grandi passioni: la musica.
I suoi ultimi lavori sono ”Sinistrati. Storia sentimentale di una catastrofe politica”, uscito nel 2008, dopo la sconfitta del Partito Democratico alle ultime elezioni politiche, e nell’autunno scorso "Liù. Biografia morale di un cane". Qui, «approfittando di un periodo di attività solo parziale» (causato dalla malattia che ce l’ha portato via), guarda alla vita e all’Italia di oggi attraverso gli occhi della sua labrador di pelo nero. La politica, l’ideologia, forse anche le grandi speranze di un domani migliore sono messe da parte: rimane l’attenzione forse inedita e tutta particolare alla quotidianità, agli affetti, alle cose di tutti i giorni. Alternando la sfera privata a riflessioni sulla politica e su questa scassatissima Italia di inizio millennio.
Scrive Berselli: «Purtroppo, l’Italia di sinistra, scomparso il gran partito dei lavoratori, e sprofondata l’Atlantide comunista nel nero oceano della storia, ha lasciato una scia di indignazioni senza guida, di manie civili prive di obiettivo, di relitti regolarmente smodati, dove la legalità viene evocata di solito a martellate. In assenza di una guida riconoscibile, si è liberato un torrente di frustrazioni che tende a formare in particolare fronti di ostilità e di rancore. Ci vorrà del Prozac. L’Italia di destra, liquidato il ”partito zia”, è diventata un’estesissima famigliaccia al servizio del Sultano che c’è e di quelli che verranno».
Nel libro, toccante e spiazzante, il racconto del rapporto con Liù diventa quasi autobiografia dell’autore. Che confessa: «Ecco, con il passare del tempo mi è sembrato che tutto l’impianto culturale faticosamente tirato su in una trentina d’anni cominciasse a sgretolarsi, che le categorie e i parametri si sbriciolassero, e in fondo rimanessero solo episodi e citazioni, storie buffe e aneddoti rivelatori. Un modo, anche divertente, per descrivere la realtà, ma con la sensibile consapevolezza di aver perso il filo da qualche parte e di ritrovarlo solo con piccole rapsodie narrative».
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